Contenzioso

Rassegna della Cassazione - 2 luglio - 5 agosto 2014

di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Accertamento di natura subordinata e determinazione dell'importo dovuto per Tfr

Licenziamento per giusta causa

Contratto a termine per punte di intensa attività

Obbligo formativo nei confronti dell'apprendista

Richiesta delle ferie e periodo di comporto

Accertamento di natura subordinata e determinazione dell'importo dovuto per Tfr

Cass., sez. lav., 18 luglio 2014, n. 16489

Pres. Roselli; Rel. Ghinoy; P.M. Matera; Ric. C.O.; Controric. I. Srl

Accertamento natura subordinata del rapporto di lavoro - Differenze retributive - Principio dell'assorbimento dei minimi tabellari nei compensi pattuiti - Trattamento di fine rapporto - Inapplicabilità principio dell'assorbimento - Determinazione sulla base degli importi effettivamente corrisposti

Una volta che sia accertata in giudizio l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato in contrasto con la qualificazione del rapporto come autonomo operata dalle parti, ai fini della determinazione del trattamento economico dovuto si deve considerare nel suo complesso quanto in concreto sia stato già corrisposto al lavoratore e porlo a raffronto con il trattamento minimo dipendente dalla corretta qualificazione del rapporto, con la conseguenza che, ove quest'ultimo sia stato già integralmente corrisposto, non possono essere liquidati importi aggiuntivi (cd. principio dell'assorbimento).

Ai fini della determinazione dell'importo dovuto a titolo di trattamento di fine rapporto non può operare l'assorbimento con le eventuali eccedenze rispetto alla retribuzione minima contrattuale corrisposte durante il rapporto di lavoro.

Nota - Il Tribunale di Messina rigettava la domanda di condanna al pagamento di differenze retributive proposta da un lavoratore in ragione della rivendicata natura subordinata del proprio rapporto di lavoro, avente ad oggetto lo svolgimento dell'attività di ferraiolo.

La Corte d'appello, pur riqualificando il rapporto di lavoro in termini di subordinazione, negava il diritto a qualsivoglia differenza retributiva in considerazione del fatto, appurato dalla consulenza tecnica, che i compensi da lavoro autonomo percepiti dall'appellante erano consoni alla qualità e quantità del lavoro svolto, in quanto superiori ai minimi tabellari previsti dalla contrattazione collettiva sia del terziario, sia dell'industria metalmeccanica.

Avverso la pronuncia d'appello, ricorreva per Cassazione il lavoratore; il datore di lavoro resisteva con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale.

La Suprema Corte, dopo aver rigettato il ricorso incidentale relativo all'accertamento della subordinazione, ha riconosciuto la fondatezza del primo motivo del ricorso principale, chiarendo che le differenze retributive devono sempre essere liquidate al lordo sia delle ritenute fiscali sia dei contributi previdenziali a carico del lavoratore. Ed infatti, il datore di lavoro può procedere alle ritenute previdenziali a carico del lavoratore solo in caso di tempestivo pagamento del relativo contributo. Le ritenute fiscali sulle differenze retributive non possono essere trattenute dal momento che la loro determinazione attiene esclusivamente al rapporto tributario tra contribuente ed Erario (Cfr. Cass., sez. lav., 13 settembre 2013, n. 210109).

La Corte di cassazione ha poi ribadito che la retribuzione spettante al lavoratore, a seguito della riqualificazione del rapporto, debba essere determinata sulla base del principio dell'assorbimento, cioè sottraendo dai compensi già corrisposti il trattamento minimo previsto dalla contrattazione collettiva (cd. minimo tabellare). Da tale principio, tuttavia, non deriva alcun obbligo restitutorio da parte del lavoratore. Infatti, ad avviso della Suprema Corte, i minimi tabellari costituiscono semplicemente la retribuzione minima di riferimento per una determinata categoria di lavoratori, senza che sia impedito alle parti di concordare una retribuzione superiore.

