Contenzioso

Rassegna della Cassazione 23 luglio - 5 agosto 2014

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Proporzionalità della sanzione disciplinare

Sicurezza del lavoro e indumenti di lavoro

Assegnazione di mansioni inferiori

Indicazione delle mansioni nel patto di prova

Proporzionalità della sanzione disciplinare

Cass., sez. lav., 1° agosto 2014, n. 17548

Pres. Macioce; Rel. Arienzo; P.M. Celeste; Ric. P.I. Spa; Controric. C.A.G.

Sanzioni disciplinari - Pluralità di fatti contestati - Mancata prova del fatto più grave contestato - Proporzionalità della sanzione - Non sussiste

Non sussiste il requisito della proporzionalità della sanzione disciplinare comminata al lavoratore allorché, nell'ambito di una pluralità di fatti contestati, non risulti provato il fatto più grave tra quelli richiamati nella contestazione.

Sanzioni disciplinari - Assenza di proporzionalità della sanzione - Riduzione da parte del giudice della sanzione - Mancata richiesta da parte del datore di lavoro costituito in giudizio - Impossibilità

Qualora la sanzione disciplinare comminata al lavoratore risulti sproporzionata, è impossibile per il giudice procedere ad una riduzione della sanzione in assenza di una specifica domanda in tal senso da parte del datore di lavoro costituito in giudizio.

Sanzioni disciplinari - Valutazione della legittimità della sanzione irrogata - Fattispecie - Scarso rendimento - Prova del mancato raggiungimento da parte del lavoratore del risultato atteso - Insufficienza - Prova del colpevole e negligente inadempimento del lavoratore agli obblighi contrattuali - Necessità

Ai fini della valutazione della legittimità della sanzione disciplinare irrogata al lavoratore per scarso rendimento, il datore di lavoro non può limitarsi a provare il mancato raggiungimento del risultato atteso o la sua oggettiva esigibilità, ma deve dimostrare che il risultato non è stato raggiunto a causa di una colpevole negligenza del lavoratore nell'adempimento dei suoi obblighi contrattuali.

Nota - Con la sentenza in commento la Corte di cassazione conferma la decisione del giudice del merito che aveva ritenuto illegittime alcune sanzioni disciplinari comminate ad un lavoratore.

In particolare, nel caso di specie al lavoratore era stata inflitta una multa di quattro ore in relazione ad una serie di fatti contestati che, però, non erano poi risultati tutti integralmente confermati in giudizio, poiché il più grave di essi (ossia la reazione di brusco abbandono del luogo in cui alcuni rappresentanti sindacali avevano convocato il dipendente per leggergli il contenuto di una comunicazione scritta che lo riguardava) non era stato accertato; pertanto, tale sanzione disciplinare era stata ritenuta dal giudice del merito sproporzionata.

Il medesimo lavoratore era stato fatto oggetto anche di una seconda sanzione disciplinare, consistente in una sospensione di dieci giorni; tale provvedimento sanzionatorio era stato ritenuto dal giudice del merito sproporzionato rispetto al fatto contestato (ossia l'assenza non autorizzata dal lavoro per ferie), posto che nel corso del giudizio i testi escussi avevano confermato una gestione delle ferie presso il datore di lavoro carente e confusa, nell'ambito della quale era risultato comprensibile che il dipendente avesse ritenuto di poter godere dei quattro giorni di ferie richiesti - ed effettivamente fruiti - non avendo ricevuto un tempestivo rifiuto da parte del datore di lavoro, come era invece accaduto in precedenti occasioni.

Allo stesso lavoratore erano state altresì comminate due multe, rispettivamente di una e di due ore, per un presunto ingiustificato accumulo di una consistente quantità di giacenze nello svolgimento della propria prestazione lavorativa; tali ultime sanzioni erano state dichiarate illegittime dal giudice del merito per difetto di specificità della contestazione e delle allegazioni, da cui non era stato possibile accertare l'imputabilità al lavoratore delle giacenze segnalate, con la conseguente impossibilità di verificare lo scarso rendimento contestato al lavoratore medesimo.

