Contenzioso

È dirigente solo chi ha autonomia

di Stefania Radoccia e Matteo Tamborini

Secondo la Corte di cassazione, nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell'inquadramento di un lavoratore subordinato il giudice deve: accertare in concreto le attività lavorative svolte; individuare le qualifiche e i gradi previsti dal contratto collettivo di categoria; raffrontare il risultato della prima indagine e i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda.

In tal senso si è espressa la Suprema corte con la sentenza 20949, depositata il 3 ottobre scorso, rigettando il ricorso presentato da un lavoratore intenzionato a vedersi riconosciuta la categoria (superiore) di dirigente e le relative differenze retributive.

I giudici di legittimità hanno ritenuto corretta la decisione della Corte d'appello di Perugia che, riformando la sentenza di primo grado, aveva rilevato come la responsabilità del coordinamento e della gestione di settori fondamentali dell'impresa non sia, di per sé considerata, indizio dirimente nel percorso di indagine che il giudice di merito è chiamato a compiere per accertare la categoria superiore.

Secondo la Corte di appello, per l'attribuzione della categoria dirigenziale il lavoratore deve provare l'avvenuto riconoscimento nei suoi confronti di una vasta area di libertà entro la quale può assumere in prima persona decisioni capaci di indirizzare e influire sull'andamento dell'attività, rispondendo solo ed esclusivamente alle direttive generali dell'imprenditore. Al contrario, il ricorrente avrebbe sempre operato seguendo le direttive costantemente impartite dall'amministratore unico, le quali si rivelavano talmente invasive da permeare e da orientare l'attività dell'azienda in ogni suo settore.

Neppure l'esistenza di una sentenza di condanna a carico del ricorrente, nella quale lo stesso era stato riconosciuto, in virtù dei poteri di direzione in ambito tecnico affidatigli, responsabile penalmente per un infortunio sul lavoro, può costituire, nel silenzio della contrattazione collettiva, valido indice di quel grado di autonomia, discrezionalità e ampiezza di poteri indicato come essenziale ai fini del riconoscimento della categoria dirigenziale.

Ciò che rileva, secondo la Suprema corte, è unicamente il raffronto tra l'attività svolta in concreto dal dipendente e i criteri distintivi in tema di mansioni e qualifiche previsti dalla contrattazione collettiva. Quando tale raffronto compiuto da parte dei giudici di merito sia immune da vizi logico-giuridici, l'accertamento della natura delle mansioni concretamente svolte dal dipendente, ai fini dell'inquadramento del medesimo in una determinata categoria di lavoratori, è insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da logica e adeguata motivazione.

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