Contenzioso

Rassegna della Cassazione 1° - 14 luglio 2014

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Demansionamento quale unica alternativa al licenziamento

Cessione di ramo d'azienda illegittima e risarcimento del danno

Trasferimento temporaneo del lavoratore senza rimborso dell'indennità di trasferta

Rappresentanza sindacale e diritto di indire assemblee

Demansionamento quale unica alternativa al licenziamento

Cass., sez. lav., 11 luglio 2014, n. 16012

Pres. Lamorgese; Rel. Di Cerbo; P.M. Servello; Ric. C.D.C.V.I. Spa; Controric. L.P.

Mansioni - Soppressione della posizione lavorativa - Demansionamento quale unica alternativa al licenziamento - Fattispecie - Mancato consenso del lavoratore - Illegittimità del demansionamento - Conseguenze - Risarcimento del danno - Va corrisposto - Diritto del lavoratore ad essere riassegnato alle mansioni originarie o a mansioni equivalenti - Spetta - Impossibilità della riassegnazione per inesistenza delle precedenti mansioni o mansioni equivalenti - Onere della prova a carico del datore di lavoro - Si configura

Il demansionamento conseguente alla soppressione della posizione ricoperta dal lavoratore (che, nel caso di specie, era avvenuta nell'ambito di una ristrutturazione che aveva determinato la soppressione dell'intera unità funzionale cui lo stesso era addetto) è illegittimo, anche se rappresenta l'unica alternativa al licenziamento (o alla Cassa integrazione del lavoratore stesso), se il lavoratore non vi ha acconsentito e, pertanto, a quest'ultimo spetta il risarcimento del danno derivante dal demansionamento, nonché la riassegnazione alle mansioni originarie o (in assenza delle medesime) a mansioni equivalenti, salvo il caso in cui il datore di lavoro dimostri di esserne impossibilitato per inesistenza in azienda delle precedenti mansioni svolte dal lavoratore o di mansioni equivalenti.

Nota - Con la sentenza in commento la Corte di cassazione conferma la decisione del giudice territoriale adito, che aveva accertato l'illegittimo demansionamento di una dipendente di una casa di cura, la quale, dopo aver ricoperto il ruolo di medico responsabile del reparto di medicina generale, era stata adibita esclusivamente a compiti di consulenza internistica per gli ammalati della clinica e di intervento nei casi di urgenze non psichiatriche, mansioni proprie della qualifica di assistente.

Nel giudizio di merito era emerso, infatti, che tale demansionamento che faceva seguito ad una ristrutturazione aziendale nell'ambito della quale si era verificata la soppressione dell'unità funzionale di medicina generale, cui era addetta la lavoratrice non era stato preceduto dal consenso della dipendente alla modifica peggiorativa delle mansioni rispetto a quelle in precedenza svolte. In mancanza di tale consenso, secondo la Corte territoriale adita, era da ritenersi irrilevante la circostanza della ristrutturazione imposta dalla soppressione dell'unità funzionale di medicina generale, ristrutturazione che aveva reso necessario il suddetto demansionamento.

Nell'impugnare tale decisione di merito, la casa di cura datrice di lavoro ha osservato, in particolare, che, a seguito della predetta ristrutturazione e, quindi, della soppressione dell'unità funzionale di medicina generale (a cui faceva riferimento un certo numero di posti letto), non sussistevano in azienda reparti o posti letto deputati a ricoveri di medicina generale e che la dipendente non poteva essere addetta alla responsabilità delle altre unità funzionali presenti nella clinica per mancanza dei relativi titoli professionali.

Pertanto, la lavoratrice era stata adibita, quale responsabile del servizio internistico all'uopo istituito (privo di posti letto), all'assistenza medica di tipo internistico per i pazienti ricoverati nei reparti psichiatrici e di riabilitazione.

Tale adibizione non aveva determinato secondo il datore di lavoro alcun demansionamento, in quanto le mansioni effettivamente svolte dalla lavoratrice erano rimaste sostanzialmente le stesse.