Ciò premesso, la Corte di cassazione, in accoglimento anche del secondo motivo del ricorso principale, ha esplicitamente negato che il principio dell'assorbimento potesse applicarsi agli importi dovuti a titolo di trattamento di fine rapporto, in quanto diritto che matura solo al momento della cessazione del rapporto. Di conseguenza, in caso di riqualificazione del rapporto in termini di subordinazione, il trattamento di fine rapporto deve essere determinato sulla base delle retribuzioni che risultano annualmente dovute in applicazione dei minimi tabellari o, se superiore, sulla base di quanto già corrisposto nel corso del rapporto di lavoro, stante l'assenza di un obbligo restitutorio del lavoratore.



Licenziamento per giusta causa

Cass., sez. lav., 5 agosto 2014, n. 17625

Pres. Roselli; Rel. Balestrieri; P.M. Ceroni; Ric. T.D.N. Spa; Controric. N.M.

Licenziamento disciplinare - Lavoratore assente dal lavoro per malattia - Mancata adozione da parte del lavoratore di ogni cautela possibile per non mettere a rischio o ritardare la propria guarigione - Violazione dell'obbligo di correttezza e buona fede - Sussiste - Giusta causa - Si configura

Si configura la giusta causa di licenziamento nell'ipotesi in cui il lavoratore, assente dal lavoro per malattia, si sia reso responsabile di non aver adottato, in violazione dell'obbligo di correttezza e buona fede, ogni cautela possibile per non mettere a rischio o ritardare la propria guarigione, con il conseguente recupero dell'idoneità al lavoro.

Nota - Il caso oggetto della pronuncia in commento tratta di un lavoratore licenziato per giusta causa all'esito di un procedimento disciplinare per aver partecipato a due concorsi ippici, in qualità di driver, mentre versava in stato di malattia dovuta ad una "cervicalgia muscolotensiva con difficoltà di movimento" e per aver consegnato al datore di lavoro in ritardo (ossia solo quando ormai aveva già ripreso il servizio) la documentazione medica attestante lo stato morboso da cui era affetto, così cagionando al datore di lavoro gravi problemi organizzativi nella predisposizione dei turni e rendendo impossibile l'espletamento dei controlli medici.

Il giudice del merito, chiamato a pronunciarsi sulla legittimità del predetto licenziamento disciplinare, ne aveva dichiarato l'illegittimità sia in primo che in secondo grado, ritenendo che l'attività contestata al lavoratore fosse compatibile con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa e fosse inidonea a pregiudicare il recupero da parte del lavoratore delle normali energie lavorative.

La Corte di cassazione, con la sentenza in commento, in accoglimento del ricorso del datore di lavoro, afferma in primo luogo che lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà oltre che nell'ipotesi in cui tale attività esterna sia per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia (dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione della stessa), anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia (ex plurimis, in tal senso, Cass. 29 novembre 2012, n. 21253 e Cass. 7 giugno 1995, n. 6399).

La Suprema Corte osserva poi che lo svolgimento di attività diversa da quella dedotta nel rapporto di lavoro in costanza di malattia può essere valutata dal giudice come elemento indiziario dell'insussistenza della malattia stessa e quindi della sua fraudolenta simulazione da parte del lavoratore, ma occorre che questo profilo fattuale emerga chiaramente dalla contestazione dell'addebito, che non consiste più soltanto nell'aver svolto un'attività ulteriore in costanza di malattia, ma nel fatto ben più grave di aver simulato la malattia stessa, sottraendosi all'obbligo di svolgere la prestazione lavorativa, simulazione desumibile dallo svolgimento di un'attività ulteriore in costanza di malattia.

