Contenzioso

Rassegna della Cassazione 22 maggio - 6 giugno 2014

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Sulla qualifica dirigenziale

Sospensione cautelare e perdita della retribuzione

Trasferimento di azienda e diritti dei lavoratori

Svolgimento di altra attività lavorativa durante la malattia

Sulla qualifica dirigenziale

Cass., sez. lav., 3 giugno 2014, n. 12356

Pres. Stile; Rel. Venuti; P.M. Servello; Ric. S.F.; Contr. U. Spa

Ccnl Industria - Dirigente - Autonomia e potere decisionale - Insufficienza - Promozione, coordinamento e gestione obiettivi dell'impresa - Necessità

Ciò che contraddistingue il dirigente dall'impiegato con funzioni direttive non è lo svolgimento di mansioni con ampio margine di autonomia e potere decisionale, caratteristiche comuni ad entrambe le qualifiche, bensì l'attività di promozione, coordinamento e gestione degli obiettivi dell'impresa che è tipica solo del dirigente.

Nota - La Corte di appello di Messina aveva confermato la decisione di primo grado con la quale era stata rigettata la domanda avanzata da un lavoratore, impiegato di prima categoria, volta ad ottenere la qualifica di dirigente. La Corte di merito aveva ritenuto che le mansioni svolte dal lavoratore non fossero riconducibili a quelle dirigenziali, in quanto era risultato che il dipendente era sottoposto alle direttive di altri dirigenti. Avverso tale statuizione il lavoratore propone ricorso per cassazione denunciando, in primo luogo, la violazione di norme di contratto collettivo; in particolare, l'istante si duole che la Corte di appello non abbia preso in esame il Ccnl per i dirigenti di azienda, che definisce la figura di dirigente.

La Cassazione ritiene tale motivo infondato evidenziando come la Corte di merito, pur non richiamando espressamente la declaratoria contrattuale del dirigente, l'abbia però tenuta ben presente ai fini della decisione della controversia.

Invero, la Corte di appello di Messina aveva evidenziato che le mansioni svolte dal lavoratore, pur presentando i caratteri dell'autonomia e discrezionalità delle scelte decisionali, non erano però caratterizzate da una attività di "promozione, coordinamento e gestione degli obiettivi dell'impresa", come previsto dall'art. 1 Ccnl dirigenti azienda.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce che la Corte di merito avrebbe erroneamente valutato le risultanze testimoniali dalle quali era emerso che egli non era stato sottoposto gerarchicamente ad altri dirigenti. La Suprema Corte, dopo aver richiamato il principio secondo cui in sede di legittimità non è ammesso il riesame nel merito della causa, ma solo il controllo, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica della valutazione compiuta dal giudice di appello, conclude evidenziando che, nel caso di specie, non è ravvisabile alcun vizio nella sentenza impugnata. Dalle prove testimoniali era, infatti, emerso che il lavoratore doveva osservare le direttive di un altro dirigente e, pur essendo stato dimostrato che il ricorrente aveva ampio margine di autonomia e potere decisionale, le mansioni svolte non erano tali da giustificare l'inquadramento nella categoria dirigenziale, mancando l'attività di promozione, coordinamento e gestione degli obiettivi dell'impresa, dovendo piuttosto le stesse ricondursi a quelle di impiegato con funzioni direttive.

A tale ultimo riguardo, rileva la Corte che la società controricorrente aveva richiamato una precedente sentenza resa tra le stesse parti dal Tribunale di Messina, passata in giudicato, con la quale il lavoratore era stato reintegrato nel posto di lavoro per violazione, da parte dell'azienda, della procedura prevista in tema di licenziamenti collettivi ex lege n. 223/1991.

Ebbene, afferma la Corte, pur se la sentenza richiamata non fa stato, quale giudicato esterno, nel presente giudizio - posto che il giudicato non si forma sugli aspetti del rapporto che non abbiano formato oggetto di accertamento effettivo, specifico e concreto (cfr. Cass. 10 ottobre 2007, n. 21266) e che l'autorità del giudicato presuppone che tra la causa precedente e quella in atto vi sia identità di soggetti, petitum e causa petendi (cfr. Cass. 19 luglio 2005, n. 15222) - tuttavia, quel giudicato costituisce un elemento ulteriore per ritenere che il lavoratore non fosse dirigente, atteso che in quel giudizio si era qualificato impiegato al fine di ottenere la declaratoria di nullità del licenziamento.




