Contenzioso

Rassegna della Cassazione 22 maggio - 9 giugno 2014

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

La prescrizione dei crediti retributivi in caso di interposizione illecita di manodopera

Riorganizzazione aziendale e mansioni inferiori

Legittimazione a promuovere l'azione ex art. 28, Stat. lav.

Sulle prassi aziendali

La prescrizione dei crediti retributivi in caso di interposizione illecita di manodopera

Cass., sez. lav., 4 giugno 2014, n. 12553

Pres. Stile; Rel. Tria; P.M. Matera; Ric. V.F.; Contr. R.F.I. Spa

Prescrizione - Decorrenza - Sussistenza della stabilità reale - Condizioni - Verifica del concreto atteggiarsi del rapporto - Necessità - Accertamento ex post della reale natura del rapporto - Irrilevanza

Ai fini della individuazione del regime di prescrizione applicabile ai crediti retributivi, la sussistenza della stabilità reale, che consente il decorso della prescrizione quinquennale dei diritti del lavoratore in pendenza del rapporto di lavoro, deve essere verificata alla stregua del concreto atteggiarsi del rapporto stesso.

Ciò vale anche con riferimento ai rapporti di lavoro costituiti in violazione del divieto di intermediazione ed interposizione sancito dall'art. 1, legge n. 1369/1960, per i quali la suddetta verifica deve essere, del pari, effettuata sulla base delle concrete modalità di svolgimento del rapporto e non già in base alla disciplina che l'avrebbe regolato ove esso fosse sorto ab initio con il datore di lavoro effettivo.

Ricorso per cassazione - Mandato alle liti in calce o a margine del ricorso - Requisito della specialità - Sussistenza - Necessità del suo riferimento al giudizio di legittimità - Esclusione

Il mandato apposto in calce o a margine del ricorso per Cassazione è per sua natura mandato speciale, senza che occorra, per la sua validità, alcuno specifico riferimento al giudizio in corso ed alla sentenza contro la quale l'impugnazione si rivolge, sempre che dal relativo testo sia dato evincere una positiva volontà del conferente di adire il giudice di legittimità; il che accade nell'ipotesi in cui la procura al difensore forma materialmente corpo con il ricorso o il controricorso al quale essa inerisce, risultando, in tal caso, irrilevante l'uso di formule normalmente adottate per il giudizio di merito e per il conferimento al difensore di poteri per tutti i gradi del procedimento.

Nota - La Corte d'appello di Roma, rigettando sia l'appello principale del lavoratore sia l'appello incidentale della società, confermava la sentenza di primo grado, la quale condannava la società al pagamento, nei confronti del lavoratore, di una somma di denaro a titolo di differenza tra il trattamento retributivo effettivamente percepito dalla società appaltatrice (di cui il lavoratore risultava dipendente) e quello spettante ai dipendenti dell'appaltante, per effetto dell'avvenuto accertamento di una interposizione fittizia di manodopera con sentenza del Pretore di Roma, passata in giudicato e mai messa in esecuzione.

In particolare, la Corte territoriale individuava il termine di decorrenza della prescrizione dal momento della maturazione del diritto alle retribuzioni mensili rivendicate dal lavoratore, essendo il rapporto di lavoro con l'effettivo datore di lavoro (id est: appaltante) assistito da stabilità reale. La Corte ha, altresì, respinto la censura della società relativa all'acquiescenza asseritamente prestata dal lavoratore all'assunzione effettuata da altro datore di lavoro.

Avverso tale sentenza il lavoratore proponeva ricorso per cassazione articolato in un unico motivo. Resisteva con controricorso la società, la quale proponeva, a sua volta, ricorso incidentale.

In primo luogo, la Suprema Corte ha disatteso la preliminare eccezione sollevata dalla società, riguardante l'asserita nullità della procura rilasciata a margine dal lavoratore, non contenente alcun riferimento al giudizio di cassazione. Ed invero il giudice di legittimità, richiamando ulteriori precedenti (cfr. ex plurimis Cass. 2.9.2013, n. 20084, Cass. 17.12.2009, n. 26504, Cass. 31.3.2007, n. 8060, Cass. 9.5.2007, n. 10539;), ha affermato che il mandato apposto in calce o a margine del ricorso per cassazione, essendo per sua natura speciale, non richiede, ai fini della sua validità, alcuno specifico riferimento al giudizio in corso, sicché risultano irrilevanti sia la mancanza di uno specifico richiamo al giudizio di legittimità sia il fatto che la formula adottata faccia cenno a poteri e facoltà solitamente rapportabili al giudizio di merito.