Nel caso di specie, la Corte territoriale adita aveva verificato che nella comunicazione dell'addebito al lavoratore i fatti contestati non erano stati affatto specificamente allegati dal datore di lavoro e, pertanto, non erano idonei a incolpare il lavoratore di una asserita fraudolenta simulazione dello stato di malattia. Infatti, l'accostamento (nella comunicazione degli addebiti) dell'impedimento temporaneo a svolgere la prestazione lavorativa all'effettuazione di un'attività sportiva agonistica in due occasioni, coincidenti con l'inizio e la fine della malattia, poteva suggerire il ragionevole dubbio di come il lavoratore, non idoneo al lavoro, potesse essere, nello stesso tempo, idoneo all'attività sportiva agonistica suddetta; tuttavia, il profilo della fraudolenta simulazione dello stato di malattia avrebbe richiesto - anche per la ben diversa gravità - che i fatti addebitati avrebbero assunto una specifica e chiara contestazione per porre il lavoratore in condizione di comprendere bene l'addebito contestatogli e di potersi difendere, circostanza che nel caso di specie è stata ritenuta insussistente nel corso del giudizio di merito.

Pertanto, nel caso di specie lo stato di malattia "cervicalgia muscolotensiva con difficoltà di movimento" non poteva considerarsi un dato controverso per il solo fatto che contestualmente il lavoratore avesse svolto un'attività agonistica sportiva, ma l'accostamento di quest'ultima alla legittima condizione di astensione dall'attività lavorativa poteva rilevare sotto il diverso profilo delle cautele e del comportamento secondo buona fede e correttezza che il lavoratore avrebbe dovuto tenere. Infatti, secondo la Suprema Corte, lo stato di malattia del lavoratore ex art. 2110 c.c. non comporta l'impossibilità assoluta di svolgere qualsiasi attività, ma è solo impeditivo delle normali prestazioni lavorative del dipendente, con la conseguenza che, nel caso di un lavoratore assente per malattia il quale sia stato sorpreso nello svolgimento di altre attività spetta al dipendente, secondo il principio della distribuzione dell'onere della prova, dimostrare la compatibilità di dette attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa e quindi la loro inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psicofisiche, restando peraltro la relativa valutazione riservata al giudice del merito all'esito di un accertamento da svolgersi non in astratto ma in concreto.

Pertanto, il lavoratore assente per malattia, che quindi legittimamente non effettua la prestazione lavorativa, non per questo deve astenersi da ogni altra attività, quale in ipotesi un'attività ludica o di intrattenimento; tuttavia, tale attività non solo deve essere compatibile con lo stato di malattia, ma deve essere altresì conforme all'obbligo di correttezza e buona fede, gravante sul lavoratore, di adottare ogni cautela idonea perché cessi lo stato di malattia con conseguente recupero dell'idoneità al lavoro. Infatti, secondo la Corte di cassazione (si veda in tal senso anche Cass. 21 aprile 2009, n. 9474), l'espletamento di altra attività, lavorativa o extralavorativa, da parte del lavoratore durante lo stato di malattia è idoneo a violare i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell'adempimento dell'obbligazione e a giustificare il recesso del datore di lavoro (solo) laddove si riscontri che l'attività espletata costituisca indice di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione.

Precisato quanto precede, la Suprema Corte osserva come nel caso di specie la Corte d'appello adita abbia errato nel limitarsi a verificare, richiamando le risultanze della consulenza tecnica medico-legale espletata nel corso del giudizio di merito, che le gare di trotto con calesse non comportassero "particolari scuotimenti o sollecitazioni del rachide" tali da compromettere o ritardare la guarigione del lavoratore, dichiarando sulla base di ciò solo l'illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore; secondo la Corte di cassazione, infatti, il giudice del merito avrebbe dovuto estendere la propria indagine al rispetto dell'obbligo di correttezza e buona fede che richiedeva che il lavoratore adottasse le cautele del caso per favorire la propria guarigione, tenendosi a riposo, posto che nel caso in cui da tale accertamento ulteriore fosse emersa la mancata adozione da parte del lavoratore delle predette cautele per non mettere a rischio o ritardare la propria guarigione, il licenziamento intimato sarebbe stato legittimo.