Sospensione cautelare e perdita della retribuzione

Cass., sez. lav., 22 maggio 2014, n. 11391

Pres. Stile; Rel. Arienzo; P.M. Ceroni; Ric. C.E.; Res. A. A.U.S.L. R.

Lavoro subordinato - Procedimento disciplinare - Sospensione cautelare - Perdita definitiva della retribuzione maturata nel periodo di sospensione cautelare - Ammissibilità solo in caso di licenziamento

L'irripetibilità della retribuzione perduta durante la sospensione cautelare si giustifica unicamente nell'ipotesi in cui il procedimento disciplinare si concluda col licenziamento del lavoratore.

Nota - La Corte d'appello di Roma rigettava il gravame proposto da un pubblico impiegato contro la sentenza di primo grado che aveva respinto la sua domanda di impugnazione di una sanzione disciplinare e di restituzione delle somme non percepite nel periodo di sospensione cautelare.

Periodo, questo, che si era protratto fino alla pronuncia di assoluzione con la quale si era concluso il processo penale scaturito dal medesimo fatto posto alla base del procedimento disciplinare.

Avverso la decisione della Corte di appello il lavoratore proponeva ricorso per cassazione, mentre l'ente datore di lavoro resisteva con controricorso.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso e cassato la pronuncia con rinvio alla Corte d'appello di Roma in diversa composizione, evidenziando l'esistenza di un generale divieto di sospensione unilaterale del rapporto di lavoro da parte del datore al di fuori delle ipotesi previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva, nonché la natura interinale della sospensione cautelare, destinata a durare fin quando durino il procedimento disciplinare e l'eventuale procedimento penale, in funzione dei quali è prevista (cfr. Cass. 1° marzo 2013, n. 5147).

In ragione di ciò, la Corte di cassazione ha affermato che l'irripetibilità della retribuzione perduta durante la sospensione cautelare si giustifica unicamente nell'ipotesi in cui il procedimento disciplinare si concluda col licenziamento del lavoratore, essendo ragionevole che la durata del processo penale non ricada in tal caso a svantaggio dell'amministrazione che ha disposto la sospensione cautelare e avviato, prima o dopo la decisione in sede penale, il procedimento disciplinare.

L'eventuale trasformazione degli effetti della sospensione cautelare in una definitiva perdita della retribuzione maturata non trova, invece, alcuna giustificazione nell'ipotesi in cui il procedimento penale si concluda con una sentenza di assoluzione, finendo in tal caso per gravare il lavoratore di una vera e propria sanzione disciplinare aggiuntiva, originata da un comportamento volontario del datore di lavoro e da ritenere priva di causa, in quanto dipendente dalla mera pendenza di un procedimento penale.

Conclusione, questa, alla quale deve giungersi, secondo la Suprema Corte, in ragione del carattere di mera strumentalità della cautela, che non può incidere in misura più gravosa del provvedimento avente natura disciplinare, nonché in ragione del divieto generale di sospensione unilaterale del rapporto con perdita definitiva della retribuzione (cfr. Cass. 1° marzo 2013, n. 5147).




Trasferimento di azienda e diritti dei lavoratori

Cass., sez. lav., 26 maggio 2014, n. 11723

Pres. Stile; Rel. Cons. Arienzo; Ric. V.F.; Contr. U.L.S.S.

Lavoro - Lavoro subordinato - Trasferimento d'azienda - Diritti del prestatore di lavoro - Diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro con il cessionario - Rinuncia effettuata dal lavoratore in riferimento a specifica e prossima cessione d'azienda - Validità

Non è affetto da nullità l'atto, stipulato dal lavoratore con la società datrice di lavoro nelle forme della conciliazione in sede sindacale (anche in assenza di una già prospettatasi vertenza tra le parti), con cui il medesimo, in relazione alla prevista e prossima cessione, da parte della società datrice di lavoro, della sua azienda ad una altra (specificata) società, rinunci al diritto, garantito dall'art. 2112 c.c., di passare alle dipendenze dell'impresa cessionaria, dato che il diritto oggetto della rinuncia in questione deve ritenersi determinato ed attuale.

