Contenzioso

Sentenze dal 6 al 20 maggio 2014

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa e giudizio penale

Comportamento antisindacale e ricorso ex art. 28, Stat. lav.

Risarcimento del danno da perdita di chance

Lavoro giornalistico e collaboratore fisso

Licenziamento per giusta causa e giudizio penale

Cass., sez. lav., 6 maggio 2014, n. 9654

Pres. Vidiri; Rel. De Renzis; Ric. D.G.; Res. T. Spa

Giudizio civile e penale (rapporto) - Cosa giudicata penale - Autorità in altri giudizi civili - In genere - Sentenza penale di condanna o assoluzione del lavoratore - Efficacia nel giudizio relativo alla legittimità di licenziamento disciplinare - Limiti

Nel giudizio relativo alla legittimità del licenziamento disciplinare intimato ad un lavoratore sulla base di un fatto per il quale sia stata esercitata l'azione penale il giudicato penale non è opponibile alla società datrice di lavoro, rimasta assente in tale giudizio.

Giudizio civile e penale (rapporto) - Cosa giudicata penale - Autorità nel giudizio civile di danno - Giudicato di assoluzione - Effetti preclusivi - Condizioni - Limiti

Ai sensi dell'art. 652 c.p.p. (nell'ambito del giudizio civile di danni) e dell'art. 654 c.p.p. (nell'ambito di altri giudizi civili) il giudicato di assoluzione ha effetto preclusivo nel giudizio civile solo ove contenga un effettivo e specifico accertamento circa l'insussistenza o del fatto o della partecipazione dell'imputato e non anche nell'ipotesi in cui l'assoluzione sia determinata dall'accertamento dell'insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l'attribuibilità di esso all'imputato, ossia quando l'assoluzione sia stata pronunciata a norma dell'art. 530 c.p.p., comma 2.

Nota - La sentenza in esame tre spunto dal caso di un dipendente dalla società datrice di lavoro per aver abbandonato il posto di lavoro ed essersi reso responsabile di una aggressione in danno di un dirigente della società (colpito al volto con due schiaffi ed afferrato al collo). La società si rivolgeva al giudice del lavoro per sentir dichiarare la legittimità del licenziamento intimato al suddetto dipendente. I fatti in relazione ai quali il dipendente era stato licenziato erano stati, altresì, oggetto del procedimento penale conclusosi con sentenza del giudice di pace di assoluzione del dipendente ai sensi dell'art. 530 c.p.p., comma 2. Il Tribunale del lavoro escludeva l'efficacia del giudicato della sentenza di assoluzione in relazione all'art. 654 c.p.p., non avendo la società datrice di lavoro partecipato al processo penale e, sulla base del complesso probatorio acquisito e valutate le deposizioni di alcuni testi, riteneva sussistente la giusta causa di licenziamento, osservando che l'aggressione ai danni di un superiore gerarchico costituiva atto contrario alle norme della comune vita e del vivere civile ed era idonea a far venir meno il rapporto di fiducia. La Corte di appello, a seguito di impugnazione della sentenza da parte del lavoratore, confermava la decisione del primo giudice, condividendone le argomentazioni giuridiche circa la non vincolatività in sede civile ex art. 654 c.p.p. della sentenza di assoluzione ed escludendo la lamentata erronea valutazione delle risultanze probatorie. Il lavoratore ricorreva, pertanto, per Cassazione deducendo, tra gli altri motivi, violazione dell'art. 654 c.p.p., con riguardo all'efficacia vincolante della sentenza penale in ordine all'oggettività dei fatti storici accertati nel giudizio penale, dibattuti in sede civile e decisivi della controversia. In particolare, il ricorrente contestava al giudice di appello di non avere tenuto conto dei fatti storici accertati in sede penale, relativi alla distanza del luogo di lavoro dal luogo dell'aggressione, al tempo di percorrenza dal luogo di lavoro al luogo di aggressione, alla diversità del tipo di minacce o lesioni, all'assenza del movente dell'aggressione. La Corte di cassazione ha ritenuto infondato tale motivo sotto un duplice profilo. Sotto il primo profilo ha osservato che il giudicato penale non è opponibile alla società datrice di lavoro, rimasta assente in tale giudizio (cfr al riguardo Cass. n. 23483/ 2010; Cass. n. 4961/2010; Cass. n. 17652/2007). Sotto il secondo profilo ha ribadito, in conformità a consolidato indirizzo giurisprudenziale, che ai sensi dell'art. 652 c.p.p. (nell'ambito del giudizio civile di danni) e dell'art. 654 c.p.p. (nell'ambito di altri giudizi civili) il giudicato di assoluzione ha effetto preclusivo nel giudizio civile solo ove contenga un effettivo e specifico accertamento circa l'insussistenza o del fatto o della partecipazione dell'imputato e non anche nell'ipotesi in cui l'assoluzione sia determinata dall'accertamento dell'insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l'attribuibilità di esso all'imputato, ossia quando l'assoluzione sia stata pronunciata a norma dell'art. 530 c.p.p., comma 2 (cfr. Cass. n. 25538/2013; Cass. n. 3376/2011; Cass. n. 5676/ 2010, Cass. n. 20325/2006). Esclusa, quindi, l'efficacia vincolante della sentenza penale nel giudizio civile, a parere della Cassazione, la Corte territoriale aveva correttamente proceduto ad una autonoma valutazione del complesso probatorio in questione ai fini dell'accertamento della condotta del lavoratore e della sussistenza della giusta causa del licenziamento (in questo senso Cass. n. 13353/2012).