Contratto a termine per punte di intensa attività

Cass., sez. lav., 5 agosto 2014, n. 17617

Pres. Lamorgese; Rel. Manna; P.M. Servello; Ric. C.M.; Controric. G.G. Spa

Contratto a termine - Somministrazione di lavoro a tempo determinato - Punte di intensa attività - Riferibilità alle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo - Legittimità

Nell'ambito delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che, anche se riferibili all'ordinaria attività dell'azienda, consentono il ricorso al contratto a termine o alla somministrazione di lavoro a tempo determinato, rientrano le punte di intensa attività non fronteggiabili con il ricorso al normale organico; ne consegue che il riferimento a queste ultime può costituire valido requisito formale di tali tipi di contratto.

Nota - Con la sentenza in commento la Corte di cassazione ha confermato la decisione della Corte d'appello di L'Aquila, che aveva rigettato la domanda del lavoratore volta all'accertamento del proprio rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, previa declaratoria di nullità dei contratti di somministrazione e dei contratti a termine stipulati con la società negli anni dal 2006 al 2009.

Con vari motivi di ricorso il lavoratore ha dedotto che la sentenza impugnata avrebbe errato nel ritenere consentita l'apposizione del termine al contratto di lavoro, anche se le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo si riferivano all'ordinaria attività di lavoro del datore di lavoro, trascurando quindi la mancata esposizione, nel contratto fra le parti, delle ragioni che avrebbero giustificato l'apposizione della clausola di durata.

Con ultimo motivo di ricorso, il lavoratore ha poi dedotto la violazione del D.Lgs. n. 276/2003, stante la genericità delle ragioni indicate nei contratti di somministrazione.

Per quanto riguarda il contratto a termine, la Corte di cassazione ha affermato che il riferimento alle "punte di più intensa attività collegate al lancio del nuovo modello", di cui al contratto de quo, costituisce astrattamente un'idonea e specifica causale ascrivibile al novero di quelle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che consentono la legittima stipulazione di un contratto a termine ai sensi del D.Lgs. n. 368/2001, nel testo vigente all'epoca del contratto, anche laddove riferibili all'ordinaria attività del datore di lavoro.

Ed infatti, come ripetutamente statuito dalla Corte, il riferimento a punte di attività è una causale nota e sperimentata nella pratica contrattuale, consacrata anche in norme ormai remote concernenti il contratto al termine, e confermata dagli orientamenti giurisprudenziali che l'hanno sempre intesa come riferibile anche alle punte di intensificazione dell'attività produttiva di carattere gestionale anziché meramente stagionale (v. già Cass. n. 3988/1986).

Ebbene, nel caso di specie, la Corte territoriale ha correttamente accertato in fatto che l'incremento di attività era collegato al lancio di un nuovo modello di un prodotto dell'azienda, pertanto la sentenza impugnata ha reso una motivazione immune da vizi logico-giuridici, non censurabile in sede di legittimità.

Anche il quarto motivo di ricorso secondo la Corte di cassazione è infondato, poiché si pone in contrasto con consolidata giurisprudenza della Corte (cfr. da ultimo Cass. n. 8120/2013), secondo cui le "punte di più intensa attività" costituiscono causale idonea al rispetto del D.Lgs. n. 276/2003.

Sulla base di tali principi la Corte di cassazione ha quindi rigettato integralmente il ricorso del lavoratore.



Obbligo formativo nei confronti dell'apprendista

Cass., sez. lav., 2 luglio 2014, n. 15080

Pres. Lamorgese; Rel. Lorito; P.M. Servello; Ric. B.T.; Controric. P.R.

Apprendistato - Prova dell'insegnamento professionale al lavoratore - Onere del datore - Sussistenza

In caso di contestazione della legittimità del rapporto di apprendistato, spetta alla parte che ne deduce l'esistenza fornire la dimostrazione dei relativi requisiti essenziali e, segnatamente, dell'insegnamento professionale impartito al lavoratore.

