Contenzioso

Rassegna della Cassazione 6 agosto - 19 settembre 2014

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Nozione di mobbing

Principio di ultrattività per i contratti collettivi di diritto comune

Rapporto tra giudizio civile e giudizio penale

Trasferimento d'azienda: requisiti

Qualificazione del rapporto del direttore di una fondazione

Nozione di mobbing

Cass., sez. lav., 6 agosto 2014, n. 17698

Pres. Lamorgese; Rel. Tria; P.M. Servello; Ric. F.D.L. Spa; Controric. R.C.

Lavoro subordinato - Tutela delle condizioni di lavoro - Danno psichico subito dal lavoratore - Cattivo esercizio del potere direttivo - Responsabilità del datore di lavoro - Sussistenza Cattivo esercizio del potere direttivo - Qualificazione come mobbing - Insussistenza

Costituisce cattivo esercizio del potere direttivo, con conseguente diritto del lavoratore al risarcimento del danno, il comportamento del datore di lavoro consistente in una serie di comportamenti che, seppur "formalmente leciti " se considerati singolarmente, inseriti in un contesto più ampio siano ritenuti parte integrante di una generale condotta vessatoria, posta in essere senza il doveroso rispetto della dignità e della integrità psico-fisica del lavoratore ed in contrasto con il canone generale della correttezza e buona fede.

Il concetto di "cattivo esercizio del potere direttivo " va tenuto distinto da quello di "mobbing", che consiste in un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.

Nota - Con la sentenza in commento la Corte di cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dalla società con cui era stata impugnata la sentenza della Corte d'appello di Brescia.

Con la sentenza impugnata la Corte d'appello aveva condannato la società al risarcimento del danno psichico subito dalla lavoratrice, accertato da Ctu disposta in corso di causa.

Nello specifico, come rilevava la Corte, i comportamenti posti in essere dalla società erano consistiti nell'adibire la dipendente - che era stata sottoposta ad un intervento chirurgico che aveva richiesto un lungo periodo di convalescenza con conseguente assenza dal lavoro - a mansioni diverse da quelle svolte prima del periodo di malattia, con un orario a tempo pieno spezzato, quindi più gravoso rispetto a quello a tempo pieno che osservava precedentemente. Inoltre, era risultato un particolare accanimento nei confronti della stessa, risultante anche dalle frequenti espressioni ingiuriose rivoltele in modo aggressivo dai suoi superiori.

Questa complessiva situazione aveva determinato da un lato un progressivo aggravamento della sintomatologia della lavoratrice, e contemporaneamente, l'insorgenza di una sindrome ansioso-depressiva reattiva, che aveva richiesto cure neuro-psichiatriche, sicché, essendo stata costretta a prolungate assenze per tale stato di salute, la lavoratrice era stata licenziata per superamento del periodo di comporto.

Ebbene, a detta della Corte d'appello, la società aveva posto in essere una serie di comportamenti che seppur "formalmente leciti" se considerati singolarmente, inseriti nel contesto più ampio dei fatti accertati erano stati ritenuti parte integrante di una generale condotta vessatoria, cui andava attribuito un ruolo quanto meno concausale del danno psichico lamentato dalla lavoratrice.

Ed infatti, la Ctu disposta in corso di causa, che aveva precisato che la patologia da cui risultava affetta la lavoratrice era "un disturbo di adattamento con tono dell'umore depresso", aveva ritenuto sufficienti, ad affermare il suddetto nesso causale, i fatti che erano emersi nel corso dell'istruttoria, che portavano a concludere che le scelte della società erano state in sostanza operate nell'esercizio di un potere direttivo datoriale svolto senza il doveroso rispetto della dignità e della integrità psicofisica della lavoratrice ed anche in contrasto con il canone generale della correttezza e buona fede, visto che la modifica dell'orario assegnato alla ricorrente non aveva una reale giustificazione in ragioni organizzative aziendali e che, d'altra parte, non vi era alcuna valida ragione che potesse giustificare che, al ritorno dalla malattia, venisse assegnata alla lavoratrice una mansione lavorativa prima inesistente e più gravosa.

