Contenzioso

Rassegna della Cassazione 14 - 19 maggio 2014

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Sicurezza sul lavoro e danno da esposizione all'amianto

Trasferimento di ramo d'azienda

Licenziamento e prove raccolte in un giudizio penale

Orario di lavoro e deroghe

Sicurezza sul lavoro e danno da esposizione all'amianto

Cass., sez. lav., 14 maggio 2014, n. 10425

Pres. Miani Canevari; Rel. Buffa; P.M. Sepe; Ric. R.F.I. Spa; Controric. L.M.R.

Sicurezza sul lavoro - Danno da esposizione all'amianto - Assenza di specifiche disposizioni preventive per l'esclusione dell'esposizione a sostanze pericolose - Adozione da parte del datore di lavoro delle misure generiche di prudenza secondo le conoscenze del tempo, anche se ciò comporta la modifica dell'attività lavorativa - Necessità - Onere della prova a carico del datore di lavoro - Sussiste - Conseguenze

In tema di sicurezza sul lavoro, qualora sia accertato che il danno patito dal lavoratore è stato causato dalla nocività dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo, secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, escludendo l'esposizione alla sostanza pericolosa, anche qualora ciò abbia imposto la modifica dell'attività dei lavoratori, assumendo in caso contrario a proprio carico il rischio di eventuali tecnopatie.

Nota - Con la sentenza in commento la Corte di cassazione conferma la decisione del giudice di merito che aveva accolto la domanda, proposta dagli eredi del lavoratore, avente ad oggetto il risarcimento del danno biologico e morale derivante dalla morte del loro dante causa quale conseguenza di una patologia contratta nell'espletamento del rapporto di lavoro.

In particolare, nel caso di specie la Corte d'appello adita aveva riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro in relazione alla morte per carcinoma del lavoratore che aveva svolto mansioni di macchinista ed era perciò stato a contatto con materiali di amianto, all'epoca usati ampiamente per la coibentazione nei locali attigui alle cabine di guida dei locomotori. La Corte territoriale aveva infatti ritenuto che all'epoca fosse già noto il rischio relativo all'amianto e che i tempi di latenza della patologia potevano ben spiegare che la prima diagnosi della stessa fosse stata successiva di due anni alla cessazione del rapporto lavorativo. Peraltro, secondo il giudice di merito, l'esistenza della patologia del lavoratore e del nesso di derivazione causale dall'attività lavorativa era stata riconosciuta in concreto dallo stesso datore di lavoro, che aveva corrisposto agli eredi del lavoratore una pensione privilegiata sul presupposto espresso che il decesso del dante causa fosse dipeso da eventi connessi con le mansioni espletate.

La Corte di cassazione nel rigettare il ricorso del datore di lavoro, che sosteneva di aver fatto tutto quanto in suo potere - con riferimento alle conoscenze dell'epoca - per preservare la salute dei propri dipendenti, osserva come la giurisprudenza di legittimità abbia ripetutamente affermato (tra le tante, si veda la sentenza n. 15156 dell'11 luglio 2011) che la responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c., pur non essendo di carattere oggettivo, deve ritenersi volta a sanzionare l'omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio. Tale principio è stato specificamente applicato dalla Suprema Corte con riferimento al rischio da esposizione all'amianto (cfr. Cass. 1° febbraio 2008, n. 2491 e Cass. 14 gennaio 2005, n. 644) ed è stato recentemente ribadito con la sentenza del 5 agosto 2013, n. 18626, secondo la quale la responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 c.c., pur non configurando un'ipotesi di responsabilità oggettiva, non è circoscritta alla violazione di regole d'esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, essendo sanzionata dalla norma l'omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l'integrità psico-fisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico. Pertanto, qualora sia accertato che il danno patito dal lavoratore è stato causato dalla nocività dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, essendo irrilevante la circostanza che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all'introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto.

Alla luce di quanto precede e posto che nel caso di specie, come rilevato dalla Corte di merito adita, il rischio da esposizione all'amianto era noto sin dall'inizio degli anni '80, vista l'esistenza di varie direttive comunitarie in materia e, dunque, anche all'epoca dei fatti, la Suprema Corte afferma nella pronuncia in commento che, anche in assenza di una normativa specifica di prevenzione, il datore di lavoro aveva comunque il dovere di evitare l'esposizione dei propri dipendenti alla sostanza pericolosa, anche se ciò avesse imposto l'adozione di interventi drastici, fino alla stessa modifica dell'attività dei lavoratori, assumendo in caso contrario a proprio carico il rischio di eventuali tecnopatie.



