Contenzioso

Rassegna della Cassazione - 14 maggio-13 giugno 2014

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento disciplinare e assenza ingiustificata

Assegnazione a mansioni inidonee e responsabilità per il datore

Licenziamento disciplinare e lettera di contestazione

Demansionamento e danno non patrimoniale

Licenziamento disciplinare e assenza ingiustificata

Cass., sez. lav., 14 maggio 2014, n. 12806

Pres. Canevari; Rel. Tria; P.M. Servello; Ric. R.M.; Controric. C.d.P.

Lavoro subordinato - Licenziamento disciplinare - Assenza ingiustificata - Disvalore "ambientale" della condotta del lavoratore - Gravità dell'inadempimento - Verifica della proporzionalità della sanzione espulsiva - Sussistenza.

Il giudizio di proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto all'infrazione contestata al lavoratore deve essere compiuto tenendo conto degli standard valutativi rinvenibili nella disciplina collettiva e nella coscienza sociale, valutando la condotta del lavoratore con riferimento agli obblighi di diligenza e fedeltà, ed anche alla luce del "disvalore ambientale" che tale condotta assume quando può assurgere per gli altri dipendenti dell'impresa a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto di detti obblighi.

Nota - Con la sentenza in commento la Corte di cassazione ha confermato la decisione della Corte d'appello di Ancona che, confermando la pronuncia di primo grado, aveva rigettato il ricorso promosso dalla lavoratrice con riferimento all'impugnazione del licenziamento disciplinare intimatole a causa dell'assenza ingiustificata dal lavoro per un periodo di otto giorni.

Tale assenza, a detta della lavoratrice, era dovuta al diniego formale di fruizione delle ferie ricevuto da parte del datore di lavoro, a causa di esigenze di servizio, ed alla conseguente decisione della stessa di non volersi "piegare all'ordine di servizio" ricevuto, in quanto considerato vessatorio.

Con il primo motivo di ricorso la lavoratrice ha affermato che la Corte d'appello avrebbe errato nel qualificare il licenziamento come licenziamento per giusta causa, anziché come licenziamento per giustificato motivo soggettivo, con conseguente invalidità della decisione adottata, a causa del mancato rispetto del diritto di difesa della lavoratrice. Con il secondo motivo di ricorso quest'ultima ha poi affermato che la Corte d'appello avrebbe errato altresì nell'interpretare ed applicare il principio della proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto all'infrazione commessa, come inteso dalla consolidata giurisprudenza di legittimità.

Sul punto, la Corte di cassazione ha innanzitutto precisato che l'erronea qualificazione del licenziamento come "licenziamento per giusta causa", anziché come "licenziamento per giustificato motivo soggettivo" contenuta nella sentenza impugnata appare del tutto irrilevante, in quanto non risulta né è stato dimostrato dalla ricorrente che essa abbia avuto una qualche incidenza sul diritto di difesa della stessa.

Quanto al piano soggettivo la Corte ha affermato che, come risulta dalla sentenza impugnata, la lavoratrice ha dichiarato di avere, a seguito del diniego della propria richiesta di ferie, deliberatamente deciso di "non piegarsi" all'ordine di servizio ricevuto, considerandolo "vessatorio". Sulla base di tali considerazioni, appare del tutto logica l'affermazione della Corte d'appello di Ancona secondo cui la sanzione espulsiva deve considerarsi del tutto proporzionata alla gravità dell'addebito di assenza ingiustificata dal servizio per un lungo periodo, in quanto si tratta di un inadempimento che è indice di grave insubordinazione da parte di una lavoratrice che tra l'altro era ben consapevole delle conseguenze della propria azione.

La Corte ha pertanto rigettato il ricorso della lavoratrice, sostenendo che tale principio "appare coerente con l'orientamento di questa Corte secondo cui, ai fini del licenziamento, la valutazione della condotta del lavoratore in contrasto con obblighi che gli incombono, deve tenere conto anche "disvalore ambientale" che la stessa assume quando, come nella specie, in virtù della posizione professionale rivestita, essa può assurgere per gli altri dipendenti a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto di detti obblighi" e che l'episodio di insubordinazione in questione era senz'altro idoneo a far venire meno il rapporto fiduciario tra lavoratore e datore di lavoro.




Assegnazione a mansioni inidonee e responsabilità per il datore

Cass., sez. lav., 5 giugno 2014, n. 12628

Pres. Miani Canevari; Rel. Bronzini; P.M. Sepe; Ric. P.I. Spa; Controric. R.T.C.