Comportamento antisindacale e ricorso ex art. 28, Stat. lav.

Cass., sez. lav., 9 maggio 2014, n. 10130

Pres. Lamorgese; Rel. Ghinoy; P.M. Celentano; Ric. T. Spa; Res. S.O.O.S.A.D.B.

Comportamento antisindacale - Ricorso ex art. 28, Stat. lav. - Ritardo nella proposizione del ricorso - Permanenza effetti lesivi - Ammissibilità del ricorso

Il mero ritardo della proposizione del ricorso non ne determina di per sé l'inammissibilità in presenza della permanenza degli effetti lesivi, tenuto conto che il solo esaurirsi della singola azione lesiva del datore di lavoro non può precludere l'ordine del giudice di cessazione del comportamento illegittimo ove questo, alla stregua di una valutazione globale non limitata ai singoli episodi, risulti tuttora persistente ed idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, suscettibile di determinare in qualche misura una restrizione o un ostacolo al libero esercizio dell'attività sindacale.

Nota - Un sindacato proponeva ricorso ex art. 28, Stat. lav., sul presupposto dell'antisindacalità della condotta tenuta da una azienda che aveva emanato disposizioni di comando, relativamente ad alcuni servizi indispensabili, in occasione di uno sciopero regionale. La fase sommaria si concludeva con l'accoglimento del ricorso, mentre, all'esito dell'opposizione, il Tribunale lo rigettava, rilevando l'assenza di tempestività dell'azione e la carenza di attualità della condotta lamentata. La Corte d'appello di Firenze riformava la sentenza. Avverso la decisione della Corte di appello la società proponeva ricorso per Cassazione, mentre il sindacato resisteva con controricorso. In particolare, la ricorrente ha censurato la sentenza di secondo grado nella parte in cui ha ritenuto sussistente il requisito dell'attualità della condotta denunciata dal sindacato, omettendo di considerare che essa aveva già realizzato la lesione dell'interesse collettivo e che il provvedimento di condanna non avrebbe comunque sortito alcun effetto, dal momento che il ricorso ex art. 28, Stat. lav. era stato depositato ben quaranta giorni dopo lo sciopero. La Suprema Corte ha confermato la decisione, ribadendo il consolidato principio per cui il ritardo nella proposizione del ricorso non ne determina, di per sé, l'inammissibilità se vi è permanenza degli effetti lesivi, tenuto conto che il solo esaurirsi della singola azione lesiva del datore di lavoro non può precludere l'ordine del giudice di cessazione del comportamento illegittimo ove questo, alla stregua di una valutazione globale, non limitata ai singoli episodi, risulti tuttora persistente ed idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, suscettibile di determinare in qualche misura una restrizione o un ostacolo al libero esercizio dell'attività sindacale (così anche Cass. 6 giugno 2005, n. 11741 e Cass. 12 novembre 2010).




Risarcimento del danno da perdita di chance

Cass., sez. lav., 14 maggio 2014, n. 10429

Pres. Stile; Rel. Lorito; P.M. Celeste; Ric. U. Spa; Contr. M.P.

