Contenzioso

Consulenti del lavoro, più libertà sui compensi

di Giovanni Negri

Il divieto del patto di quota lite, già previsto dal Codice civile e poi reintrodotto dalla riforma dell'ordinamento forense, si riferisce a chi svolge un'attività difensiva. Ne è pertanto escluso il consulente del lavoro che punta a ottenere un risparmio per la società sua cliente e che non svolge certo un'attività di assistenza e rappresentanza in giudizio. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 20839 della Seconda sezione civile depositata ieri. Il patto di quota lite prevede che l'avvocato o il professionista percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione professionale. Il divieto era prima previsto dal Codice civile (momento cui si riferisce la pronuncia della Cassazione), poi rivisto nell'ambito delle “lenzuolate” dell'allora ministro Pier Luigi Bersani e infine reintrodotto dal nuovo ordinamento forense.

Il consulente era stato ingaggiato da una società per l'individuazione di soluzioni giuridiche che permettessero alla stessa di godere del beneficio delle agevolazioni (sgravio degli oneri sociali sui contributi Inps) previste per le aziende industriali del Mezzogiorno. A titolo di compenso veniva previsto il 25% dei contributi già pagati e recuperati. Ottenuta l'agevolazione, però, la società aveva citato il consulente per vedere annullato il contratto di prestazione d'opera professionale sostenendo il divieto del patto di quota lite. Sia in primo grado sia in appello il professionista aveva visto sconfitta la propria tesi e negato il compenso.

Ora la Cassazione ribalta i verdetti e precisa che il divieto, anche nella vecchia versione del Codice civile, si riferiva solo al professionista che svolge attività difensiva. Non solo l'avvocato, ma anche il dottore commercialista, il ragioniere e il consulente quando svolgono attività di patrocinio davanti alle commissioni tributarie. La prestazione svolta dal consulente del lavoro, nel caso esaminato dalla Cassazione, non rientrava certo nell'attività di assistenza e di rappresentanza in giudizio della società, quanto piuttosto in un impegno a ottenere dall'Inps il riconoscimento in via amministrativo contabile del diritto della società a ottenere lo sgravio.

Corte di cassazione - seconda sezione civile - sentenza n. 20839

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