Lavoro - Lavoro subordinato - Trasferimento d'azienda ex art. 2112 c.c. - Rinunzie e transazioni - In genere - Conciliazione in sede sindacale - Inoppugnabilità - Condizioni - Effettiva assistenza del lavoratore da parte di esponenti sindacali - Necessità - Atto transattivo

E' prevista la rinunciabilità del diritto proprio in conseguenza della sua acquisizione nel patrimonio del lavoratore, anche in forza della regola generale del mantenimento dei diritti pregressi in sede di trasferimento d'azienda ex art. 2112 c.c., con rilevanza degli obblighi assunti dal cedente nei confronti del cessionario. La rinunciabilità consegue, pertanto, alla natura determinata ed attuale del diritto oggetto di disposizione e l'atto dispositivo è tanto più valido ed efficace in quanto posto in essere alla presenza e con l'assistenza dei rappresentanti sindacali.

Nota - La sentenza in commento prende spunto dal caso di dirigente e, nel contempo, socio e amministratore di una società in dissesto (nella specie una casa di cura), che aveva sottoscritto un contratto preliminare di compravendita della suddetta società in favore di un'azienda sanitaria locale. In particolare, tale contratto era condizionato sospensivamente alla rinuncia da parte del dirigente al trattamento economico e normativo, discendente dalla qualifica dirigenziale secondo il Ccnl Commercio, connesso all'applicazione dell'art. 2112 c.c.

Il titolare della società cedente assumeva, pertanto, l'impegno a rinunciare all'inquadramento dirigenziale rivestito ed alla retribuzione percepita alle dipendenze della società e ad accettare, con accordo sindacale, di essere inquadrato con qualifica e retribuzione di impiegato (collaboratore amministrativo professionale esperto).

La conciliazione sindacale, inoltre, veniva sottoscritta non dal lavoratore personalmente ma dalla moglie dello stesso in virtù del conferimento di una "procura generale". In tale atto veniva, quindi, accettato il passaggio del rapporto di lavoro del dipendente alla cessionaria con l'inquadramento e la retribuzione precisati.

Dopo la sottoscrizione dell'accordo sindacale, tuttavia, il lavoratore, ritenendo la nullità sia dell'accordo con la cessionaria (in quanto dispositivo di diritti futuri derivanti dal rapporto di lavoro) sia della rinuncia a diritti derivanti dal rapporto di lavoro per difetto del potere rappresentativo in capo al procuratore, adiva il Tribunale del lavoro di Belluno per ottenere riconoscimento del diritto al mantenimento del precedente trattamento economico e normativo discendente dalla qualifica dirigenziale secondo il Ccnl di riferimento.

Sia il Tribunale sia la Corte d'appello di Venezia, successivamente adita, rigettavano le domande del lavoratore. In particolare la Corte d'appello osservava che:

- la rinuncia al diritto di conservare la qualifica e la retribuzione non fosse affetta da nullità, dato che il diritto oggetto della stessa era "determinato ed attuale", oltre che perfetto e già acquisito e che della sua disponibilità il rinunciante aveva consapevolezza;

- non potesse essere posto in dubbio che la suddetta procura generale, atteso il suo contenuto e l'epoca del suo conferimento, legittimasse pienamente il rappresentante (la moglie del lavoratore) a porre in essere atti negoziali con efficacia diretta ed immediata nella sfera del rappresentato; ogni altra doglianza relativa alla violazione dell'art. 2112 c.c. ed alla errata applicazione dell'art. 2113 c.c. non potesse ritenersi fondata, trattandosi di conciliazione avvenuta in sede sindacale, validamente stipulata e sottoscritta anche dai soggetti designati dalle organizzazioni sindacali.

Il lavoratore ricorreva per Cassazione rilevando, in particolare, che, nel caso di preliminare di cessione d'azienda, costituisse rinuncia ad un diritto futuro la rinuncia del lavoratore alla conservazione del posto ed alla qualifica intervenuta in "via preventiva", prima dell'effettiva cessione, nei confronti dell'azienda promittente cessionaria. Il ricorrente lamentava, inoltre, la violazione dell'art. 2112, comma 1, c.c. e l'errata applicazione dell'art. 2113, ultimo comma, c.c.