Risarcimento del danno per perdita di chance - Oneri di allegazione e prova a carico del lavoratore - Nesso di causalità tra l'inadempimento datoriale e il danno - Necessità

In tema di risarcimento del danno connesso allo svolgimento di procedure selettive nell'impiego privato, incombe sul singolo dipendente l'onere di provare, pur se solo in modo presuntivo, il nesso di causalità tra l'inadempimento datoriale e il danno derivato dal mancato conseguimento della qualifica superiore. Tale prova è esaurita dalla dimostrazione del possesso di titoli poziori rispetto a quello di alcuni dei promossi solo quando l'attore sia collocato in graduatoria subito dopo l'ultimo dei promossi, occorrendo, invece, nell'ipotesi in cui egli sia preceduto da altri idonei non promossi, anche un raffronto con la posizione di tutti i candidati che lo precedono, dal quale emerga che l'illegittimità della procedura concorsuale espletata ha determinato la mancata promozione lamentata.

Giudicato interno - Capo autonomo della sentenza - Configurabilità - Condizioni

Costituisce capo autonomo della sentenza, come tale suscettibile di formare oggetto di giudicato anche interno, quello che risolve una questione controversa, avente una propria individualità ed autonomia, sì da integrare astrattamente una decisione del tutto indipendente.