Trasferimento di ramo d'azienda

Cass., sez. lav., 19 maggio 2014, n. 10926

Pres. Stile; Rel. Amendola; P.M. Celeste; Ric. L.G più altri; Controric. E. Spa in liquidazione

Trasferimento d'azienda - Ramo aziendale - Caratteristiche essenziali - Autonomia funzionale

Anche in seguito alle modifiche apportate dall'art. 32 D.Lgs. n. 276/2003 il requisito della "autonomia funzionale", che si caratterizza per la sua oggettività, costituisce presupposto indefettibile perché possa configurarsi un trasferimento di ramo d'azienda sussumibile nell'ambito di operatività di detta norma, quale elemento dell'organizzazione intesa come legame funzionale che rende le attività dei dipendenti appartenenti al gruppo interagenti tra di esse e capaci di tradursi in beni e servizi ben individuabili.

Nota - Tre lavoratori hanno impugnato la cessione del loro contratto di lavoro - da una prima azienda ad una seconda e, successivamente, da quest'ultima ad una terza - contestando la sussistenza dei presupposti per l'applicabilità della disciplina contenuta nell'art. 2112 c.c.

Il Tribunale di Palermo ha rigettato le richieste e la Corte d'appello, dopo aver espletato consulenza tecnica, ha confermato la decisione, ritenendo che le cessioni in questione fossero sussumibili nella fattispecie delineata dall'art. 2112 c.c.

Avverso tale decisione i lavoratori hanno proposto ricorso in Cassazione affidato a due motivi.

Con il primo motivo si assume la violazione dell'art. 2697 c.c. e si censura la sentenza di appello in quanto, nel delegare ad una Ctu l'accertamento della sussistenza dei presupposti necessari per la configurazione del trasferimento di ramo d'azienda, la Corte avrebbe sollevato il datore dall'onere - su di lui incombente - di provare tali circostanze.

Con il secondo motivo si lamenta violazione dell'art. 2112 c.c. per avere la Corte territoriale ritenuto sussistente il requisito dell'autonomia funzionale del ramo trasferito nonostante numerose circostanze dimostrassero il contrario.

La Suprema Corte per connessione analizza congiuntamente le censure e le respinge entrambe, evidenziando la correttezza dell'iter logico-argomentativo seguito dalla Corte territoriale che, dopo aver compiuto un approfondito excursus dell'istituto, della sua evoluzione normativa e delle interpretazioni giurisprudenziali - anche a livello comunitario - ha ritenuto sussistente il requisito dell'autonomia funzionale del ramo.

In particolare i giudici del gravame hanno premesso che tale elemento è sempre rimasto indispensabile ex art. 2112 c.c., anche dopo le modifiche legislative apportate con la legge n. 18/2001 e con l'art. 32, D.Lgs. n. 276/2003 (Cass. 16 ottobre 2006, n. 22125), il che è coerente con la disciplina contenuta nelle direttive europee in materia (Direttiva 12 marzo 2001, n. 2001/23/ Ce, che ha proceduto alla codificazione della direttiva 14 febbraio 1977, n. 77/187/Ce, come modificata dalla direttiva 29 giugno 1998, n. 98/50/Ce) così come costantemente interpretate dalla Corte di giustizia. Del resto, come sottolineato dalla Suprema Corte, il criterio dell'autonomia funzionale del ramo ceduto è proprio lo strumento che consente di evitare forme incontrollate di espulsione dei personale, pertanto è del tutto corretta la sentenza di merito che ha assunto il canone della "articolazione funzionalmente autonoma" di un'attività economica organizzata quale requisito indispensabile per configurare una valida cessione del contratto di lavoro senza il consenso del lavoratore ceduto.

Sulla basi di tale premesse giuridiche la Corte territoriale, mediante ausilio di Ctu, ha poi riscontrato nella concreta fattispecie che il ramo ceduto era dotato di una "stabile e consolidata autonomia funzionale organizzativa ", con una valutazione di merito che, essendo espressa con motivazione sufficiente, non contraddittoria e formalmente coerente, sfugge al sindacato di legittimità (Cass. 30 marzo 2112, n. 5117; Cass. 21 novembre 2012, n. 20422; Cass. 30 gennaio 2013, n. 2151).

In ordine al secondo motivo la Suprema Corte precisa poi che l'utilizzo della consulenza tecnica rientra tra i poteri discrezionali del giudice del merito che, comunque, in tal modo non ha esonerato il datore da alcun onere, essendo la Ctu un mero strumento di valutazione di fatti già allegati ed acquisiti al processo, che serve solo a coadiuvare il giudice nella loro valutazione, ma non altera il riparto degli oneri probatori.