La Suprema Corte, poi, in accoglimento del ricorso principale, ha annullato la sentenza impugnata e rinviato la causa alla Corte di appello di Roma, sulla base di un principio già affermato (Cass. 19.1.2012, n. 1147; Cass. 22.6.2004, n. 11644; Cass. 13.12.2004, n. 23227; Cass. 6.7.2002, n. 9839), secondo cui, ai fini della individuazione del regime di prescrizione applicabile ai crediti retributivi, il presupposto della stabilità reale del rapporto di lavoro deve essere verificato in relazione al concreto atteggiarsi del rapporto stesso ed alla configurazione che di esso danno le parti nell'attualità del suo svolgimento e non già alla stregua della diversa normativa garantistica che avrebbe dovuto in astratto regolare il rapporto, ove questo fosse sorto con le modalità e la disciplina che il giudice, con un giudizio necessariamente ex post, riconosce applicabili con effetto retroattivo per il lavoratore.

Passando alla disamina della fattispecie sottoposta alla sua attenzione, la Suprema Corte ha rilevato che la Corte territoriale non ha fatto corretta applicazione del suddetto principio, laddove ha ritenuto sussistente il regime di stabilità reale, tenendo conto non del concreto atteggiarsi del rapporto di lavoro (avendo il lavoratore continuato a prestare la propria attività alle dipendenze della società appaltatrice) ma solamente della qualificazione ad esso attribuita ex post in sentenza dal giudice, che ha accertato l'illecita interposizione di manodopera.




Riorganizzazione aziendale e mansioni inferiori

Cass., sez. lav., 22 maggio 2014, n. 11395

Pres. Stile; Rel. De Renzis; P.M. Celeste; Ric. B.S.; Contr. Comune di B. di P.

Riorganizzazione aziendale - Demansionamento - Mantenimento precedente livello retributivo - Violazione art. 2103 c.c. - Insussistenza

La disposizione di cui all'art. 2103 c.c., sul divieto di demansionamento, va interpretata alla stregua del bilanciamento tra il diritto del datore di lavoro a perseguire un'organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, con la conseguenza che, nei casi di sopravvenute e legittime scelte imprenditoriali, comportanti, tra le altre, ristrutturazioni aziendali, l'adibizione del lavoratore a mansioni diverse, ed anche inferiori, rispetto a quelle precedentemente svolte, restando immutato il livello retributivo, non si pone in contrasto con la previsione del codice civile.

Nota - La Corte di appello di Trento, in riforma della sentenza di primo grado, aveva rigettato la domanda avanzata da un dipendente comunale, responsabile dell'ufficio tecnico, nei confronti dell'ente datore di lavoro, diretta a far accertare il demansionamento subìto a seguito della riorganizzazione degli uffici comunali. La Corte di merito aveva rilevato che, a fronte della comprovata inefficienza degli uffici comunali, l'ente aveva affidato ad un esperto uno studio approfondito dell'assetto organizzativo e, all'esito di tale indagine, erano stati creati un'area tecnica ed un ufficio specializzato in materia di gestione dei beni comunali.

Vi era stata, quindi, una nuova ripartizione di competenze, conseguentemente alcune materie specifiche erano state affidate al ricorrente, materie che, seppure non coprissero tutto il raggio di funzioni del preesistente ufficio tecnico, erano comunque di grande rilevanza e, in ogni caso, rientranti nelle originarie mansioni attribuite allo stesso ricorrente.

Le ulteriori materie, precedentemente rientranti nell'ufficio tecnico, erano state fatte confluire nell'ambito dell'area tecnica, cui era stato preposto un soggetto particolarmente qualificato.

Avverso tale statuizione il lavoratore propone ricorso per Cassazione. Con il primo motivo deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 52, D.Lgs. n. 165/2001, con riferimento all'art. 41 Cost. In particolare, il lavoratore contesta al giudice di appello di aver erroneamente interpretato la norma costituzionale e, quindi, di aver ritenuto legittima la modifica in peius delle mansioni non considerando che la dequalificazione è vietata dall'ordinamento.

La Cassazione ritiene il motivo infondato. Invero, i principi di cui all'art. 2103 c.c. - che nel lavoro pubblico vengono applicati tramite l'art. 52, D.Lgs. n. 165/2001 - sulla disciplina delle mansioni e sul divieto di declassamento, vanno interpretati alla stregua del bilanciamento tra il diritto del datore di lavoro a perseguire un'organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, con la conseguenza che, in caso di legittime scelte imprenditoriali, comportanti ristrutturazioni aziendali, l'adibizione del lavoratore a mansioni diverse, ed anche inferiori, a quelle precedentemente svolte, restando immutato il livello retributivo, non si pone in contrasto con la norma codicistica.