Con la pronuncia in commento la Corte di cassazione, nel rigettare il ricorso del datore di lavoro afferma in primo luogo che, nel caso di assegnazione al lavoratore di mansioni diverse da quelle in precedenza svolte, l'equivalenza o meno delle mansioni deve essere valutata dal giudice anche qualora le mansioni di provenienza non siano state affidate ad altro dipendente ma si siano esaurite, con la conseguenza che anche in tale evenienza può aversi demansionamento, in violazione dell'art. 2103 c.c., ove le nuove mansioni affidate al lavoratore siano inferiori a quelle proprie della qualifica o alle ultime svolte dal lavoratore (cfr. in tal senso Cass. 26 gennaio 2010, n. 1575).

Nel caso di specie, essendo pacifica la circostanza del mutamento delle mansioni svolte dalla lavoratrice a seguito della soppressione dell'unità funzionale di medicina generale, il demansionamento si palesa, secondo la Suprema Corte, nel diverso (ed inferiore) tipo di responsabilità proprio del nuovo ruolo assegnato alla dipendente, concernente un servizio privo di posti letto, mentre quello precedentemente ricoperto dalla lavoratrice afferiva ad un servizio per il quale erano previsti venti posti letto. Tale circostanza configura, ad avviso della Cassazione, un demansionamento illegittimo, posto che nel caso di specie è mancato l'assenso della prestatrice di lavoro. In proposito la Suprema Corte ribadisce il principio secondo cui, ai sensi dell'art. 2103 c.c., nel testo introdotto dall'art. 13 della legge n. 300/1970, la modifica in pejus delle mansioni del lavoratore è illegittima ove disposta senza il consenso del dipendente, anche se finalizzata ad evitare il licenziamento o la messa in Cassa integrazione del lavoratore stesso (cfr. Cass. 2 luglio 2009, n. 15500 e Cass. 7 febbraio 2004, n. 2354). Infatti, solo con il consenso del lavoratore prosegue la Corte la sua diversa utilizzazione nel contesto aziendale non contrasta con l'esigenza di dignità e libertà della persona, configurando una soluzione più favorevole di quella ispirata al mero rispetto formale della norma. Dalla violazione della norma imperativa contenuta nell'art. 2103 c.c. discende la nullità del provvedimento datoriale di assegnazione a mansioni non equivalenti, con la conseguenza che al lavoratore spetta l'automatico ripristino della precedente posizione, fatto salvo il cosiddetto ius variandi del datore di lavoro. Pertanto, ove venga accertata l'esistenza di un comportamento contrario all'art. 2103 c.c., il lavoratore ha diritto non solo al risarcimento del danno patito quale conseguenza dell'inadempimento datoriale dell'obbligo contrattualmente assunto dal datore di lavoro, ma anche la riassegnazione alle mansioni originarie o (in assenza delle medesime) a mansioni equivalenti. L'obbligo del datore di lavoro di ricollocare il lavoratore nelle mansioni precedentemente occupate, o in mansioni equivalenti, può trovare una deroga solo nel caso di dimostrata impossibilità per inesistenza in azienda delle ultime mansioni svolte dal lavoratore o di mansioni equivalenti, ma l'onere di provare tale inesistenza incombe sul datore di lavoro (si veda in tal senso Cass. 7 dicembre 2007, n. 25668 in tema di reintegrazione nelle mansioni equivalenti a seguito di sentenza che abbia accertato il demansionamento).

Applicando tale principio al caso di specie la Suprema Corte conferma la sentenza di merito che aveva ritenuto insussistenti i presupposti per la deroga all'ordine di reintegrazione in mansioni equivalenti, posto che la casa di cura datrice di lavoro non aveva assolto al proprio onere probatorio in merito all'impossibilità di provvedervi, essendosi limitata ad allegare genericamente l'inesistenza, dopo la soppressione dell'unità funzionale di medicina generale, di reparti e di posti letto deputati a ricoveri di medicina generale.