La Suprema Corte, chiamata dal datore di lavoro a pronunciarsi sulla vicenda, ribadisce innanzitutto l'orientamento giurisprudenziale secondo cui la legittimità di una sanzione disciplinare irrogata ad un lavoratore subordinato per una pluralità di infrazioni contestate non può essere esclusa con riguardo al principio di proporzionalità di cui all'art. 2106 c.c. solo per il fatto che alcuni di tali addebiti risultino infondati (fuori dall'ipotesi di una specifica previsione contrattuale che configuri i diversi addebiti come componenti essenziali di un'unica figura complessa di illecito disciplinare), atteso che la proporzionalità risulta dalla comparazione tra sanzione inflitta e infrazione commessa nel caso concreto, e che una sola delle infrazioni può risultare proporzionata alla sanzione inflitta (cfr. Cass. 4 maggio 2005, n. 9262 e, in tema di sanzione espulsiva, Cass. 2 febbraio 2009, n. 2579).

Tuttavia, la Corte di cassazione rileva come nella configurazione dell'addebito disciplinare contestato al lavoratore nel caso di specie il comportamento individuato come il più grave tra quelli richiamati nella contestazione (ossia l'aver abbandonato, con un atteggiamento brusco e sgarbato, il luogo ove erano presenti i rappresentanti sindacali che avrebbero dovuto leggere al dipendente il contenuto di una comunicazione scritta allo stesso indirizzata) fosse rimasto sfornito di prova, con ciò consentendo di escludere che ricorresse il requisito della proporzionalità della sanzione comminata rispetto alla contestazione (o meglio, rispetto ai fatti contestati che poi sono risultati accertati, con esclusione, quindi, di quello che lo stesso datore di lavoro aveva individuato come il più grave di essi).

Quanto alla sanzione disciplinare della sospensione di dieci giorni comminata al medesimo lavoratore, anch'essa giudicata sproporzionata, la Suprema Corte, con la sentenza in commento, richiama il principio secondo cui il potere di infliggere sanzioni disciplinari e di proporzionare la gravità dell'illecito accertato rientra nel potere di organizzazione dell'impresa quale esercizio della libertà di iniziativa economica di cui all'art. 41 Cost., onde è riservato esclusivamente al titolare di esso; pertanto, esso non può essere esercitato dal giudice, salvo che nell'ipotesi in cui sia lo stesso datore di lavoro, convenuto in giudizio per l'annullamento della sanzione, a chiedere la riduzione della sanzione per l'ipotesi in cui il giudice, in accoglimento della domanda del lavoratore, ritenga eccessiva (come nella specie) la sanzione già inflitta.

Solo in tale ipotesi, infatti, ossia solo qualora vi sia stata la predetta richiesta da parte del datore di lavoro, l'applicazione di una sanzione minore all'esito del giudizio può ritenersi legittima, poiché la stessa non implicherebbe la sottrazione al datore di lavoro della sua autonomia imprenditoriale (si veda Cass. 13 aprile 2007, n. 8910). Posto che nella fattispecie in esame tale domanda non era stata formulata nel giudizio di merito, secondo la Suprema Corte, contrariamente alla prospettazione datoriale, è da ritenersi esclusa la facoltà per il giudice di ridurre la sanzione disciplinare sproporzionata irrogata al lavoratore.

Infine, in merito alle due multe irrogate al lavoratore per scarso rendimento, la Corte di cassazione, nel confermarne l'illegittimità, osserva che la violazione del dovere di diligenza da parte del dipendente nello svolgimento delle mansioni assegnategli (sanzionata con misure conservative o con l'espulsione del lavoratore, a seconda del grado dell'inosservanza), come per l'ipotesi del licenziamento per scarso rendimento, rientrante nella tipologia del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, deve essere provata dal datore di lavoro, il quale non può limitarsi a provare solamente il mancato raggiungimento del risultato atteso o l'oggettiva sua esigibilità, ma deve anche provare che la causa di esso derivi dal colpevole e negligente inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore nell'espletamento della sua normale prestazione.