Nota - Un lavoratore che, impugnando due procedure concorsuali per il riconoscimento della qualifica superiore, chiedeva l'annullamento delle stesse, nonché la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno consistente nella differenza tra la retribuzione per la qualifica superiore e quella percepita. L'allora pretore di Roma, a fronte dell'incompletezza della documentazione prodotta nel corso del giudizio dalla società datrice di lavoro, tale da non consentire di individuare i criteri utilizzati in sede di valutazione dei candidati ed in assenza di una graduatoria, annullava entrambe le procedure di promozione oggetto di impugnazione. Dichiarava, tuttavia, inammissibile la domanda di risarcimento danni, a fronte delle carenze allegatorie di parte attrice che non aveva fornito indicazioni precise sui nominativi degli esaminati, né aveva fornito la prova che egli sarebbe stato certamente incluso nell'elenco dei promossi. Su tale pronuncia si formava il giudicato. Con successivo ricorso, il lavoratore, ormai in pensione, proponeva, in via principale, nuovamente le domande avanzate nel pregresso giudizio e chiedeva, altresì, la condanna al pagamento delle differenze sul Tfr e sul trattamento pensionistico; in via subordinata, agiva per il riconoscimento del risarcimento del danno da perdita di chance. Il Tribunale di Roma respingeva la domanda. La Corte d'appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva la domanda principale, riconoscendo il risarcimento del danno commisurato alle differenze retributive e al trattamento pensionistico che l'appellante avrebbe percepito se avesse ottenuto la promozione richiesta. La Corte territoriale giungeva a tale conclusione, in quanto, a seguito dell'annullamento delle procedure concorsuali, disposta dalla pronuncia del pretore, il datore di lavoro non si era mai attivato a rinnovare le procedure concorsuali emendandole dai vizi che avevano condotto alla declaratoria di nullità. Inoltre, dalla documentazione versata in atti, risultava che il lavoratore aveva conseguito un punteggio più favorevole, quanto meno rispetto a tre concorrenti risultati vincitori, tale da far ritenere che, se i criteri di valutazione concorsuale fossero stati applicati correttamente, egli sarebbe risultato certamente vincitore. Avverso tale sentenza la società datrice di lavoro proponeva ricorso per Cassazione articolato in ben sette motivi di ricorso. Resisteva con controricorso il lavoratore. In particolare, con il primo motivo di ricorso, il datore di lavoro deduceva violazione e falsa applicazione dell'art. 2909 c.c. (ex art. 360, n. 3, c.p.c.), sul rilievo che la Corte di appello adita non poteva statuire in ordine al corretto svolgimento delle operazioni di comparazione tra i concorrenti ed alla possibile inclusione del lavoratore nel numero dei promossi, ostandovi la pronuncia del pretore di Roma, ormai passata in giudicato. Con il terzo motivo di ricorso, il ricorrente lamentava violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., avendo i giudici di merito invertito l'onere della prova in tema di domanda volta all'accertamento dell'illegittimità di una procedura concorsuale e di mancata promozione, ponendolo a carico dell'azienda e non sul lavoratore. Ed invero, la Corte territoriale ha limitato la comparazione della posizione del ricorrente con soli tre concorrenti dichiarati vincitori, sul presupposto che la lacunosità della documentazione prodotta dalla banca in relazione alle selezioni svolte, non potesse in alcun modo ricadere sul lavoratore. La Suprema Corte, in riforma della sentenza della Corte di appello di Roma, ha accolto il ricorso e rigettato la domanda proposta dal lavoratore. Ed invero, con riferimento al primo motivo di ricorso, la Suprema Corte, richiamandosi ad altri precedenti (cfr. ex plurimis Cass. 23.3.2012, n. 4732) ha evidenziato come la Corte di appello ha completamente omesso di considerare che sulla pronuncia del pretore di Roma che aveva inequivocabilmente stabilito che non risultavano acquisiti al giudizio elementi idonei a fondare il diritto del lavoratore, mancando dati precisi sul numero e sui nominativi delle persone esaminate si era ormai formato il giudicato. La suddetta pronuncia pretorile, infatti, affrontava una questione controversa dotata di una propria individualità e costituiva, pertanto, un capo autonomo della sentenza, suscettibile, in quanto tale, di formare oggetto di giudicato, anche "interno". La Suprema Corte ha rilevato, altresì, l'erroneità della pronuncia della Corte di appello, nella parte in cui ha ritenuto, pur a fronte dell'insussistenza di un obbligo in capo all'istituto di credito di rinnovare le procedure selettive, comunque configurabile una responsabilità per violazione dei canoni di correttezza e buona fede derivante dal mancato rinnovo delle stesse. La Suprema Corte ha poi accolto il terzo motivo di ricorso, sulla scorta dell'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale (Cass. 4.3.1992, n. 2598; Cass. 25.9.2012, n. 16233, Cass., S.U., 23.9.2013, n. 21678), secondo cui, in tema di procedure concorsuali nell'impiego privato, il lavoratore che, allegando l'illegittimo espletamento di un concorso per il riconoscimento di una qualifica superiore, agisca per ottenere la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, deve fornire la prova specifica del rapporto di causalità tra l'illegittimo espletamento del concorso e la mancata promozione, ossia la concreta sussistenza della probabilità di ottenere la qualifica superiore. In linea con tale principio, la Corte di cassazione, secondo quanto già evidenziato in altro precedente (Cass. 4.3.1992, n. 2598), ha chiarito che: a) tale onere probatorio è esaurito dalla dimostrazione del possesso di titoli poziori rispetto a quello di alcuni dei promossi, solo quando l'attore sia collocato in graduatoria subito dopo l'ultimo dei promossi; b) è, invece, necessario anche un raffronto con la posizione di tutti i candidati che lo precedono, nell'ipotesi in cui il lavoratore sia preceduto da altri idonei non promossi. La Suprema Corte ha, dunque, rilevato che la Corte territoriale non ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi, laddove ha ritenuto sufficiente, pur essendo il ricorrente preceduto da altri idonei non promossi, la comparazione dello stesso solamente con tre dei vincitori di concorso e non anche con tutti gli altri partecipanti alle procedure dichiarate nulle, che, come lui, erano stati dichiarati idonei non promossi e che lo precedevano. Tale passaggio motivazionale della Corte di appello è stato ritenuto dalla Suprema Corte inidoneo a superare la insanabile carenza allegatoria e a fortiori probatoria, in relazione al fatto costitutivo del diritto azionato, per non avere il lavoratore neanche allegato di ricoprire una posizione poziore rispetto ai partecipanti alle procedure, poi dichiarate nulle, che lo avevano preceduto pur non essendo stati promossi.




Lavoro giornalistico e collaboratore fisso

Cass., sez. lav., 20 maggio 2014, n. 11065

Pres. Vidiri; Rel. Napoletano; P.M. Mastroberardino; Ric. M.G.; Contr. P.E. Spa

Lavoro giornalistico - Vincolo della subordinazione - Qualifica di collaboratore fisso - Necessità della responsabilità dell'intero settore di informazione - Insussistenza

Ai fini della configurabilità della qualifica di collaboratore fisso, ex art. 2 Ccnl del lavoro giornalistico, la "responsabilità di un servizio" deve essere intesa come l'impegno del giornalista a trattare, con continuità di prestazioni, non necessariamente un intero settore bensì uno specifico settore o specifici argomenti d'informazione, attraverso la redazione sistematica di articoli o la tenuta di rubriche, con conseguente affidamento dell'impresa giornalistica che si assicura in tal modo la "copertura" di una specifica area informativa, contando, per il perseguimento di tali obiettivi, sulla piena disponibilità del lavoratore, anche nell'intervallo tra una prestazione e l'altra.