La Suprema Corte ha rigettato tale motivo di impugnazione, conformandosi all'orientamento giurisprudenziale secondo il quale non è affetto da nullità l'atto, stipulato dal lavoratore con la società datrice di lavoro nelle forme della conciliazione in sede sindacale (anche in assenza di una già prospettatasi vertenza tra le parti), con cui il medesimo, in relazione alla prevista e prossima cessione, da parte della società datrice di lavoro, della sua azienda ad una altra (specificata) società, rinunci al diritto, garantito dall'art. 2112 c.c., di passare alle dipendenze dell'impresa cessionaria, dato che il diritto oggetto della rinuncia in questione deve ritenersi determinato ed attuale (cfr. Cass. 18 agosto 2000, n. 10963). E ciò anche in relazione al passaggio da un privato ad una Pa, non essendovi ragione, a parere della Corte, per ritenere che il diritto non potesse divenire attuale fino all'atto della stipulazione del contratto individuale con la Pa.

Inoltre, secondo la Suprema Corte, "è prevista la rinunciabilità del diritto proprio in conseguenza della sua acquisizione nel patrimonio del lavoratore, anche in forza della regola generale del mantenimento dei diritti pregressi in sede di trasferimento d'azienda ex art. 2112 c.c., con rilevanza degli obblighi assunti dal cedente nei confronti del cessionario". A parere della Corte, "la rinunciabilità consegue, pertanto, alla natura determinata ed attuale del diritto oggetto di disposizione e l'atto dispositivo è tanto più valido ed efficace in quanto posto in essere alla presenza e con l'assistenza dei rappresentanti sindacali" (cfr., tra le tante, da ultimo, Cass. 23 ottobre 2013, n. 24024).

Con ulteriore motivo di impugnazione il ricorrente contestava, infine, la valutazione operata dal giudice del gravame in ordine alla sussistenza, in capo al rappresentante, dei poteri di rinunciare a diritti personali ed indisponibili del rappresentato, a seguito di impugnativa, ex art. 2113 c.c., per mancanza dei poteri, sostenendo che, trattandosi di diritti non disponibili neanche dal lavoratore, gli stessi non potevano essere ricompresi nei poteri conferiti con procura generale.

La Suprema Corte ha rigettato anche tale motivo di gravame, osservando, innanzitutto, che i giudici di merito avevano correttamente ritenuto che la procura generale, per il suo contenuto e per l'epoca del suo conferimento, legittimava pienamente il rappresentante a porre in essere atti negoziali, anche ai sensi dell'art. 2113 c.c., con efficacia diretta ed immediata nella sfera del rappresentato, non rientrando gli atti posti in essere tra quelli esclusi per legge.

Inoltre, la Corte di cassazione ha rilevato che, come affermato dalla Corte del merito, non era mai stata negata dal ricorrente la piena efficacia e validità della "procura generale" dal medesimo conferita alla moglie e mai era stata chiesta la nullità della conciliazione sindacale sottoscritta dalla procuratrice, della quale si dava atto in sede di stipula del contratto definitivo di compravendita stipulata dalla detta procuratrice in rappresentanza del coniuge.




Svolgimento di altra attività lavorativa durante la malattia

Cass., sez. lav., 6 giugno 2014, n. 12816

Pres. Vidiri; Rel. Arienzo; P.M. Fresa; Ric. I.S.I. Srl; Contr. D.M.M.

Licenziamento per giusta causa - Svolgimento di altra attività lavorativa durante la malattia - Violazione dei doveri contrattuali di correttezza e buona fede - Configurabilità - Limiti

L'espletamento di altra attività lavorativa e/o extralavorativa, da parte del lavoratore durante lo stato di malattia, è idoneo a violare i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell'adempimento dell'obbligazione e a giustificare il recesso del datore di lavoro, laddove si riscontri che l'attività espletata costituisca indice di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute e ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione, oltre ad essere dimostrativa dell'inidoneità dello stato di malattia ad impedire comunque l'espletamento di un'attività ludica o lavorativa.