Nel caso di specie, la Corte territoriale aveva dato conto, in modo adeguato, della necessità di procedere ad una ristrutturazione dell'ufficio tecnico, di cui era responsabile il ricorrente, al fine di rimediare alle manchevolezze riscontrate, con la conseguente creazione distinta di un'area tecnica e di un ufficio tecnico. In tal modo, a parere della Suprema Corte, si erano concretizzate le comprovate esigenze tecnico-produttive che legittimavano lo ius variandi (cfr. Cass., S.U., del 4 aprile 2008, n. 8740).

Con successivo motivo di doglianza, il ricorrente denuncia vizio di motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, riguardo alla collocazione gerarchica del lavoratore prima e dopo la ristrutturazione degli uffici. Sostiene il ricorrente che prima della riorganizzazione egli era subordinato unicamente al segretario comunale, successivamente, privato del proprio ufficio e dei collaboratori, sarebbe finito alle dipendenze del nuovo responsabile dell'area tecnica.

La Cassazione, respinge anche tale motivo ritenendo che debba essere letto in relazione al precedente. Infatti la Corte territoriale aveva adeguatamente spiegato come, dopo la riorganizzazione degli uffici comunali, il ricorrente si era trovato a svolgere parte delle mansioni in posizione di autonomia ed indipendenza, riferendo direttamente al sindaco e, dunque, diversamente dal passato, sottraendosi al controllo gerarchico del segretario comunale.




Legittimazione a promuovere l'azione ex art. 28, Stat. lav.

Cass., sez. lav., 9 giugno 2014, n. 12885

Pres. Miani Canevari; Rel. Amendola; P.M. Celentano; Ric. F.G.A. Spa; Res. U.S.B.

Azione ex art. 28, Stat. lav. - Legittimazione ad agire - Requisito della nazionalità dell'associazione sindacale

Ai fini della legittimazione a promuovere l'azione prevista dall'art. 28 dello Statuto dei lavoratori, per "associazioni sindacali nazionali" devono intendersi le associazioni che abbiano una struttura organizzativa articolata a livello nazionale, mentre non è necessaria la sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali, che rimane, comunque, un indice rilevante ai fini della individuazione del requisito della "nazionalità".

Nota - La Corte d'appello di Roma confermava la sentenza di primo grado che aveva respinto l'opposizione della società avverso il decreto ex art. 28, legge n. 300/1970, con il quale era stata dichiarata l'antisindacalità della condotta aziendale consistita nell'aver impedito la partecipazione di dirigenti esterni di un sindacato ad un assemblea. Avverso la decisione della Corte di appello la società proponeva ricorso per cassazione, mentre il sindacato resisteva con controricorso. La Suprema Corte ha respinto il ricorso, confermando il precedente orientamento in base al quale ai fini della legittimazione a promuovere l'azione prevista dall'art. 28 dello Statuto dei lavoratori, per "associazioni sindacali nazionali" devono intendersi le associazioni che abbiano una struttura organizzativa articolata a livello nazionale, mentre non è necessaria la sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali, che rimane, comunque, un indice rilevante ai fini della individuazione del requisito della "nazionalità" (Cass. 6 dicembre 2012, n. 21941). In particolare, la Cassazione ha rilevato che la Corte di merito aveva correttamente ritenuto sussistente il requisito della "nazionalità" del sindacato istante sulla scorta del suo statuto, nonché tenuto conto di una serie di circostanze sintomatiche dello svolgimento di "attività sindacale in gran parte del territorio nazionale e con riguardo a varie categorie di lavoratori, attraverso le proprie articolazioni provinciali, facenti capo alla struttura centrale". La pronuncia di secondo grado aveva, infatti, ritenuto provato che il sindacato era attivamente presente in numerose Province e Regioni, che aveva promosso e partecipato ad innumerevoli manifestazioni nazionali, presentato proprie liste in tutte le elezioni per il rinnovo delle Rsu, ottenendo l'elezione di propri membri, che il Dipartimento della funzione pubblica aveva preso atto della formalizzazione del medesimo sindacato nel settore pubblico, che aveva partecipato a scioperi a carattere nazionale ed organizzato e promosso numerosissime vertenze legali e contrattuali su tutto il territorio nazionale. Elementi, questi, sulla scorta dei quali la Corte di merito, con una motivazione adeguata, aveva ritenuto sussistente il requisito della "nazionalità " previsto dall'art. 28, Stat. lav. e che, pertanto, come evidenziato dalla Suprema Corte, non sono suscettibili di una nuova valutazione in sede di legittimità (Cass. 6 dicembre 2012, n. 21941).