Nella valutazione delle relative risultanze probatorie deve tenersi conto - alla stregua di un bilanciamento dei principi costituzionali sanciti dagli artt. 4 e 41 Cost. - del grado di diligenza normalmente richiesto per la prestazione lavorativa e di quello effettivamente usato dal lavoratore, nonché dell'incidenza dell'organizzazione complessiva del lavoro nell'impresa e dei fattori socio-ambientali (cfr. Cass. 9 settembre 2003, n. 13194).




Sicurezza del lavoro e indumenti di lavoro

Cass., sez. lav., 23 luglio 2014, n. 16715

Pres. Stile; Rel. Doronzo; P.M. Servello; Ric. G.G. Spa; Controric. G.R. e altri

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Indumenti di lavoro forniti ai dipendenti addetti alle operazioni di raccolta dei rifiuti - Riferimento a circostanza notoria - Legittimità - Conseguenze - Onere delle spese di lavaggio a carico del datore di lavoro - Configurabilità

La funzione protettiva svolta dagli indumenti di lavoro può essere dedotta facendo applicazione della nozione giuridicamente rilevante di fatto notorio (art. 115 c.p.c.), consistente nel rilievo che l'attività di pulizia di cose e spazi particolarmente esposti ad afflusso di persone comporta l'inevitabile contatto con sostanze nocive o patogene. Il ricorso alle nozioni di comune esperienza attiene all'esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito, il cui giudizio circa la sussistenza di un fatto notorio può essere censurato in sede di legittimità solo se sia stata posta a base della decisione una inesatta nozione del notorio, da intendere come fatto conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo.

Nota - Con la sentenza in commento la Corte di cassazione ha confermato la decisione della Corte d'appello di Milano che aveva accolto l'appello proposto dai lavoratori, volto ad ottenere la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno derivante dall'inadempimento consistito nel non aver provveduto al lavaggio a spese dell'azienda degli indumenti di servizio forniti ai lavoratori.

A fondamento della decisione la Corte d'appello aveva rilevato che gli appellanti - addetti con mansioni di pulitori delle carrozze ferroviarie - erano dotati di completi da lavoro, che, in quanto idonei ad offrire adeguata protezione al corpo del lavoratore dai rifiuti organici e inorganici con i quali venivano a contatto nelle operazioni di pulizia, svolgevano la funzione di dispositivi di protezione individuale.

Vi era, pertanto, l'obbligo della datrice di lavoro di fornire detti indumenti e di tenerli in stato idoneo alla funzione, quindi di provvedere al loro lavaggio. Poiché, al contrario, era emerso che il lavaggio di tali indumenti avveniva a cura e spese dei lavoratori, la società era stata condannata a risarcire il danno derivante dal proprio inadempimento.

Con vari motivi di ricorso la società ha dedotto che la Corte d'appello non avrebbe considerato la differenza tra indumenti di lavoro e indumenti protettivi, e, pur avendo dato atto che la tuta di cui erano dotati i lavoratori era di semplice cotone e non rivestiva propriamente la qualità di dispositivo di protezione, aveva ritenuto sussistente l'obbligo del datore di lavoro di provvedere alla sua cura e tenuta in efficienza, così violando le norme di riferimento.

Peraltro, la natura del vestiario era stata desunta anche dalle dichiarazioni rese dai lavoratori in sede di interrogatorio, da cui era emerso che le tute servivano unicamente ad identificare i lavoratori come appartenenti alla società, mentre solo in caso di operazioni di pulizia comportanti rischi di inalazione o contatti con prodotti detergenti, alcalini o irritanti, i lavoratori erano dotati di tute in Tyvek o in Pvc, quindi di veri e propri dispositivi di protezione individuale.