Licenziamento e prove raccolte in un giudizio penale

Cass., sez. lav., 15 maggio 2014, n. 10662

Pres. Roselli; Rel. Tria; P.M. Celentano; Ric. P.M.P.; Controric. I.S. Spa

Licenziamento - Prove raccolte in un giudizio penale - Utilizzo nel processo civile - Ammissibilità

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità ben può il giudice civile utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale già definito, ancorché con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, ponendo a base delle proprie conclusioni gli elementi di fatto già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede e sottoponendoli al proprio vaglio critico (vedi per tutte: Cass. 16 maggio 2000, n. 6347; Cass. 7 febbraio 2005, n. 2409; Cass. 19 ottobre 2007, n. 22020; Cass. 27 aprile 2010, n. 10055; Cass. 29 ottobre 2010, n. 22200; Cass. 30 gennaio 2013, n. 2168; Cass. 21 giugno 2013, n. 15673).

Nota - La Corte di appello di Roma, riformando la sentenza di primo grado, dichiarava la legittimità del licenziamento intimato alla sig.ra P., rivestente la qualifica di quadro nell'ambito del settore fidi della società appellata, in relazione alle medesime accuse che le erano state formulate in sede penale di associazione per delinquere, estorsione, falso e ricettazione aggravati.

La Corte territoriale rigettava inoltre l'appello incidentale proposto dalla P. diretto ad ottenere la riforma della sentenza di primo grado nella parte in cui aveva accertato la specificità della contestazione disciplinare posta a base del licenziamento.

Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione la P. articolato in cinque motivi.

In particolare la P. sosteneva che erroneamente la Corte territoriale avesse ritenuto sufficientemente specifica la contestazione disciplinare posta a fondamento del licenziamento impugnato, atteso che il richiamo per relationem contenuto nella contestazione medesima all'atto di rinvio a giudizio in sede penale, data la complessità di quest'ultimo atto riferito a più persone cui erano contestati diversi reati, non consentiva di individuare le singole azioni ed omissioni di cui la P. avrebbe dovuto rispondere in sede disciplinare.

Inoltre, sotto il profilo probatorio, riteneva la P. che la sentenza impugnata andasse riformata nella parte in cui aveva desunto la dimostrazione della partecipazione della ricorrente allo svolgimento delle attività illecite contestate sulla base delle sole circostanze recepite dalla sentenza penale di primo grado che, peraltro, aveva assolto la P. riguardo al reato di estorsione mentre aveva dichiarato la prescrizione degli altri reati, senza tener conto delle prove espletate in sede civile e senza nemmeno acquisire i verbali di udienza del procedimento penale, ove erano contenute le prove raccolte nel predetto procedimento.

La Cassazione ha rigettato il ricorso sulla base delle seguenti considerazioni.

In primo luogo, con riferimento alla questione relativa alla specificità della contestazione, la Suprema Corte, confermando il consolidato orientamento espresso dalla medesima Corte sul punto, ha rilevato l'assoluta incensurabilità della sentenza impugnata nella parte in cui aveva correttamente ritenuto che la contestazione disciplinare dovesse considerarsi sufficientemente specifica, essendo pienamente ammissibile la contestazione per relationem mediante il richiamo ad atti del procedimento penale instaurato a carico del lavoratore. Anche in tale ipotesi, infatti, risultano rispettati i principi di correttezza e garanzia del contraddittorio (nello stesso senso, tra le molte, Cass., S.U., 9 marzo 1996, n. 1921; Cass. 3 marzo 2010, n. 5115; Cass. 17 novembre 2010, n. 23223).

Sotto il profilo probatorio la Suprema Corte ha inoltre ritenuto che la Corte territoriale si fosse correttamente conformata al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in base al quale "il giudice civile può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale, già definito, ancorché con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, ponendo a base delle proprie conclusioni gli elementi di fatto già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede e sottoponendoli al proprio vaglio critico, mediante il confronto con gli elementi probatori emersi nel giudizio civile (vedi per tutte: Cass. 16 maggio 2000, n. 6347; Cass. 7 febbraio 2005, n. 2409; Cass. 19 ottobre 2007, n. 22020; Cass. 27 aprile 2010, n. 10055; Cass. 29 ottobre 2010, n. 22200; Cass. 30 gennaio 2013, n. 2168; Cass. 21 giugno 2013, n. 15673)".

Ed infatti, ha osservato la Cassazione che la Corte territoriale avesse correttamente sottoposto al proprio vaglio critico gli elementi di fatto risultanti dalla sentenza penale, già acquisiti con le garanzie di legge in tale sede, valutandone la rilevanza al fine della negazione del vincolo di fiducia che connota il rapporto di lavoro nonché la riconducibilità agli illeciti disciplinari previsti dal Ccnl applicabile.

Né poteva ritenersi necessaria la previa acquisizione degli atti del processo penale, ben potendo il giudice civile fondare il proprio convincimento sulle risultanze di una sentenza penale senza disporre la previa acquisizione degli atti del processo penale qualora, per la formazione di un razionale convincimento, ritenga sufficienti le risultanze della sola sentenza (Cass. 13 maggio 1982, n. 2968; Cass. 15 dicembre 2000, n. 15826; Cass. 29 ottobre 2010, n. 22200).