Salute e sicurezza sul lavoro - Malattia - Art. 2087 c.c. - Responsabilità datoriale - Assegnazione del lavoratore a mansioni ritenute inidonee - Nesso di causalità - Fattispecie - Sussiste

Sussiste la responsabilità del datore di lavoro in materia di salute e sicurezza sul lavoro ex art. 2087 c.c. per la malattia insorta ai danni del lavoratore assegnato a mansioni per le quali era stato ritenuto inidoneo da una commissione medica, configurando tale assegnazione il nesso causale tra la condotta datoriale e l'evento lesivo patito dal lavoratore (nella specie, a seguito dell'adibizione alle mansioni di sportellista, il lavoratore aveva visto il riacutizzarsi della malattia sofferta a seguito di una rapina che aveva subito in passato durante lo svolgimento di tali mansioni).

Nota - Con la sentenza in commento la Corte di cassazione conferma la decisione del giudice di merito che aveva ritenuto sussistente la responsabilità del datore di lavoro per i danni derivati al lavoratore a causa dell'assegnazione a mansioni di sportellista, per le quali era stato ritenuto inidoneo da una commissione medica, avendo in precedenza subito una rapina nel corso dello svolgimento proprio di tali mansioni, che aveva determinato per lungo tempo uno stato di afonia.

In particolare, nel caso di specie la Corte d'appello adita aveva ritenuto che, anche se dopo molto tempo, fosse da ritenersi provato il nesso causale tra l'adibizione alle mansioni di sportellista e il riacutizzarsi della malattia sofferta dal lavoratore. Infatti, secondo la Corte territoriale, dopo la predetta valutazione di inidoneità delle mansioni da parte della commissione medica, nota al datore di lavoro, quest'ultimo avrebbe dovuto assicurare al lavoratore una posizione di lavoro che prevedesse lo svolgimento di mansioni che non pregiudicassero il suo stato psicofisico. Al contrario, nella fattispecie in esame il lavoratore aveva continuato ad essere adibito alle mansioni di sportellista, seppur non in via continuativa, in situazioni di tensione anche con il pubblico, il che, secondo il giudice di secondo grado, aveva certamente riacutizzato la malattia sofferta dal lavoratore medesimo, con incidenza della stessa sulla sua vita di relazione ed anche sulle sue stesse prospettive di carriera professionale.

La Corte di cassazione nel rigettare il ricorso del datore di lavoro, secondo il quale mancava la prova della responsabilità datoriale nella causazione dell'evento lesivo del lavoratore, osserva come sia corretta ed esente da vizi la motivazione della Corte territoriale impugnata, posto che, essendo stato accertato da una apposita commissione medica che il lavoratore era inidoneo allo svolgimento delle mansioni di sportellista, in relazione al possibile riacutizzarsi della malattia sofferta come conseguenza della rapina subita in precedenza nello svolgimento di tali mansioni, ai sensi dell'art. 2087 c.c. era onere del datore di lavoro, cui la predetta malattia era ben nota, evitare l'assegnazione del lavoratore, neppure in via sporadica, alle medesime mansioni. Proprio l'assegnazione a tali mansioni, prosegue la Suprema Corte, che la commissione medica interpellata aveva ritenuto non fossero compatibili con lo stato psicofisico del lavoratore, determinava la sussistenza della responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c., poiché il datore di lavoro, decidendo nell'ambito della propria autonomia imprenditoriale di assegnare il lavoratore a quelle determinate mansioni (per ben sei volte nel corso degli anni), aveva con ciò costituito il nesso causale tra il danno occorso in capo al lavoratore, da una parte, e la propria condotta e, quindi, la propria responsabilità, dall'altra.




Licenziamento disciplinare e lettera di contestazione

Cass., sez. lav., 30 maggio 2014, n. 12195

Pres. Vidiri; Rel. Berrino; P.M. Matera; Ric. B.N.L. Spa; Controric. D.S.

Lavoro subordinato - Licenziamento disciplinare - Lettera di contestazione - Consegna presso il domicilio eletto dal lavoratore - Presunzione di conoscenza ex art. 1335 c.c. - Sussistenza

L'atto unilaterale recettizio, i cui effetti si producono, ai sensi dell'art. 1334 c.c., nel momento in cui il destinatario ne ha conoscenza, si reputa conosciuto quando, avuto riguardo alle previste modalità della sua comunicazione, consegna o spedizione, da accertarsi caso per caso dal giudice di merito, possa ritenersi che il destinatario medesimo ne abbia avuto conoscenza o ne abbia potuto avere cognizione usando la normale diligenza, ricadendo su di lui, in presenza di tale condizione, l'onere di dimostrare di essersi trovato, senza colpa, nell'impossibilità di averne notizia (Cass. 25 settembre 2006, n. 20784; Cass. 16 gennaio 2006, n. 758; Cass. 5 giugno 2009, n. 13087).