Cessione di ramo d'azienda illegittima e risarcimento del danno

Cass., sez. lav., 14 luglio 2014, n. 16095

Pres. Roselli; Rel. Tricomi; P.M. Celeste; Ric. T.I. Spa; Controric. G.M. e altri

Cessione di ramo d'azienda - Illegittimità - Prosecuzione del rapporto col cessionario - Risarcimento del danno - Insussistenza

Nel caso in cui sia stata dichiarata l'illegittimità della cessione del ramo d'azienda, al lavoratore ceduto che abbia continuato a rendere la propria prestazione in favore del cessionario, percependo la relativa retribuzione, nulla spetta a titolo risarcitorio salvo che non fornisca la prova di aver effettivamente patito un danno a causa dell'illegittima cessione del contratto di lavoro.

Nota - La Corte di appello di Roma confermava la sentenza del giudice di primo grado con la quale erano stati respinti i ricorsi in opposizione ai decreti ingiuntivi ottenuti da alcuni lavoratori per il pagamento della mensilità di febbraio 2007, sulla base di una precedente sentenza pronunciata dal medesimo Tribunale che aveva dichiarato l'illegittimità della cessione di ramo d'azienda da parte della T. di cui i lavoratori erano dipendenti alla società HP DCS Srl.

In particolare la Corte di appello, disattesa l'eccezione relativa al mancato carattere di provvisoria esecutività della sentenza presupposta, affermava che il mancato adempimento della T. che non dava esecuzione alla sentenza né ripristinando il rapporto, né corrispondendo le relative retribuzioni, poneva la stessa società in una situazione di mora accipiendi con il conseguente obbligo di corrispondere le retribuzioni relative al periodo successivo a quello in cui veniva annullata la cessione, indipendentemente dall'effettività della prestazione.

Avverso tale pronuncia la società proponeva ricorso per Cassazione prospettando tre motivi di ricorso.

Innanzitutto la società rilevava che la decisione del Tribunale di Roma che aveva dichiarato l'illegittimità della cessione del ramo di azienda, ordinando il ripristino del rapporto, non poteva considerarsi un titolo idoneo sulla cui base emettere un decreto ingiuntivo di pagamento delle retribuzioni in quanto non era ancora passata in giudicato.

In secondo luogo la società eccepiva che non fosse ravvisabile nella specie alcun valido atto di messa in mora della T. atteso che i lavoratori, nel periodo dedotto in giudizio, avevano continuato a lavorare presso la cessionaria del ramo di azienda ricevendo regolare retribuzione e, dunque, non potevano effettivamente disporre della prestazione offerta.

Infine la società esponeva che le somme rivendicate dai lavoratori avevano natura risarcitoria e non retributiva, come erroneamente ritenuto dal giudice territoriale, e che quindi nulla poteva esser loro riconosciuto in quanto l'asserito danno subito era stato già compensato dalla retribuzione ricevuta dalla cessionaria nel periodo in contestazione.

La Cassazione, richiamando un proprio precedente conforme (sent. Cass. n. 18740/2008) ha ritenuto che l'illegittima cessione del rapporto di lavoro avrebbe potuto dar luogo a pretese di carattere risarcitorio in applicazione delle norme codicistiche sull'illecito contrattuale e, dunque, con conseguente onere allegatorio e probatorio a carico del lavoratore.

Nel caso di specie, ha osservato la Suprema Corte che i lavoratori dipendenti del ramo di azienda ceduto non avevano subito nessun danno, neppure sotto il profilo della perdita delle retribuzioni o di parte di esse, atteso che il rapporto di lavoro degli stessi era proseguito con la società acquirente con conservazione di tutti i diritti derivanti.

Pertanto, non essendo stata fornita alcuna prova del danno, l'illecito contrattuale costituito dall'illegittima cessione del ramo di azienda e, quindi, del contratto individuale di lavoro, non poteva dar luogo ad un'obbligazione risarcitoria in favore dei lavoratori ceduti.