Sul punto la Corte di cassazione ha affermato che la Corte territoriale aveva correttamente accertato in fatto la funzione protettiva svolta dagli indumenti oggetto di causa, ritenendo che tali indumenti assolvessero in concreto la funzione di proteggere i lavoratori dai rifiuti con i quali venivano a contatto durante le operazioni di pulizia, e che, nel corso di tale accertamento di fatto, la Corte aveva fatto corretta applicazione della nozione giuridicamente rilevante di fatto notorio (art. 115 c.p.c.), consistente nel rilievo che l'attività di pulizia di cose e spazi particolarmente esposti ad afflusso di persone comporta l'inevitabile contatto con sostanze nocive o patogene, come la polvere, la sporcizia, i residui organici. Da ciò poi la Corte ha tratto l'ulteriore conseguenza che gli indumenti usati dai lavoratori servissero a fini "igienici", ovvero di protezione del lavoratore.

Ebbene, a detta della Corte di cassazione, "il ricorso alle nozioni di comune esperienza attiene all'esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito, il cui giudizio circa la sussistenza di un fatto notorio può essere censurato in sede di legittimità solo se sia stata posta a base della decisione una inesatta nozione del notorio, da intendersi come fatto conosciuto da un uomo di media cultura in un dato tempo e luogo", circostanza non verificatasi nel caso di specie.

Sulla base di tali principi la Corte di cassazione ha quindi rigettato il ricorso della società.




Assegnazione di mansioni inferiori

Cass., sez. lav., 5 agosto 2014, n. 17624

Pres. Macioce; Rel. Arienzo; P.M. Celeste; Ric. P.I. Spa; Controric. P.F.

Jus variandi - Equivalenza delle mansioni - Riconducibilità ad un medesimo inquadramento - Irrilevanza - Equivalenza in concreto - Necessità

Il divieto per il datore di lavoro di variazione in pejus, sancito dall'art. 2103 c.c., opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, non potendosi limitare, nell'accertamento dell'equivalenza, al riferimento in astratto all'inquadramento formale del lavoratore, ma dovendosi accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza maturata dal dipendente, al livello professionale raggiunto e consentano l'utilizzazione del patrimonio professionale acquisito.

Nota - La Corte di appello di Lecce rigettava il gravame proposto da P.I. Spa avverso la decisione di prime cure che aveva accolto parzialmente la domanda del sig. P. dichiarando l'inefficacia dell'assegnazione dello stesso con funzioni di direttore presso il nuovo ufficio di Lecce 6.

Rilevava la Corte che il disposto trasferimento era illegittimo poiché lesivo del principio della equivalenza delle mansioni sancito dall'art. 2103 c.c. in quanto il nuovo ufficio era meno importante di quello precedentemente ricoperto, considerato che presso la sede di origine operavano 70 dipendenti ed erano svolte operazioni di particolare rilievo, laddove la sede di destinazione (succursale di Lecce 6) era classificata di fascia inferiore ed aveva un volume di attività di gran lunga meno consistente.

La Corte rigettava, inoltre, le domande risarcitorie avanzate dal lavoratore rilevando che alcun danno poteva essere conseguito dall'impugnato trasferimento tenuto conto che l'appellato non aveva prestato alcun giorno di servizio presso la sede di destinazione.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la società affidato a tre motivi di impugnazione.

In particolare sosteneva la società che la Corte territoriale avesse fatto erronea applicazione dell'art. 2103 c.c., ritenendo dequalificante il provvedimento di applicazione del sig. P. ad un diverso ufficio, con funzioni di direttore, sebbene fosse rimasto invariato il livello retributivo nonché la qualifica di reggenza dello stesso; e ciò sulla base di un mero criterio quantitativo riferito al personale ed ai servizi dell'ufficio.

La Suprema Corte, confermando la sentenza di secondo grado, ha ritenuto destituite di fondamento le censure sollevate dalla società, rilevando che non potesse considerarsi sufficiente per ritenere osservato il divieto di variazione in pejus, sancito dall'art. 2103 c.c., che il livello retributivo e la qualifica ricoperte dal lavoratore fossero rimasti invariati a seguito del trasferimento.