Nota - La Corte di appello di Catanzaro, riformando la sentenza di primo grado, dichiarava l'illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato al sig. D. ritenendo che la prima delle due lettere di contestazione disciplinare dovesse considerarsi come mai consegnata al dipendente, detenuto in carcere, in quanto la busta che la conteneva non era indirizzata al sig. D. personalmente bensì alla struttura S.H.C., ove quest'ultimo aveva eletto domicilio ed ove poi di fatto la contestazione veniva effettivamente recapitata.

Secondo i giudici di appello a nulla rilevava neppure il fatto che la lettera di contestazione fosse stata consegnata presso il domicilio eletto dal lavoratore e fosse stata ricevuta dalla figlia del sig. D., la quale peraltro aveva sottoscritto un'apposita dichiarazione con la quale si era impegnata a consegnarla al padre, tenuto conto che non poteva ritenersi sussistente in capo al responsabile dello S.H.C. alcun obbligo di recapitare la lettera al diretto interessato, né poteva ritenersi esigibile l'impegno assunto dalla figlia di consegnare la lettera al proprio genitore, potendo un tale impegno contrastare coi vincoli del regime carcerario.

Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione la società articolato in tre motivi.

Innanzitutto la società denunciava violazione e falsa applicazione dell'art. 1335 c.c., rilevando che la presunzione di conoscenza di cui alla suddetta norma non poteva ritenersi superata dalla circostanza che, nella specie, la busta contenente la prima lettera di contestazione recasse solo la denominazione della struttura presso la quale la missiva doveva essere recapitata e non anche l'indicazione del nominativo del lavoratore cui era destinata, tenuto conto che, per un verso, si trattava di domicilio eletto dallo stesso lavoratore e considerato, per altro verso, che la consegna era avvenuta nelle mani della figlia del sig. D., la quale si era anche assunta l'impegno di recapitare la lettera di contestazione disciplinare al padre, che si trovava in stato di detenzione.

La società contestava, altresì, la violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. evidenziando che, poiché il licenziamento era fondato su di una pluralità di addebiti, la Corte di appello avrebbe comunque dovuto verificare se il licenziamento fosse sorretto da giusta causa avuto riguardo quantomeno alla restante parte delle contestazioni disciplinari contenute in una successiva lettera di addebito.

La Corte di cassazione accoglieva il ricorso e cassava la sentenza impugnata.

Sotto il primo profilo osservava la Cassazione che nella specie dovesse considerarsi realizzata la cd. "presunzione di conoscenza" di cui all'art. 1335 c.c., secondo cui "ogni dichiarazione diretta ad una determinata persona si reputa conosciuta nel momento in cui giunge all'indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell'impossibilità di averne notizia" atteso che: a) la lettera di contestazione era stata recapitata presso il domicilio eletto dal medesimo lavoratore per la ricezione delle comunicazioni; b) l'atto era stato consegnato alla figlia del sig. D. la quale aveva anche sottoscritto l'impegno di consegnarlo al genitore, all'epoca detenuto.

Dunque, concludeva la Suprema Corte, sarebbe stato onere del lavoratore, al fine di contrastare la suddetta presunzione, fornire prova di essere stato senza sua colpa nell'impossibilità di averne notizia (in tal senso, tra le altre, Cass. 25 settembre 2006, n. 20784).

Sotto il secondo profilo osservava la Cassazione che, poiché il licenziamento era fondato, non su di un fatto singolo, ma su di una pluralità di addebiti, la Corte di appello avrebbe dovuto verificare la gravità della seconda contestazione, posta anch'essa a base dell'intimato licenziamento, anziché incentrare la motivazione della sentenza esclusivamente sulla ritenuta inefficacia della prima contestazione disciplinare.

A supporto di tale statuizione la Suprema Corte richiamava propri precedenti conformi sul punto in virtù dei quali è pacifico che "qualora il licenziamento sia intimato per giusta causa, consistente non in un fatto singolo ma in una pluralità di fatti, ciascuno di essi autonomamente costituisce una base idonea per giustificare la sanzione, a meno che colui che ne abbia interesse non provi che solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità complessiva, essi sono tali da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro; ne consegue che, salvo questo specifico caso, ove nel giudizio di merito emerga l'infondatezza di uno o più degli addebiti contestati, gli addebiti residui conservano la loro astratta idoneità a giustificare il licenziamento" (Cass. 14 novembre 2003, n. 454; Cass. 18 settembre 2007, n. 19343).