Nota - La Corte di appello di Roma confermava la sentenza di primo grado con la quale erano state respinte le domande proposte dalla sig.ra B. dirette ad ottenere la declaratoria di inefficacia del licenziamento intimatole in data 22.7.2003, nonché l'accertamento della nullità del rapporto di apprendistato intercorso col sig. P., a far tempo dall'assunzione.

A fondamento del decisum la Corte di appello osservava che, dalle risultanze istruttorie acquisite nel precedente grado, per un verso, era emersa la tardività della impugnazione del licenziamento, posto che la lettera versata in atti era priva di firma e di data e non vi era prova dell'avvenuta spedizione della stessa; per altro verso, era emersa la ricorrenza nella specie dei requisiti, sia formali che sostanziali richiesti dalla legge, ai fini della legittimità del rapporto di apprendistato, consistenti questi ultimi nell'effettivo espletamento dell'attività di addestramento e di affiancamento da parte datoriale.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la sig.ra B. assistito da cinque motivi.

In particolare la ricorrente evidenziava l'errore in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nell'aver ritenuto che la lettera di impugnativa del licenziamento versata in atti, mediante copia priva di sottoscrizione, non fosse riferibile alla sig.ra B. Al contempo, la ricorrente impugnava l'affermazione resa dai giudici di merito secondo cui la lavoratrice non avrebbe fornito prova della spedizione della lettera di licenziamento unitamente a quella di richiesta dei motivi.

Sotto altro profilo, la ricorrente rilevava che la Corte territoriale aveva errato nel ritenere legittimo il contratto di apprendistato intercorso tra le parti, avendo posto a fondamento della propria decisione una deposizione testimoniale del tutto generica ed apodittica.

Riguardo al primo aspetto la Suprema Corte ha osservato che, nel caso di specie, il convenuto non aveva contestato soltanto il dato concernente la omessa sottoscrizione della lettera di impugnativa di licenziamento, bensì aveva eccepito di non aver mai ricevuto l'atto scritto di impugnativa unitamente a quello di richiesta dei motivi.

Dunque, rileva ancora la Suprema Corte, in siffatto contesto giuridico e fattuale, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei principi invalsi nella giurisprudenza di legittimità secondo cui, in caso di tempestiva contestazione da parte del datore di lavoro della circostanza relativa alla ricezione della lettera di impugnativa del licenziamento, è onere del lavoratore licenziato fornire prova di aver tempestivamente impugnato il licenziamento con atto scritto, nei limiti temporali fissati dall'art. 6, legge n. 604/1966 (Cass. 17 maggio 2005, n. 10291; Cass. 6 ottobre 2008, n. 24660).

Pertanto, facendo corretta applicazione di tali principi al caso concreto, correttamente i giudici del gravame non hanno ravvisato in atti alcun elemento che consentisse di ritenere dimostrato il contestuale invio della lettera di impugnazione del licenziamento con quella di richiesta dei motivi.

Passando alle censure riguardanti la legittimità del contratto di apprendistato, la Suprema Corte ha confermato la sentenza impugnata nella parte in cui i giudici di merito hanno ritenuto legittimo il suddetto contratto sulla base degli elementi scaturiti dalla espletata attività istruttoria dai quali era emersa la prova dell'effettivo espletamento di attività di addestramento ed affiancamento della B. ad opera del convenuto.

Anche in tal caso risultano, infatti, rispettati i principi più volte affermati dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui, in caso di contestazione della sussistenza di tale tipo di rapporto, spetta alla parte che ne deduce l'esistenza fornire la dimostrazione dei relativi requisiti essenziali e, segnatamente, dell'insegnamento professionale impartito al lavoratore tirocinante (Cass. 14 marzo 2001, n. 3696).

La Corte dunque ha rigettato il ricorso.



