Contenzioso

Rassegna della Cassazione 9 - 20 giugno 2014

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento disciplinare

Tutela reale e prescrizione

Licenziamento di dirigente

Contestazione disciplinare e processo penale

Cass., sez. lav., 9 giugno 2014, n. 12882

Pres. Vidiri; Rel. Amoroso; P.M. Celeste; Ric. G. Spa; Controric. A.M.

Licenziamento disciplinare - Condotta del lavoratore - Elemento soggettivo - Accertamento - Dolo e colpa cosciente - Proporzionalità della sanzione espulsiva - Colpa lieve - Esclusione della proporzionalità

La proporzionalità del licenziamento disciplinare può essere esclusa solo se viene accertato in concreto che la condotta posta in essere dal lavoratore, oggetto della sanzione espulsiva, non integra né il dolo, né la colpa cosciente, bensì la sola colpa lieve.

Nota - Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso presentato dal datore di lavoro, ribalta la decisione del giudice di merito che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento disciplinare intimato ad una lavoratrice la quale, operando occasionalmente come cassiera di un supermercato, si era trovata a contabilizzare ad una cliente un certo importo per la sua spesa e, dopo aver annullato il relativo scontrino (poiché la carta di credito offerta per il pagamento si era rivelata non funzionante o incapiente), aveva lasciato che la cliente portasse via la spesa in questione senza pagarla.

In particolare, la Corte d'Appello adita aveva ritenuto che la condotta omissiva della lavoratrice, consistita nel non aver impedito il prelievo della merce da parte di una cliente abituale del supermercato, nota al personale dello stesso, e nel non aver immediatamente denunciato il fatto al datore di lavoro o ad un suo incaricato, non manifestasse alcun intento doloso diretto a favorire la cliente nella sottrazione indebita della spesa. Secondo la Corte territoriale, nel caso di specie andava prestata la dovuta rilevanza alla circostanza che la lavoratrice licenziata non fosse stabilmente addetta alla cassa, poiché il difetto di una stabile assegnazione alle mansioni di cassiera impediva a priori l'esistenza di un intento doloso fraudolento diretto a danneggiare il datore di lavoro ed a favorire la cliente.

Peraltro, ad avviso del giudice di merito, il mancato svolgimento stabile delle mansioni di cassiera rendeva meno grave l'inadempimento della lavoratrice licenziata, la quale si era trovata ad affrontare una situazione lavorativa anomala senza la necessaria esperienza, ponendo quindi in essere un mero errore materiale nell'adempimento di mansioni espletate occasionalmente. Pertanto, secondo la Corte territoriale adita, doveva escludersi la proporzionalità della sanzione espulsiva irrogata alla dipendente, poiché non sussisteva alcun intento doloso da parte di quest'ultima e, anzi, la condotta posta in essere dalla lavoratrice configurava un'ipotesi di colpa lieve dovuta ad un mero errore materiale, commesso anche in ragione della occasionalità dello svolgimento delle mansioni di cassiera.

Secondo la Corte di Cassazione, la circostanza che nella fattispecie in esame la lavoratrice si fosse trovata solo occasionalmente a svolgere le mansioni di cassiera e che nell'episodio in questione avesse momentaneamente sostituito un'altra dipendente del supermercato rendeva poco plausibile l'ipotesi di un comportamento intenzionale e doloso. Tuttavia, ad avviso della Suprema Corte, per poter ritenere sproporzionata la sanzione espulsiva comminata, la condotta della lavoratrice avrebbe dovuto essere esente da colpa grave. In proposito, la Suprema Corte, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale adita, afferma che nel caso di specie non è stato adeguatamente accertato se il comportamento oggetto del licenziamento configurasse o meno un'ipotesi di colpa lieve, ossia di una "svista", un mero errore materiale di percezione, come era stato sostenuto dalla lavoratrice, la quale aveva dichiarato di non essersi accorta che la cliente, invece di riporre la spesa fatta, non potendola pagare con la carta di credito, l'avesse portata via allontanandosi dal supermercato. Infatti, secondo la Corte di Cassazione, la tesi del mero errore materiale (e, quindi, della colpa lieve e come tale scusabile) non può discendere dalla sola esclusione della sussistenza di una condotta dolosa, perché ciò comporterebbe un salto logico. E' evidente che il comportamento minimo esigibile per chi svolge mansioni di cassiere presso un supermercato sia quello di richiedere agli avventori il pagamento della merce prelevata, ovvero di pretenderne la restituzione ove il pagamento non possa aver luogo, ovvero ancora di "reagire" in qualche modo nel caso in cui l'avventore mostri di volersi allontanare dall'esercizio commerciale portando con sé la merce prelevata e non pagata.