Nota - La Corte di appello di Firenze, nel confermare la sentenza di primo grado, aveva rigettato la domanda proposta da un giornalista tesa ad ottenere la declaratoria di sussistenza di un rapporto giornalistico subordinato come collaboratore fisso, con conseguente condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive. A fondamento della propria decisione la Corte di merito aveva posto la considerazione secondo la quale non era emerso, nel corso dell'istruttoria, che il ricorrente avesse assunto la responsabilità dell'intero settore - nel caso di specie, calcistico - nel quale operava, in quanto la sua prestazione si era inserita all'interno delle pagine del giornale, come uno dei numerosi contributi che componevano la cronaca quotidiana di argomento calcistico. Inoltre, sottolineava la Corte territoriale, le pattuizioni contrattuali intercorse tra le parti, denotavano la comune volontà di atteggiare il rapporto come collaborazione autonoma. Avverso tale statuizione il lavoratore propone ricorso per Cassazione denunciando violazione di legge e di contratto collettivo, in particolare, per errata individuazione della figura di collaboratore fisso. La S.C. osserva preliminarmente che costituisce principio di diritto nella giurisprudenza di legittimità l'affermazione secondo cui, in tema di attività giornalistica, sono configurabili gli estremi della subordinazione - tenuto conto del carattere creativo - del lavoro ove vi sia lo stabile inserimento della prestazione resa dal giornalista nell'organizzazione aziendale, così da poter assicurare il soddisfacimento di un'esigenza informativa del giornale attraverso la costante predisposizione di articoli su specifici argomenti o di rubriche e permanga, nell'intervallo tra una prestazione e l'altra, la disponibilità del lavoratore alle esigenze del datore (Cass. 12.2.2008, n. 3320). In particolare, per quanto attiene ai requisiti prescritti dall'art. 2 Ccnl del lavoro giornalistico (reso efficace erga omnes dal D.P.R. n. 153/1961), per la configurabilità della qualifica di collaboratore fisso, la "responsabilità del servizio" deve essere intesa come l'impegno del giornalista a trattare, con continuità di prestazioni, uno specifico settore o specifici argomenti d'informazione, attraverso la redazione sistematica di articoli o la tenuta di rubriche, con conseguente affidamento dell'impresa giornalistica, che si assicura in tal modo la "copertura " di un'area informativa, contando altresì sulla piena disponibilità del lavoratore, anche nell'intervallo tra una prestazione e l'altra (cfr. Cass. 29.7.2004, n. 14427). La S.C. ritiene che i giudici di merito non si siano attenuti a tali princìpi, laddove hanno ritenuto che, nel caso di specie, il giornalista non fosse responsabile dell'intero settore nel quale operava. In tal modo, però, ad avviso dei supremi giudici, la Corte fiorentina non ha considerato che la "responsabilità del servizio" va intesa, come impegno del giornalista a trattare, con continuità, uno specifico settore o specifici argomenti di informazione, e non come responsabilità dell'intero settore. Né, infine, è corretto, sempre secondo la Cassazione, al fine di escludere la natura subordinata del rapporto, avere riguardo esclusivamente al contenuto delle pattuizioni contrattuali e non anche al concreto atteggiarsi del rapporto. In tal senso i giudici di legittimità hanno più volte sottolineato che, ai fini della qualificazione del rapporto come autonomo o subordinato, occorre far riferimento ai dati fattuali che emergono dal concreto svolgimento della prestazione, piuttosto che alla volontà espressa dalle parti al momento della stipula del contratto di lavoro, in particolare nei casi di difficile qualificazione - come nell'ipotesi in esame - a causa della natura intellettuale dell'attività svolta (Cass. 15.6.2009, n. 13858). Alla luce di quanto sopra, la S.C. accoglie il ricorso proposto e, conseguentemente, cassa con rinvio la sentenza impugnata.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©