Contenzioso

Amianto: rivalutazione contributiva e prova dell'esposizione

di Silvano Imbriaci

La Sezione Lavoro della Cassazione, con sentenza 1° ottobre 2014 n. 20734, interviene nuovamente in materia di benefici contributivi per esposizione all'amianto ex art. 13, co. 8 della legge n. 257/1992 ed in particolare sulle modalità con cui provare i requisiti per l'accesso a tali benefici. L'art. 13, norma nata con lo scopo di giungere ad una definitiva dismissione dell'amianto nei luoghi di lavoro, in origine prevedeva la rivalutazione contributiva dei periodi di lavoro soggetti all'assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall'esposizione all'amianto quando avessero superato il decennio, con moltiplicazione per un coefficiente di 1,5. Successivamente la disciplina è stata modificata incisivamente dall'art. 47 del d.l. n. 269/2003 (convertito, con modificazioni, in L. n. 326/2003), che ha disposto, tra le altre cose, la riduzione del coefficiente dall'1,5 all'1,25 e la sua applicazione ai soli fini della determinazione delle prestazioni pensionistiche, e non già della maturazione del diritto alle medesime. Con le stessa norma è stato poi individuato un limite soglia: periodo non inferiore a 10 anni di esposizione all' amianto in concentrazione media annuale non inferiore a 100 fibre/litro come valore medio su otto ore al giorno. La questione affrontata dalla Cassazione riguarda le modalità con cui valutare le conclusioni del CTU in ordine alle probabilità di esposizione all'amianto. Per integrare il requisito di legge, non è infatti sufficiente la dimostrazione dello svolgimento di attività lavorativa ultradecennale in un luogo di lavoro in cui sia presente l'amianto, essendo invece necessario stabilire l'esposizione per oltre un decennio del lavoratore al rischio di ammalarsi per inalazione per oltre un decennio di fibre di amianto presenti in concentrazione superiore rispetto al limite soglia (accertamento del rischio effettivo, ovvero di una esposizione qualificata). Del resto la giurisprudenza ha da sempre ritenuto indispensabile in questa materia l'accertamento tecnico d'ufficio (cfr. ad es. Cass. n. 27251/2006), non essendo sufficiente il rimando agli atti di indirizzo ministeriali che avevano individuato varie realtà produttive (spesso di grandi dimensioni) nelle quali era normale l'uso dell'amianto. Dal momento che la verifica sperimentale di questo elemento è attività assai delicata, anche per il riferimento ad uno stato di luoghi non attuale e risalente ad un periodo ormai trascorso da tempo, la giurisprudenza ha da sempre ritenuto che l'esposizione qualificata deve essere valutata in termini di ragionevole certezza: il che equivale ad evidenziare non una mera possibilità, quanto, almeno, un elevato grado di probabilità, per ogni anno utile ai fini del raggiungimento del requisito minimo. Ecco che, dunque, l'esame dell'elaborato peritale assume primaria importanza nella valutazione dell'esposizione: la Cassazione avverte che non è possibile per il Giudice motivare semplicemente con l'adesione alle conclusioni cui giunge il CTU, quando queste conclusioni si limitino a rilevare un grado intermedio (solitamente descritto con gli attributi di “significativo”, “apprezzabile” o “discreto”) e non un elevato grado di probabilità di esposizione qualificata. In altre parole, il Giudice, di fronte ad un accertamento in termini di probabilità che non raggiunga (per ragioni tecniche esposte) un grado abbastanza elevato tale da poter ritenere quasi certa l'esposizione, se ritiene che nel caso di specie siano integrati i requisiti di esposizione, dovrà specificamente motivare indicando per quali ragioni un giudizio di probabilità non elevato possa essere ricavato da una esposizione qualificata solo significativamente probabile. La valutazione dell'effettiva esposizione deve dunque essere condotta alla stregua di criteri rigorosi, che tendenzialmente non possono lasciare dubbi in ordine, quanto meno, ad una elevata probabilità.

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