Per tali ragioni la Cassazione ha accolto il ricorso.




Trasferimento temporaneo del lavoratore senza rimborso dell'indennità di trasferta

Cass., sez. lav., 1° luglio 2014, n. 14944

Pres. Lamorgese; Rel. Tria; P.M. Servello; Ric. G.L.F.; Controric. S. Spa

Lavoro subordinato - Accordo collettivo - Sindacato - Portatore dell'interesse collettivo alla conservazione dell'occupazione - Efficacia della stipulazione nei confronti del singolo lavoratore

In tema di mansioni del lavoratore, le limitazioni dello ius variandi introdotte dall'art. 2103 c.c. e disciplinate dalla contrattazione collettiva, non vengono in considerazione nell'ipotesi in cui il trasferimento del lavoratore non consegua ad un atto unilaterale posto in essere dal datore di lavoro nel suo esclusivo interesse, ma costituisca piuttosto una misura adottata nell'interesse del lavoratore per evitare la perdita del posto, nell'impossibilità, non altrimenti ovviabile, di una prosecuzione dell'attività lavorativa nella sede di origine.

Nota - Con la sentenza in commento la Corte di cassazione ha confermato la decisione della Corte d'appello di Lecce che aveva respinto l'appello proposto dal lavoratore, volto ad ottenere la condanna del datore di lavoro alla corresponsione dell'indennità di trasferta per il periodo gennaio 2000/giugno 2001. Nel caso di specie, infatti, era intervenuto un accordo aziendale in data 29 dicembre 1999, con lo specifico obiettivo di evitare licenziamenti a fronte di una crisi aziendale, che prevedeva la mobilitazione temporanea di cinque lavoratori (tra cui il ricorrente) da Brindisi a Lecce, senza rimborso delle indennità di trasferta; solo con un successivo accordo del 28 giugno 2001 si era poi stabilito il riconoscimento delle indennità di trasferta, con decorrenza dal 1° luglio 2001.

Con uno dei motivi di ricorso il lavoratore ha dedotto che la Corte d'appello non avrebbe tenuto conto della giurisprudenza di legittimità secondo cui il diritto sindacale resta fondato esclusivamente sui principi privatistici e sulla rappresentanza negoziale e che, nel caso in cui l'accordo stipulato dal sindacato abbia ad oggetto situazioni giuridiche individuali, non può ritenersi vincolato a tale accordo il lavoratore che non vi abbia aderito, in quanto il rapporto tra il singolo e l'associazione sindacale non è configurabile come un rapporto di mandato.

Sul punto, la Corte di cassazione ha affermato che "l'adesione degli interessati iscritti o non iscritti alle associazioni stipulanti ad un contratto o accordo collettivo può essere non solo esplicita, ma anche implicita, come accade quando possa desumersi da fatti concludenti, generalmente ravvisabili nella pratica applicazione delle relative clausole". Ebbene, nel caso di specie, avendo il lavoratore dato pratica applicazione alla clausola dell'accordo oggetto di contestazione, senza mai contestarla o lamentarsene, secondo la Corte già da tale dato si può desumere che il comportamento dell'interessato era da intendere come accettazione implicita della clausola in questione.

La Corte ha poi evidenziato che l'accordo collettivo di cui si tratta, essendo intervenuto nel corso di una procedura di mobilità, era stato stipulato in base all'art. 4, comma 11, della legge n. 223/1991, ed al fine di garantire il reimpiego di alcuni lavoratori. Ne consegue che la trasferta, temporaneamente senza relativa indennità, appare configurabile come una soluzione che non era stata adottata dal datore di lavoro nel suo esclusivo interesse, ma al fine di tutelare l'interesse dei lavoratori, ivi compreso il ricorrente, ed evitare la perdita del posto di lavoro, nell'impossibilità di una prosecuzione dell'attività lavorativa nella sede di origine. A fronte di questa situazione, il sacrificio per pochi mesi della mancata riscossione dell'indennità di trasferta è stato ripagato dal mantenimento del posto di lavoro, in un accordo sottoscritto dai sindacati stipulanti in conformità con il loro ruolo istituzionale particolarmente rilevante in sede di partecipazione alle procedure previste dalla legge 23 luglio 1991, n. 223 di portatori dell'interesse collettivo alla conservazione dell'occupazione, a vantaggio di tutti i lavoratori interessati alla procedura di mobilità.