L'ipotesi della "svista" (i.e. "mero errore materiale") in cui sarebbe incorsa nel caso di specie la lavoratrice - la quale avrebbe sì invitato la cliente a depositare la spesa che non poteva pagare per essere risultata non funzionante o incapiente la sua carta di credito, ma poi non si sarebbe accorta che la cliente, disattendendo o equivocando il suo invito, si era avviata all'uscita del supermercato portando con sé la merce non pagata (che, per essere puntualmente elencata nella lettera di contestazione dell'addebito, era apprezzabilmente voluminosa) - avrebbe dovuto essere verificata ed approfondita nel corso del giudizio di merito; ben diverso sarebbe stato, secondo la Suprema Corte, il caso di un'unica cassa con avventori in fila che avessero già depositato la merce prelevata e che premessero per il pagamento della stessa rispetto all'ipotesi di plurime casse o di pochi avventori, tanto da consentire alla lavoratrice di espletare le sua mansioni di cassiera con tranquillità e senza la pressione di clienti in fila. La prima fattispecie rende plausibile la "svista"; la seconda assai meno.

Inoltre, secondo la Suprema Corte, la prospettiva dell'errore materiale avrebbe richiesto anche un approfondimento nel corso del giudizio di merito di quella che sarebbe stata, il giorno dopo, la discovery del prelevamento ed asporto della merce non pagata. Sul punto, infatti, la Corte d'appello adita si è limitata ad affermare che la lavoratrice si era recata dal direttore del supermercato "per chiarire la situazione", ma non ha indagato su come la stessa si fosse accorta o fosse venuta a conoscenza del suo errore.

In sintesi, con la pronuncia in commento la Corte di Cassazione afferma che la Corte d'appello adita, dopo aver ritenuto non provato il dolo e l'intenzionalità della condotta posta a fondamento del licenziamento disciplinare de quo, ha operato un salto logico nell'affermare che nel caso di specie si era verificato un "mero errore materiale" da parte della lavoratrice riconducibile all'ipotesi della colpa lieve, senza considerare le sopra richiamate circostanze per escludere l'ipotesi intermedia, quella della colpa cosciente (ossia aver negligentemente, ma consapevolmente, consentito alla cliente di allontanarsi dal supermercato con la spesa non pagata), ipotesi che, ove accertata, determina la piena legittimità del licenziamento disciplinare intimato.




Tutela reale e prescrizione

Cass., sez. lav., 18 giugno 2014, n. 13860

Pres. Roselli; Rel. Ghinoy; P.M. Corasaniti; Ric. G.M. Spa; Controric. e Ric. Inc C.R.V.

Lavoro subordinato - Prescrizione - Decorrenza - Tutela reale - Rilevanza - Ostacoli di fatto all'esercizio del diritto - Irrilevanza

L'impossibilità di far valere un diritto, alla quale l'art. 2935 c.c. attribuisce rilevanza di fatto impeditivo della decorrenza della prescrizione, è solo quella che deriva da cause giuridiche che ostacolino l'esercizio del diritto e non comprende anche gli impedimenti soggettivi o gli ostacoli di mero fatto. La situazione di timore del lavoratore a tali fini giuridicamente significativa è, quindi, solo quella che attiene ad un possibile licenziamento in un rapporto di lavoro non assistito da stabilità reale, nel qual caso la prescrizione decorre esclusivamente dalla data di cessazione del rapporto.

Nota - Nella fattispecie in esame il lavoratore lamenta di essere stato demansionato e mobbizzato e di avere, conseguentemente, subito danni da demansionamento, da perdita di chances, biologici ed esistenziali di cui chiede il risarcimento. Sia il Tribunale che la Corte d'appello di Venezia hanno respinto il ricorso, avendo, in particolare, quest'ultima, dichiarato parzialmente prescritto il diritto al risarcimento del danno da dequalificazione e biologico e, dopo avere accertato l'illegittimità di alcuni comportamenti persecutori posti in essere dal datore, escluso, sulla base di Ctu, la natura professionale delle patologie lamentate.