Difatti, osserva la Suprema Corte, richiamando il costante orientamento espresso in materia, che ai fini della verifica del legittimo esercizio dello jus variandi deve essere valutata dal gudice di merito la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto, rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente, senza che assuma rilievo, sul piano formale, che entrambe le tipologie di mansioni rientrino nella medesima area professionale.

In altri termini, il divieto per il datore di lavoro di variazione in pejus, sancito dall'art. 2103 c.c., opera quando al lavoratore, pur nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori (cfr. sent. Cass. 9 marzo 2004, n. 4790; Cass. 12 marzo 2004, n. 5161; Cass. 24 novembre 2006, n. 25033; Cass. 2 maggio 2006, n. 10091; Cass. 14 giugno 2013, n. 15010).

Per le ragioni sin qui esposte la Cassazione ha rigettato il ricorso.




Indicazione delle mansioni nel patto di prova

Cass., sez. lav., 4 agosto 2014, n. 17591

Pres. Roselli; Rel. Arienzo; P.M. Celeste; Ric. L.P.; Controric. F. Srl

Contratto di lavoro - Patto di prova - Requisiti - Specifica indicazione mansioni - Rinvio alle declaratorie contrattuali - Ammissibilità - Limiti - Sufficiente determinazione declaratorie

Il patto di prova apposto al contratto di lavoro, oltre a risultare da atto scritto, deve contenere la specifica indicazione delle mansioni che ne costituiscono l'oggetto, la quale può essere operata anche per relationem alle declaratorie del contratto collettivo che definiscano le mansioni comprese nella qualifica di assunzione sempre che il richiamo sia sufficientemente specifico.

Nota - Nella fattispecie in esame la Corte d'appello di Genova, in riforma della sentenza di primo grado, ha rigettato il ricorso proposto da un lavoratore che assumeva la nullità del patto di prova apposto al suo contratto di lavoro per difetto di forma, in quanto privo delle specifiche mansioni, nonché per divergenza tra le attività indicate nel contratto medesimo e quelle in concreto svolte. In particolare la Corte d'appello, ribadendo principi consolidati, ha sottolineato che la valutazione della specificità dell'indicazione delle mansioni va effettuata in concreto, verificando se il dipendente sia effettivamente stato messo in condizioni di conoscere le mansioni da svolgere, ritenendo che nel caso esaminato il rinvio alle declaratorie contrattuali ha consentito al dipendente di apprendere "il suo campo di azione e, quindi, l'oggetto della prova". La Corte ha poi respinto la censura inerente alla non coincidenza tra le mansioni assegnate e quelle in concreto espletate, valorizzando il contenuto confessorio di una missiva in cui il lavoratore aveva elencato come attività svolte proprio quelle descritte nel contratto di assunzione.

Avverso tale pronunzia il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione lamentando, sotto vari profili, la violazione di una serie di norme tra cui l'art. 2096 c.c. e le disposizioni del contratto collettivo applicabile contenenti le declaratorie.

La Suprema Corte ha rigettato tutti gli otto motivi di ricorso molti per motivazioni squisitamente processuali affermando che il giudice del merito, nel ritenere il rinvio per relationem al Ccnl sufficientemente specifico, non si era discostato dai principi consolidati espressi nella massima, considerando che l'indicazione nel contratto andava coordinata, ai fini di specificazione, anche con il riferimento al settore di competenza attribuito al dipendente ed all'ambito di attività risultante dall'oggetto sociale. Inoltre la Cassazione, aderendo a precedenti specifici, ha ribadito che, quando si tratta di lavoro intellettuale e non meramente esecutivo, la maggiore discrezionalità delle mansioni affidate rende il loro ambito meno suscettibile di una descrizione analitica, pertanto esse non devono necessariamente essere indicate nel contratto in dettaglio, essendo sufficiente che, in base alla formula adoperata nel documento, siano determinabili (Cass. 27 gennaio 2011, n. 1957).

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