Sulla base di tali principi la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso del lavoratore.




Rappresentanza sindacale e diritto di indire assemblee

Cass., sez. lav., 7 luglio 2014, n. 15437

Pres. Lamorgese; Rel. Tria; P.M. Servello; Ric. FLMU.; Controric. T.I. Spa

Diritto di indire l'assemblea ex art. 20, St. lav. - Titolarità - Singoli componenti Rsu - Ammissibilità - Limiti - Espressione di sindacato rappresentativo ex art. 19, St. lav.

In tema di rappresentatività sindacale, dalla lettura coordinata dell'art. 19 con l'art. 20 della legge 20 maggio 1970, n. 300, si desume che il combinato disposto degli artt. 4 e 5 dell'accordo interconfederale del 1993 (istitutivo delle Rsu) deve essere interpretato nel senso che il diritto di indire assemblee rientra tra le prerogative attribuite non solo alla Rsu considerata collegialmente, ma anche a ciascun componente della Rsu stessa, purché questi sia stato eletto nelle liste di un sindacato che, nella azienda di riferimento, sia, di fatto, dotato di rappresentatività ai sensi dell'art. 19 cit., quale risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 231/2013.

Nota - Nella sentenza in esame la Suprema Corte analizza la questione relativa alla natura individuale ovvero collegiale del diritto delle Rsu di indire assemblee, diritto attribuito "singolarmente o congiuntamente" alle Rsa dall'art. 20, Stat. lav. ed esteso alle Rsu dall'art. 4, comma 1, dell'accordo interconfederale del 1993, secondo cui "i componenti delle Rsu subentrano ai dirigenti delle Rsa nella titolarità di diritti, permessi, libertà sindacali e tutele già loro spettanti, per effetto delle disposizioni di cui al titolo terzo della legge n. 300/1970". Con ricorso articolato su un unico motivo, la Federazione Lavoratori Metalmeccanici Uniti di Firenze (d'ora in avanti FMLU) censura la sentenza della Corte d'appello di Firenze confermativa di quella emessa in primo grado, che aveva escluso l'antisindacalità del comportamento della società consistito nella reiterata negazione ad un membro della Rsu del diritto di indire assemblee ex art. 20 St. lav.

In estrema sintesi, la Corte fiorentina aveva fondato la sua decisione sul presupposto che l'art. 20 dello Statuto dei lavoratori attribuisce il diritto in questione alle Rsa, ma non ai singoli dirigenti della medesima e che pertanto non possono considerarsi titolari del diritto stesso neppure i componenti delle Rsu, posto che l'accordo interconfederale del 1993 prevede il subentro dei componenti delle Rsu nella titolarità dei diritti e prerogative dei dirigenti Rsa.

Inoltre, veniva valorizzato il fatto che il sindacato ricorrente non era firmatario del contratto collettivo applicato in azienda, mentre l'art. 4 del medesimo accordo interconfederale attribuisce il diritto di indire l'assemblea in favore "delle organizzazioni aderenti alle associazioni sindacali stipulanti il Ccnl applicato nell'unità produttiva".

Sulla scorta di tali premesse, precisando di essere consapevole dell'esistenza di altro indirizzo di legittimità di segno contrario (Cass. 1° febbraio 2005, n. 1892), la Corte fiorentina se ne discosta, aggiungendo che la Rsu è stata configurata dal citato accordo interconfederale come un organismo a funzionamento collegiale e che non v'è motivo di considerarla assegnataria di tutti i diritti non espressamente esclusi.