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso affidato a sei motivi e la società ha resistito con controricorso e proposto, a sua volta, ricorso incidentale condizionato.

I primi quattro motivi di ricorso attengono, sotto vari profili, alla prescrizione ed ai relativi atti interruttivi.

In particolare il ricorrente sostiene che il metus che ha caratterizzato il rapporto gli ha reso impossibile l'esercizio del diritto, impedendo la decorrenza della prescrizione sino alla sua cessazione, e censura la sentenza sotto il profilo del vizio di motivazione laddove non ha ritenuto la prescrizione interrotta da alcune lettere inviate nel corso del rapporto.

Nel respingerli la Suprema Corte, ribadendo un orientamento consolidato, afferma il principio riportato nella massima, sottolineando che l'unico metus rilevante che impedisce la decorrenza della prescrizione è quello derivante da cause giuridiche che ostacolano l'esercizio del diritto, quali l'assenza di tutela reale ex art. 18 St. Lav. - nel qual caso la prescrizione decorre solo dalla cessazione del rapporto - e non già impedimenti soggettivi o di mero fatto (Cass. 7 novembre 2005, n. 21495; Cass. 27 giugno 2011, n. 14163; Cass. 7 marzo 2012, ord. n. 3584).

Adeguandosi a principi consolidati la Cassazione ribadisce, poi, che l'onere della prova di dimostrare il danno, la nocività dell'ambiente di lavoro ed il nesso causale tra i due spetta al lavoratore, incombendo sul datore, in caso positivo, il diverso onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il prodursi del pregiudizio (Cass. 17 febbraio 2009, n. 3786).

Vengono poi rigettati i motivi attinenti alla Ctu, formulati sotto il profilo del vizio di motivazione, ritenendosi che la Corte territoriale abbia adeguatamente ed attentamente valutato le argomentazioni del gravame e dichiarati inammissibili il quinto e sesto motivo di ricorso, attinenti, sotto il profilo dell'error in procedendo e del vizio di motivazione, il danno patrimoniale, esistenziale e da perdita di chances. Secondo la Cassazione tali ultimi motivi difettano della necessaria specificità, non avendo il ricorrente precisato le concrete conoscenze ed attitudini professionali perdute, il nesso di causalità con l'atto di demansionamento ed i parametri per calcolare il danno.

Il rigetto del ricorso principale assorbe l'esame del ricorso incidentale condizionato.




Licenziamento di dirigente

Cass., sez. lav., 19 giugno 2014, n. 13958

Pres. Roselli; Rel. Amendola; P.M. Corasaniti; Ric. S.d.A.; Controric. T. Spa

Lavoro subordinato - Dirigente d'azienda - Licenziamento individuale - Giustificato motivo oggettivo - Ristrutturazione aziendale - Obbligo di "repêchage" - Esclusione

In caso di licenziamento del dirigente d'azienda per esigenze di ristrutturazione aziendale è escluso l'obbligo del "repêchage", in quanto incompatibile con la posizione dirigenziale del lavoratore, assistita da un regime di libera recedibilità del datore di lavoro.

Nota - Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d'Appello di Cagliari che, confermando la pronuncia di primo grado, aveva rigettato il ricorso proposto dal dirigente, avente ad oggetto l'impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato dalla società a causa di una ristrutturazione aziendale.

Con i primi due motivi di ricorso il dirigente ha affermato che la Corte d'Appello avrebbe errato nel valutare la sussistenza della riorganizzazione aziendale e le motivazioni addotte dalla società a fondamento del suddetto recesso.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha innanzitutto affermato che il rapporto di lavoro del dirigente non è assoggettato alle norme limitative dei licenziamenti individuali di cui agli artt. 1 e 3 della legge n. 604/1966 e che la nozione di "giustificatezza" del licenziamento del dirigente, posta dalla contrattazione collettiva di settore, non coincide con quella di giustificato motivo di licenziamento contemplata dall'art. 3 della suddetta legge. Pertanto, la giustificazione del recesso del datore di lavoro non deve necessariamente coincidere con l'impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di grave crisi aziendale tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa tale prosecuzione, posto che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con quello della libertà d'iniziativa economica, garantita dall'art. 41 Cost., che sarebbe radicalmente negata ove si impedisse all'imprenditore, a fronte di razionali e non arbitrarie ristrutturazioni aziendali, di scegliere discrezionalmente le persone idonee a collaborare con lui ai più alti livelli della gestione dell'impresa (cfr. sul punto, tra le tante, Cass. n. 13719/2006 e, più di recente, Cass. n. 3628/2012). La Corte ha, dunque, affermato che il licenziamento del dirigente è consentito in tutti i casi in cui sia stato adottato in funzione di una ristrutturazione aziendale dettata da scelte imprenditoriali non arbitrarie, non pretestuose e non persecutorie.