Richiesta delle ferie e periodo di comporto

Cass., sez. lav., 1° agosto 2014, n. 17538

Pres. Stile; Rel. D'Antonio; P.M. Servello; Ric. P.I.; Controric. G.M.

Malattia - Periodo di comporto - Interruzione - Richiesta ferie - Necessità

Il lavoratore che, assente per malattia ed impossibilitato a riprendere servizio, intenda evitare la perdita del posto di lavoro a seguito dell'esaurimento del periodo di comporto, deve comunque presentare la richiesta di fruizione delle ferie, affinché il datore di lavoro possa concedere al medesimo di fruire delle ferie durante il periodo di malattia, valutando il fondamentale interesse del richiedente al mantenimento del posto di lavoro, né le condizioni di confusione mentale del lavoratore per effetto della malattia fanno venir meno la necessità di una espressa domanda di fruizione delle ferie, indispensabile a superare il principio di incompatibilità tra ferie e malattia.

Nota - La Corte d'appello di Ancona ha confermato la sentenza di primo grado dichiarativa dell'illegittimità del licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto. In particolare i giudici del gravame hanno ritenuto che, sebbene non fosse stata fornita prova documentale della domanda di ferie impeditive del superamento del comporto, doveva presumersi che la lavoratrice le avesse effettivamente richieste in modo informale, come da prassi aziendale emersa in istruttoria. Ciò, secondo la Corte territoriale, in quanto non era ipotizzabile che tale domanda non fosse stata avanzata, stante l'importanza per la dipendente di conservare il posto di lavoro.

Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione affidato a due motivi. La lavoratrice ha resistito con controricorso.

In particolare viene, tra l'altro, censurata la parte della sentenza in cui i giudici di appello hanno affermato che, pur in assenza di prova documentale, dovesse presumersi avvenuta la richiesta di fruizione delle ferie. La società sottolinea che il giudice può ammettere solo le presunzioni gravi precise e concordanti, che la richiesta di ferie deve essere specifica e deve precedere la scadenza del periodo di comporto e che il datore di lavoro non ha l'onere di avvertire preventivamente il lavoratore dell'imminente scadenza del comporto per malattia.

La Suprema Corte accoglie il ricorso, enunciando il principio di cui alla massima, già espresso negli stessi termini in precedenti occasioni (Cass. 27 febbraio 2003, n. 3028; Cass. 11 maggio 2000, n. 6043). In particolare la Cassazione sottolinea che va esclusa un'incompatibilità assoluta tra ferie e malattia e che spetta al datore di lavoro, cui è generalmente riservato il diritto di scelta del tempo delle ferie, di dimostrare - ove sia stato investito di tale richiesta - di aver tenuto conto, nell'assumere la relativa decisione, del primario interesse del lavoratore ad evitare la perdita del posto di lavoro per scadenza del periodo di comporto (Cass. 19 novembre 1998, n. 11691; Cass. 3 marzo 2009, n. 5078).

Diviene, quindi, essenziale la sussistenza della prova della richiesta di usufruire delle ferie, che la Cassazione precisa poter essere data mediante presunzioni purché con analitica individuazione dei fatti noti dai quali risalire, con deduzioni logiche, ai fatti ignoti, correlando ogni indizio (grave, preciso e concordante) alla questione da accertare, senza ricorrere ad affermazioni apodittiche, generiche, sommarie o cumulative (Cass. 20 novembre 2011, n. 25502; Cass. 14 dicembre 2012, n. 23096).

Alla luce di tali precisazioni la Suprema Corte reputa del tutto insoddisfacente l'iter seguito dal giudice del merito nella fattispecie in esame, essendosi fatto ricorso al sistema presuntivo senza, tuttavia, indicare quali elementi precisi e concordanti consentissero di ricorrere alla presunzione dell'avvenuta richiesta di ferie.

La sentenza viene, pertanto, cassata con rinvio per il riesame della questione dell'avvenuta richiesta di ferie alla luce dei principi esposti.

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