Per le ragioni esposte la Cassazione ha rigettato il ricorso.



Orario di lavoro e deroghe

Cass., sez. lav., 23 maggio 2014, n. 11574

Pres. Vidiri; Rel. Blasutto; P.M. Mastroberardino; Ric. I.H. Spa; Controric. M.d.S., D.P.L.C.

Lavoro subordinato - Orario di lavoro - Disciplina legale - Possibilità di deroga da parte del singolo lavoratore - Esclusione

Il potere di deroga dei limiti relativi all'orario di lavoro imposti dal D.Lgs. n. 66/2003 è riconosciuto alla contrattazione collettiva, poiché il legislatore riconosce loro l'idoneità a tutelare e proteggere gli interessi e i diritti dei lavoratori, mentre non è riconosciuto al singolo lavoratore, in considerazione della posizione di debolezza contrattuale in cui è posto nei confronti del datore di lavoro, con la conseguenza che la disciplina legale dell'orario di lavoro non può essere validamente derogata per effetto della rinuncia ai relativi diritti da parte del lavoratore.

Nota - Con la sentenza in commento la Corte di cassazione ha confermato la decisione della Corte d'appello di Milano che, riformando la pronuncia di primo grado, aveva rigettato il ricorso promosso dalla società avverso le ordinanzeingiunzione emesse dalla Direzione provinciale del lavoro di Como per il pagamento di sanzioni derivanti da violazioni dei limiti relativi all'orario di lavoro imposti dal D.Lgs. n. 66/2003.

Con il primo motivo di ricorso la società ha affermato che la Corte d'appello aveva errato nel ritenere inammissibile la deroga da parte dei singoli lavoratori interessati ai limiti imposti dalla disciplina in questione, non essendo prevista dal D.Lgs. n. 66/2013 un'espressa esclusione di tale facoltà.

Sul punto, la Corte di cassazione ha affermato innanzitutto che la direttiva n. 104/93/Ce del 23 novembre 1993 (unitamente alla successiva direttiva n. 2000/ 34/Ce) ha definito alcuni basilari principi in materia di organizzazione dell'orario di lavoro, riguardanti in particolare l'orario settimanale, i riposi, le pause giornaliere, il lavoro notturno e i ritmi di lavoro, il riposo settimanale e le ferie annuali, con l'intento di introdurre principi di salvaguardia della salute e sicurezza dei lavoratori dei Paesi dell'Unione europea, e che tale direttiva ha portato all'emanazione nel nostro ordinamento del D.Lgs. n. 66/2003, che prevede specifici limiti massimi dell'orario di lavoro giornaliero e settimanale, limiti al ricorso al lavoro straordinario e notturno, la disciplina dei riposi giornalieri e settimanali, nonché un apparato sanzionatorio in caso di violazione dei predetti limiti.

L'art. 17 della predetta norma contempla anche la facoltà, riconosciuta alla contrattazione collettiva, di derogare, entro determinati limiti e a determinate condizioni, alla disciplina legale relativa ai riposi giornalieri, alle pause, alle modalità di organizzazione e durata del lavoro notturno.

Ciò premesso in linea generale, la Corte ha affermato che nel caso di specie non può sicuramente trovare accoglimento l'argomento addotto dalla società circa la possibilità di deroga da parte del singolo lavoratore interessato dal superamento dei limiti dell'orario di lavoro, vista la mancanza di un'espressa previsione che la escluda. Si tratta, a detta della Corte, di un'interpretazione in palese e radicale contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento (interno e comunitario) che ha dettato una disciplina vincolistica a tutela del lavoratore, derogabile solo ad opera della contrattazione collettiva e nei limiti e con le modalità stabilite dalla legge, mentre il mancato esercizio della facoltà di deroga ad opera delle parti sociali comporta l'operatività diretta delle garanzie e dei limiti legali, con conseguente applicazione delle sanzioni stabilite in caso di violazione.

Poiché nel caso di specie la sentenza impugnata, applicando correttamente i suddetti principi, aveva ritenuto che il potere di deroga è riconosciuto alle Op.Ss. non in quanto "rappresentanti privatistici dei lavoratori", ma perché il legislatore riconosce loro l'idoneità a tutelare e proteggere gli interessi e i diritti, mentre tale idoneità è esclusa rispetto al singolo lavoratore, in considerazione della posizione di debolezza contrattuale in cui è posto nei confronti del datore di lavoro, con la conseguenza che la disciplina legale dell'orario di lavoro non può essere validamente derogata per effetto della rinuncia ai relativi diritti da parte del lavoratore", la Corte ha rigettato il ricorso della società.

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