La Suprema Corte accoglie il ricorso della FMLU, ritenendo di dare continuità all'indirizzo espresso nella sentenza Cass. 1° febbraio 2005, n. 1892 citata, nonché in altri precedenti (Cass. 24 gennaio 2006, n. 1307; Cass. 27 gennaio 2011, n. 1955, Cass. 24 aprile 2013, n. 10001), orientamento che, secondo la Corte, risulta confermato nella lettura "costituzionalmente orientata" delle norme di riferimento derivante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 231/2013.

La Cassazione sottolinea che la diversa, più risalente, interpretazione (Cass. 26 febbraio 2002, n. 2855; Cass. 20 aprile 2002, n. 5765) fa leva su una nozione di rappresentatività sindacale ormai totalmente superata e non più ammissibile dopo il citato intervento della Corte costituzionale nella pronuncia n. 231/2013, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 19, comma 1, lett. b), dello St. lav., sottolineando che "se il sindacato è realmente rappresentativo, la sua decisione di non firmare un contratto collettivo alle cui trattative preparatorie abbia attivamente preso parte, nell'indicata veste, non può sicuramente essere configurata come elemento idoneo a negare la tutela privilegiata prevista dalla legge n. 300/1970".

La Corte evidenzia inoltre che le Rsu rispondono ad un diverso criterio di rappresentatività sindacale in azienda (Cass. 5 maggio 2013, n. 6821; Cass. 27 gennaio 2011, n. 1955; Cass. 7 marzo 2012, n. 3545; Cass. 24 aprile 2013, n. 10001) e che sono pienamente legittime anche se deviano dal criterio di rappresentatività posto dall'art. 19, St. lav. fondato sulla sottoscrizione di un contratto collettivo applicabile nell'unità produttiva, criterio che oggi non può più peraltro considerarsi esclusivo alla luce della citata sentenza della Corte costituzionale (Cass. 1° febbraio 2005, n. 1892; Cass. 24 gennaio 2006, n. 1307).

Sulla scia di tali considerazioni, la Suprema Corte afferma che l'autonomia contrattuale collettiva può prevedere organismi di rappresentatività sindacale in azienda (quali nella specie le Rsu previste dall'accordo interconfederale del 1993) diversi rispetto alle Rsa di cui all'art. 19, St. lav. ed alle prime può assegnare prerogative sindacali quali il diritto ad indire l'assemblea non necessariamente identiche a quelle delle Rsa, con il limite, previsto dall'art. 17 dello Statuto, del divieto di riconoscere ad un sindacato un'ingiustificata posizione differenziata che lo collochi quale interlocutore privilegiato del datore.

Nel pervenire alle conclusioni di cui alla massima la Suprema Corte valorizza anche la lettura combinata degli artt. 4 e 5 dell'accordo interconfederale del 1993, che prevedono rispettivamente il subentro dei componenti delle Rsu ai dirigenti delle Rsa nella titolarità dei diritti e prerogative sindacali ed il subentro delle Rsu alle Rsa ed ai loro dirigenti nella titolarità dei poteri e nell'esercizio delle funzioni ad essi spettanti per effetto di disposizioni di legge. Da qui, considerando l'assenza di qualsiasi previsione che attribuisca alle Rsu la natura di organismo a funzionamento collegiale, la Corte deduce che ad esse sono state pattiziamente riconosciute tutte le prerogative delle Rsa, ovvero sia quelle riferibili alla singola Rsa, sia quelle attribuite ai suoi dirigenti, e, tra queste, anche il diritto di indire l'assemblea sindacale.

Per effetto dei principi enunciati la sentenza d'appello impugnata viene cassata, con rinvio alla Corte d'appello di Firenze che dovrà attenersi a tutti i principi di diritto esposti ed, in primis, a quello enunciato nella massima.

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