La prova della incidenza della diversa attività lavorativa o extralavorativa nel ritardare o pregiudicare la guarigione è a carico del datore di lavoro.

Licenziamento disciplinare - Giudizio di proporzionalità della sanzione - Valutazione del giudice di merito - Sindacato di legittimità - Limiti

Il giudizio di proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento del lavoratore e dell'adeguatezza della sanzione, tutte questioni di merito che, ove risolte dal giudice di appello con apprezzamento in fatto adeguatamente giustificato con motivazione esauriente e completa, si sottraggono al riesame in sede di legittimità.

Nota - La Corte d'appello di Venezia, a conferma della sentenza di primo grado, ha ritenuto privo di giusta causa e/o di giustificato motivo il licenziamento irrogato da una società ad un proprio dipendente, il quale aveva svolto attività lavorativa nel periodo di assenza per malattia.

La Corte territoriale, sulla base delle risultanze della Ctu espletata nel corso del giudizio, osservava che: a) l'attività extralavorativa svolta con utilizzo di trattore e di decespugliatore era stata assolutamente occasionale e saltuaria e tale da non aggravare le patologie preesistenti né tale da determinare un prolungamento dei periodi di assenza dal lavoro; b) non poteva attribuirsi rilievo alla circostanza che il lavoratore avesse negato di aver svolto diversa attività lavorativa, posto che la contestazione disciplinare non si basava su tale negazione; c) la malattia in questione non era compatibile con l'espletamento di attività lavorativa, atteso che le riacutizzazioni della patologia artritica si erano manifestate proprio nei mesi di giugno e luglio, in cui si sono verificate le assenze.

Avverso tale sentenza la società proponeva ricorso per Cassazione articolato in un unico motivo. Resisteva con controricorso il lavoratore.

Con unico motivo di ricorso, la società ricorrente lamentava violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375 c.c. (in materia di buona fede e correttezza) e dell'art. 2119 c.c. (in tema di giusta causa di licenziamento), sostenendo che lo svolgimento di attività lavorativa durante la malattia costituisce di per sé condotta contraria alla buona fede e correttezza e, dunque, lesiva del vincolo fiduciario, indipendentemente dall'accertamento della compatibilità della malattia con lo svolgimento di attività lavorativa. Osservava, inoltre, la società ricorrente che ben avrebbe potuto il lavoratore porre le energie residue a disposizione del datore di lavoro, il quale avrebbe potuto anche offrire mansioni per il quale il lavoratore era idoneo. La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso, sulla scorta di un principio, già affermato in altre pronunce (cfr. ex plurimis Cass. 28.2.2014, n. 4869; Cass. 21.4.2009, n. 9479; Cass. 25.3.2011, n. 7021), secondo cui l'espletamento di altra attività lavorativa, durante il periodo di malattia, può giustificare il recesso del datore di lavoro solo se si dimostra che: a) lo stato di malattia non sia idoneo di per sé ad impedire comunque l'espletamento di un'attività ludica o lavorativa; b) che la diversa attività lavorativa pregiudichi o ritardi la guarigione.

In linea con tale principio, la Corte di cassazione ha chiarito che la prova dell'incidenza della diversa attività lavorativa nel ritardare o pregiudicare la guarigione è a carico del datore di lavoro.

Passando alla disamina della fattispecie sottoposta alla sua attenzione, la Suprema Corte ha rilevato che la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione del suddetto principio, laddove, sulla base di una valutazione effettuata ex ante, ha accertato la mancanza di prova del ritardo e/o pregiudizio della guarigione che avrebbe procurato nocumento al datore di lavoro.

La Suprema Corte, poi, sulla scia di altre pronunce che ritengono il giudizio di proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato sottratto al riesame in sede di legittimità se motivato in maniera esauriente e completa dal giudice del merito (v. Cass. 25 maggio 2012, n. 8293), ha ritenuto che l'apprezzamento della Corte d'appello in ordine all'inadeguatezza della sanzione, nel caso di specie, fosse adeguatamente giustificato e, pertanto, dovesse sottrarsi ad ogni censura di legittimità.

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