Sulla base di tali considerazioni la Suprema Corte accoglieva il ricorso rinviando la causa alla Corte di appello di Reggio Calabria affinchè riesaminasse nel merito l'intimato licenziamento.




Demansionamento e danno non patrimoniale

Cass., sez. lav., 13 giugno 2014, n. 13499

Pres. Roselli; Rel. Arienzo; P.M. Corasaniti; Ric. P.I. Spa; Controric. G.B.

Demansionamento - Danno non patrimoniale - Danno in re ipsa - Inammissibilità - Prova per presunzioni - Ammissibilità

In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo, che va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni.

Nota - La Corte d'appello di Firenze, in parziale accoglimento del gravame presentato dal lavoratore, ha dichiarato sussistente il demansionamento da questi dedotto e, quindi, la violazione dell'art. 2103 c.c., rivenendolo non già nell'inquadramento in un diverso ed inferiore livello contrattuale, bensì nella mancata corrispondenza delle nuove mansioni a quelle della qualifica professionale acquisita. Da qui, mediante prova presuntiva, la Corte ha ritenuto sussistente il danno professionale e quello non patrimoniale, condannando il datore al risarcimento di entrambi.

Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione affidato a tre motivi. Il lavoratore ha resistito con controricorso.

Con il primo motivo si censura la decisione laddove ha ritenuto violato l'art. 2103 c.c. affermando che l'impostazione prescelta si pone in contrasto con l'orientamento delle sezioni unite della Cassazione che hanno sancito la possibilità di stabilire mediante Ccnl meccanismi convenzionali di mobilità orizzontale prevedendo la fungibilità delle mansioni.

La Suprema Corte rigetta la censura richiamandosi ai numerosi precedenti di legittimità in tema di rapporto di lavoro dei dipendenti postali ove si è affermato che la nullità di patti contrari al divieto di declassamento di mansioni previsto dall'art. 2103 c.c., pur trovando applicazione anche alla contrattazione collettiva, non esclude che un nuovo Ccnl possa prevedere una nuova e diversa classificazione del personale consistente in un riassetto delle qualifiche e dei rapporti di equivalenza tra mansioni se però viene fatta salva la professionalità già conseguita dai lavoratori. (Cass. 4 ottobre 2004, n. 19836; Cass. 15 dicembre 2009, n. 23877; Cass. 10 settembre 2013, n. 20718). La Cassazione ritiene - che, nel caso di specie, la Corte territoriale che ha ritenuto sussistente il demansionamento - abbia fatto corretta applicazione dei predetti principi, avendo accertato l'avvenuto depauperamento del bagaglio professionale del ricorrente.

Con il secondo e terzo motivo di ricorso la società lamenta che, pur avendo formalmente escluso di aderire alla tesi del danno in re ipsa, di fatto la Corte territoriale ha condannato al risarcimento di un danno sia professionale (censurato nel secondo motivo) che non patrimoniale (oggetto del terzo motivo) non provato, facendo ricorso a formule standardizzate elusive della fattispecie concreta in contrasto con l'insegnamento fornito dalle sezioni unite con le sentenze 24 marzo 2006, n. 6572 e 11 novembre 2008, n. e n. 26972.

Entrambi i motivi vengono rigettati dalla Suprema Corte che ritiene avere la Corte d'appello fatto corretto uso dei principi riportati nella massima, valorizzando non già la tesi del danno in re ipsa, bensì le allegazioni effettivamente fornite dal lavoratore nel ricorso introduttivo e non contestate dalla società. In particolare viene posto l'accento sulla durata dell'assegnazione alle mansioni inferiori, sulla contenuto professionale estremamente diverso e notevolmente superiore delle "vecchie" attività, sul loro carattere specialistico, come tale a rischio di obsolescenza professionale, sulla sfiducia mostrata nei confronti del lavoratore, sulla frustrazione delle sue aspettative professionali, sull'inesistenza di esigenze temporanee che potessero giustificare tale adibizione. A parere della Suprema Corte tali elementi integrano le "circostanze del caso concreto" cui le sezioni unite si riferiscono quando consentono la prova per presunzioni per risalire al pregiudizio lamentato dal lavoratore, pertanto correttamente la Corte territoriale ha condannato al risarcimento dei danni in tal modo accertati.

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