Ebbene, secondo la Corte di Cassazione, la Corte territoriale si era correttamente ed espressamente uniformata ai suddetti principi, ritenendo accertato in fatto, sulla base di una valutazione complessiva delle risultanze istruttorie di cui veniva dato conto nella sentenza impugnata, che la struttura cui era destinato il dirigente aveva effettivamente subito un ridimensionamento, in conseguenza di un processo di ristrutturazione aziendale. La Corte territoriale aveva altresì ritenuto che il dirigente non potesse legittimamente reclamare una collocazione in una diversa posizione lavorativa, pronunciandosi, anche su tale punto, coerentemente con l'insegnamento secondo cui, in caso di licenziamento del dirigente d'azienda per esigenze di ristrutturazione aziendale, è esclusa la possibilità del "repêchage" in quanto incompatibile con la posizione dirigenziale del lavoratore, assistita da un regime di libera recedibilità del datore di lavoro (cfr. da ultimo, Cass. n. 3175/2013).

Sulla scorta di tali principi la Corte ha quindi rigettato il ricorso del dirigente.




Contestazione disciplinare e processo penale

Cass., sez. lav., 20 giugno 2014, n. 14103

Pres. Canevari; Rel. Buffa; P.M. Celentano; Ric. B.W.; Controric. Inps

Lavoro subordinato - Licenziamento per giusta causa - Contestazione disciplinare - Differimento in attesa degli esiti del processo penale - Tempestività - Sussistenza

Ai fini dell'accertamento della sussistenza del requisito della tempestività del licenziamento, in caso di intervenuta sospensione cautelare di un lavoratore sottoposto a procedimento penale, la definitiva contestazione disciplinare ed il licenziamento per i relativi fatti ben possono essere differiti in relazione alla pendenza del procedimento penale stesso.

Nota - La Corte di appello di Genova, confermando la sentenza di primo grado, rigettava la domanda con la quale il sig. B. aveva impugnato il licenziamento disciplinare per giusta causa irrogatogli dal suo datore di lavoro.

In particolare, con lettera del 19 settembre 2002, l'Istituto non appena venuto a conoscenza che il sig. B. era stato rinviato a giudizio dalla Procura della Repubblica di La Spezia per una serie di reati, tra i quali, falsità ideologica e materiale in atto pubblico, abusivo esercizio della professione ed usura, in relazione a fatti commessi nell'attività di servizio, procedeva ad elevare contestazione disciplinare nei confronti del medesimo in relazione agli stessi fatti per i quali quest'ultimo era stato rinviato a giudizio in sede penale.

Inoltre, con successivo provvedimento l'Istituto disponeva la sospensione cautelare dal servizio del dipendente e, contestualmente, sospendeva il procedimento disciplinare attivato nei suoi confronti in attesa degli esiti del procedimento penale ancora in corso.

Il procedimento disciplinare veniva, dunque, riattivato dopo che il Tribunale di La Spezia con sentenza del Gup, pur disponendo il rinvio a giudizio del lavoratore per vari dei reati ascrittigli, lo assolveva dal reato di usura e di esercizio abusivo della professione.

In particolare, per effetto di tale sentenza, l'Istituto proseguiva il procedimento disciplinare attivato nei confronti del B. limitatamente all'attività di lavoro svolta "in nero" da quest'ultimo nei confronti di un privato consulente, sebbene tali fatti non fossero stati ritenuti idonei ad integrare il reato di esercizio abusivo della professione (rispetto al quale lo stesso era stato assolto in sede penale).

L'Istituto ha infatti ritenuto anche sulla base dell'accertamento, contenuto nella sentenza penale, in ordine al ricevimento da parte del sig. B. di somme di denaro provenienti da terzi in relazione allo svolgimento "in nero" della predetta attività di consulenza che tali fatti costituivano, comunque, violazione del principio di esclusività del rapporto di pubblico impiego privatizzato.

