Agevolazioni

Gli obiettivi e le verifiche nel piano di inserimento del contratto di rioccupazione

di Giampiero Falasca

Il contratto di rioccupazione è uno strumento su cui il Governo sembra puntare molto per contenere gli effetti occupazionali della pandemia e della fine del blocco dei licenziamenti; fiducia che rischia di essere tradita dai tanti, troppi vincoli e incertezze che rendono complesso e poco conveniente questo strumento.

Un elemento centrale del contratto, introdotto dal Dl 73/2021, è il «progetto di inserimento», mediante il quale dovrebbe trovare attuazione la finalità di «incentivare l’inserimento nel mercato del lavoro dei lavoratori in stato di disoccupazione». Per conseguire questo risultato, l’assunzione è subordinata alla definizione, con il consenso del lavoratore, di un progetto individuale di inserimento della durata di sei mesi, finalizzato a garantire l’adeguamento delle competenze professionali del dipendente al contesto operativo. Questo adempimento assume, quindi, una valenza centrale ai fini del contratto che è utilizzabile dal 1° luglio al 31 ottobre di quest’anno e garantisce un esonero contributivo pari al 100% dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro, fino a 3mila euro.

La legge non specifica in alcun modo quale contenuto debba avere il progetto di inserimento e quali sanzioni si applicano in caso di mancata o incompleta redazione o attuazione dello stesso; nessuna indicazione è giunta nemmeno dalla circolare Inps 115/2021.

Le imprese devono, quindi, redigere al buio questo documento, non potendo contare nemmeno su precedenti esperienze. È da escludere che il progetto di inserimento debba coincidere con il piano formativo del contratto di apprendistato, essendo diverse le finalità e i contenuti dei due documenti: se l’apprendistato mira al conseguimento di una qualifica mediante un percorso di formazione strutturata, il progetto di inserimento deve limitarsi a «garantire l’adeguamento delle competenze professionali del lavoratore stesso al nuovo contesto lavorativo»: un impegno molto generico che può trovare attuazione anche con interventi meno intensi di un vero e proprio piano formativo. Maggiori similitudini si possono identificare con i piani di inserimento previsti a corredo del contratto di inserimento introdotto dalla legge Biagi nel 2001, e poi abrogato, ma anche qui la similitudine è solo parziale.

I datori di lavoro non devono trasformare il piano di inserimento in un momento meramente burocratico e formale: è necessario indicare, con un sufficiente grado di dettaglio, quali azioni sono previste, quali sono le competenze su cui si intervieneo e quali sono le modalità con cui saranno attuate e verificate.

Questa attenzione servirà a evitare brutte sorprese in caso di mancata conferma del dipendente, possibile alla fine del periodo di inserimento, e dell’eventuale contenzioso che ne deriverebbe. In realtà, la legge non stabilisce una sanzione specifica in caso di mancata redazione o attuazione del progetto di inserimento (la norma si limita a imporre il rispetto dei principi generali di fruizione degli incentivi stabiliti dall’articolo 31 del Dlgs 150/2015, e fissare alcune fattispecie che determinano l’obbligo di restituzione degli incentivi).

Ma, anche in mancanza di una sanzione specifica, non si può escludere che, in caso di contenzioso sulla validità del recesso alla fine del periodo di inserimento, un lavoratore contesti l’utilizzo simulato del contratto di rioccupazione: una contestazione che, secondo una tecnica molto diffusa nella giurisprudenza, potrebbe portare a riqualificare l’intero rapporto, invalidando l’atto di recesso del datore.

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