Sulle prassi aziendali

Cass., sez. lav., 9 giugno 2014, n. 12887

Pres. Lamorgese; Rel. Patti; Ric. P.F.; Controric. T. Spa

Contratto collettivo - Disciplina (efficacia) - Consuetudini ed usi - Uso aziendale - Nozione - Portata ed effetti

La sussistenza di una prassi aziendale esige una rigorosa dimostrazione della reiterazione costante e generalizzata di un comportamento del datore tale da assumere carattere di uso aziendale rientrante nel novero delle fonti sociali - tra le quali vanno considerati sia i contratti collettivi, sia il regolamento d'azienda e che sono definite tali perché, pur non costituendo espressione di funzione pubblica, neppure realizzano meri interessi individuali, in quanto dirette a conseguire un'uniforme disciplina dei rapporti con riferimento alla collettività impersonale dei lavoratori di un'azienda - così da agire sul piano dei singoli rapporti individuali alla stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale.

Nota - Il caso in esame prende spunto dal ricorso al giudice del lavoro da parte di una società, per l'accertamento della legittimità della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio per due giorni, con privazione della retribuzione, irrogata ad un lavoratore, con mansioni di capotreno, per aver colpevolmente causato il ritardo di un treno lungo una determinata tratta. Il Tribunale respingeva la domanda del datore di lavoro, che veniva successivamente accolta in grado appello, all'esito della rivisitazione del materiale istruttorio, con conseguente declaratoria di legittimità della sanzione disciplinare irrogata. La Corte territoriale riteneva, infatti, la sussistenza, nel caso di specie, di un comportamento intenzionale ingiustificato del lavoratore di pregiudizio al servizio, con grave disagio per l'utenza. Ciò a causa della effettuazione da parte del lavoratore della pausa pranzo in mensa, che, invece, gli era stata preclusa dai superiori con offerta di cestino da viaggio, rifiutata dal lavoratore. Inoltre, a parere della Corte d'appello, quest'ultimo aveva anche violato una circolare aziendale di inammissibilità dei ritardi per i treni viaggiatori a causa della refezione del personale, a lui certamente nota. Il lavoratore ricorreva per Cassazione deducendo insufficiente e contraddittoria motivazione sul fatto, controverso e decisivo per il giudizio, dell'effettiva offerta o meno del cestino da viaggio sostitutivo della pausa pranzo in mensa, come previsto dal Ccnl e da prassi aziendale, così da giustificare il ritardo causato dal capotreno, in assenza di alternativa concreta alla consumazione del pasto in mensa, determinante il ritardo sanzionato.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso del lavoratore, ritenendo pacifico che: a) il ritardo in partenza del treno fosse stato determinato dall'assenza del ricorrente, recatosi alla mensa aziendale; b) una specifica direttiva aziendale non ammetteva ritardi nella partenza dei treni viaggiatori a causa della refezione del personale.

A fronte di tali circostanze non poteva, ad avviso della Corte, ritenersi che il comportamento del ricorrente potesse ritenersi giustificato dalla mancata predisposizione da parte dell'azienda del cestino da viaggio. Ciò soprattutto per la mancata dimostrazione di una espressa previsione del Ccnl di categoria e di una prassi aziendale in tale senso, cui il ricorrente aveva fatto specifico riferimento.

Ed infatti, a parere della Corte, il ricorrente non aveva prodotto il Ccnl, senza neppure sua specifica indicazione né aveva provato la "costante prassi aziendale", esigente una rigorosa dimostrazione della reiterazione costante e generalizzata di un comportamento datoriale, tale da assumere carattere di uso aziendale rientrante nel novero delle fonti sociali (tra le quali vanno considerati pure i contratti collettivi ed il regolamento d'azienda e definite tali perché, pur non costituendo espressione di funzione pubblica, neppure realizzano meri interessi individuali, in quanto dirette a conseguire un'uniforme disciplina dei rapporti con riferimento alla collettività impersonale dei lavoratori di un'azienda) così da agire sul piano dei singoli rapporti individuali alla stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale" (Cass. 28 luglio 2009, n. 17481; Cass. 13 dicembre 2007, n. 26107).

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