Avverso tale pronuncia ricorreva per cassazione il sig. B. sulla base di quattro motivi.

Per un verso, il lavoratore eccepiva la violazione del principio di immediatezza della contestazione disciplinare rilevando che già con comunicaizone del 26.2.2000 il lavoratore era stato trasferito ad altra sede in correlazione con le vicende dell'inchiesta penale che lo riguardavano e che, con nota di messa in mora del 31.7.2001, l'Istituto aveva proceduto alla quantificazione del danno derivantegli da pratiche pensionistiche false ascritte al lavoratore, sicchè doveva ritenersi che, sin da tali date, il datore fosse a conoscenza dei fatti disciplinarmente rilevanti posti a fondamento del licenziamento.

Per tali ragioni, sosteneva il lavoratore che la contestazione disciplinare, effettuata soltanto il 19.9.2002, non potesse che ritenersi intempestiva.

Per altro verso, il lavoratore eccepiva la violazione del principio di immutabilità della contestazione disciplinare atteso che, in sede di riattivazione del procedimento disciplinare, erano stati addebitati al sig. B. fatti ulteriori rispetto a quelli già oggetto di contestazione ed, inoltre, tali fatti erano stati posti a base non più dell'originario addebito di esercizio abusivo della professione, bensì di quello diverso relativo alla violazione del principio di esclusività del rapporto di pubblico impiego.

Con riferimento al primo ordine di censure la Cassazione ha rigettato i relativi motivi di ricorso evidenziando che sia il trasferimento del lavoratore, sia la messa in mora del medesimo da parte dell'Istituto erano misure adottate a meri fini cautelari consistenti, in un caso, nella necessità di evitare la presenza del lavoratore nel luogo oggetto di indagini amministrative e, nell'altro, nell'intento di evitare gli effetti estintivi della prescrizione di eventuali crediti dell'ente nei confronti del B., ragion per cui non poteva ritenersi che l'ente, già all'epoca in cui ha adottato i relativi provvedimenti, fosse a conoscenza dei fatti posti a fondamento del licenziamento disciplinare.

Dunque la Cassazione, richiamando propri precedenti conformi sul punto, ha dichiarato la tempestività della contestazione disciplinare de qua rilevando che "in tema di procedimento disciplinare, il principio secondo il quale l'addebito deve essere contestato immediatamente va inteso in un'accezione relativa, compatibile con l'intervallo di tempo necessario al datore di lavoro per il preciso accertamento delle infrazioni commesse dal prestatore" (in tal senso v. Cass. 10 settembre 2013, n. 20719; Cass. 1§ luglio 2010, n. 15649; Cass. 6 settembre 2007, n. 18711; Cass. 20 giugno 2006, n. 14113).

In relazione allo specifico profilo inerente il rapporto tra procedimento disciplinare e processo penale, la Suprema Corte ha altresì osservato che "ai fini dell'accertamento della sussistenza del requisito della tempestività del licenziamento, in caso di intervenuta sospensione cautelare di un lavoratore sottoposto a procedimento penale, la definitiva contestazione disciplinare ed il licenziamento per i relativi fatti ben possono essere differiti in relazione alla pendenza del procedimento penale stesso" (in tal senso v. Cass. 16 febbraio 2010, n. 3600; Cass. 21 febbraio 2008, n. 4502; Cass. 17 febbraio 2010, n. 3697).

Infine, riguardo alle censure concernenti l'asserita violazione del principio di immutabilità della contestazione disciplinare, la Cassazione ha osservato che la Corte territoriale aveva correttamente motivato in ordine alla corrispondenza dei fatti posti a base della sanzione con quelli già oggetto di contestazione disciplinare, in quanto lo svolgimento di attività lavorativa di consulenza del lavoro e la ricezione di somme di denaro nell'ambito di tale attività, nella loro dimensione fattuale e fenomenica, erano stati già contestati al lavoratore nella contestazione del 2002, sicchè era irrilevante che, in occasione della riattivazione del procedimento disciplinare, i medesimi fatti fossero stati qualificati giuridicamente in modo differente come riconducibili non più all'addebito di esercizio abusivo della professione bensì a quello diverso di lavoro illegittimo alle dipendenze di terzi.

Per tutte le ragioni esposte la Cassazione ha rigettato il ricorso.

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