Contenzioso

Modifica la lettera di assunzione, licenziato

di Giuseppe Bulgarini d'Elci

Può essere licenziato il responsabile del personale che modifica una lettera di assunzione senza essere autorizzato. La Suprema corte, con sentenza 21079 del 7 ottobre conferma la tesi della Corte di appello di Roma la quale, in riforma della decisione resa dal giudice di primo grado, aveva concluso per la piena validità di un licenziamento per giusta causa irrogato nei confronti del responsabile della gestione del personale il quale, come era emerso nel corso del processo a seguito delle acquisizioni probatorie raccolte, aveva intenzionalmente alterato la lettera di assunzione di un lavoratore, già sottoscritta dal legale rappresentante della società, sopprimendo la clausola recante il patto di prova, eliminando - nell'ambito delle mansioni formalmente assegnate al dipendente - la parola “programmatore” aggiunta a quella di “analista” e, infine cancellando la specificazione del progetto di lavoro per il quale era prevista l'assunzione.

Allineandosi al consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, la Suprema corte ribadisce che, ai fini della configurabilità di una giusta causa di licenziamento, occorre valutare, tra l'altro, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore in relazione alla loro portata oggettiva e soggettiva. Coerentemente a tale principio, si è ritenuto che la gravità dei fatti contestati fosse emersa sia sul piano oggettivo, posto che la materiale condotta di alterazione aveva interessato elementi fondamentali di un instaurando rapporto di lavoro, sia sul piano soggettivo, essendo stata commessa da una risorsa aziendale, il responsabile della gestione del personale, che è funzionalmente preposto all'esercizio di funzioni rilevanti per l'esercizio dell'impresa. Ad aggravare il quadro concorreva, inoltre, secondo le valutazioni espresse nella sentenza 21079, la circostanza che il responsabile della gestione del personale che aveva effettuato l'alterazione del contratto di lavoro era stato recentemente inserito nella compagine aziendale, derivandone un ulteriore elemento di grave compromissione del vincolo fiduciario alla base del rapporto di lavoro.

Nel caso di lavoratore preposto all'esercizio di funzioni apicali, essendo maggiore la fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre nella risorsa in virtù dell'elevatezza del ruolo ricoperto, tanto maggiori saranno gli eventi idonei a scuotere, sul piano soggettivo, quella fiducia. A tale proposito, la Suprema corte ribadisce il principio secondo cui, nel giudicare se la violazione disciplinare addebitata al lavoratore abbia compromesso la fiducia necessaria ai fini della permanenza del rapporto di lavoro, e quindi costituisca giusta causa di licenziamento, va tenuto presente che è diversa l'intensità della fiducia richiesta, a seconda della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell'oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono.

La Corte di cassazione precisa, dopo aver ribadito che correttamente la Corte d'appello aveva ritenuto provati i fatti disciplinarmente inadempienti ascritti al dipendente licenziato, che la prova contraria di un'eventuale causa di giustificazione, idonea eventualmente a elidere, su un piano soggettivo e oggettivo, il disvalore disciplinare del fatto contestato, grava sul lavoratore. A tale riguardo, mentre il dipendente aveva tentato di argomentare che fosse onere della società dimostrare l'assenza di un'autorizzazione a monte della sua condotta, la Cassazione, in applicazione del predetto principio, rovescia la prospettiva, sostenendo che tale circostanza doveva tutt'al più essere oggetto di prova da parte del lavoratore, rimasta nel caso di specie inadempiuta.

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