Ebbene, la Corte di cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso presentato dalla società, affermando che il motivo di ricorso si riferisce al mobbing, mentre nella sentenza d'appello la condotta datoriale non viene qualificata come mobbing, ma come cattivo esercizio del potere direttivo, e i due concetti non sono sovrapponibili, ma vanno distinti.

E' noto, infatti, che il mobbing, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale e recepito dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, designa "un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo" (cfr. Cass. 5 novembre 2012, n. 18927).

Nella specie, invece, la Corte territoriale aveva ritenuto la patologia da cui era risultata la lavoratrice - qualificata dal Ctu come "disturbo di adattamento con tono dell'umore depresso" vissuta e caratterizzata da cronicità e irreversibilità - come derivante da scelte operate nell'esercizio del potere direttivo datoriale svolto senza il doveroso rispetto della dignità e della integrità psicofisica della lavoratrice. Sulla base di tali principi la Corte di cassazione ha quindi ritenuto inammissibile il ricorso della società.




Principio di ultrattività per i contratti collettivi di diritto comune

Cass., sez. lav., 14 agosto 2014, n. 18012

Pres. Macioce; Rel. Bronzini; P.M. Celeste; Ric. S.C.; Controric. P.I. Spa

Contratto collettivo di diritto comune - Scadenza - Ultrattività – Inapplicabilità

I contratti collettivi di diritto comune, costituendo manifestazione dell'autonomia negoziale degli stipulanti, operano esclusivamente entro l'ambito temporale concordato dalle parti, atteso che l'opposto principio di ultrattività sino ad un nuovo regolamento collettivo, secondo la disposizione dell'art. 2074 c.c., ponendosi come limite alla libera volontà delle organizzazioni sindacali, sarebbe in contrasto con la garanzia prevista dall'art. 39 Cost.

Nota - La Corte di appello di Roma confermava la sentenza del Tribunale del lavoro di Latina che aveva rigettato la domanda della sig.ra S., diretta ad ottenere il riconoscimento del superiore inquadramento nell'area quadri, per aver svolto le corrispondenti mansioni, ininterrottamente, dal 24 maggio 1999 sino al 13 novembre 1999 e, quindi, per un periodo superiore a tre mesi, ex art. 2103 c.c.

In particolare, sosteneva la Corte territoriale che, in virtù dell'interpretazione sistematica dell'art. 38 e dell'art. 87 del Ccnl del 1994, doveva ritenersi che il Ccnl del 1994 - la cui scadenza era fissata per il 31.12.1997 - fosse stato prorogato sino alla stipula del successivo Ccnl (avvenuta il 21.1.2001) per quanto riguarda la parte normativa riguardante il rapporto di lavoro del personale. Pertanto, doveva ritenersi prorogata anche la norma di cui all'art. 38 del su citato Ccnl, che disciplinava il periodo minimo necessario di svolgimento di mansioni superiori occorrente per acquisire il superiore inquadramento come quadro (pari a sei mesi e non invece a soli tre mesi, come previsto dall'art. 2103 c.c.).

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la sig.ra S. assistito da due motivi.

La ricorrente, per un verso, eccepiva l'inapplicabilità del principio di ultrattività ai contratti collettivi di diritto comune;

per altro verso, denunciava che l'interpretazione della normativa contrattuale resa dalla Corte territoriale fosse in contrasto con l'art. 87 del Ccnl del 24 novembre 1994, ai sensi del quale era previsto che il predetto Ccnl sarebbe rimasto in vigore sino al 31.12.1997 e che, da questa data, il rapporto di lavoro del personale sarebbe stato disciplinato dalle normali disposizioni di diritto privato.

Secondo la ricorrente, dunque, nel periodo di "vacanza contrattuale" l'art. 38 del Ccnl, che prevedeva un periodo almeno semestrale di svolgimento delle mansioni di quadro per conseguire il diritto all'inquadramento, non era operante e, pertanto, doveva ritenersi applicabile l'art. 2103 c.c. ed il termine trimestrale ivi previsto.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso.

Innanzitutto la Cassazione, uniformandosi al consolidato orientamento già espresso dalla medesima Corte in relazione ad analoghe fattispecie, ha rilevato che "i contratti collettivi di diritto comune, costituendo manifestazione dell'autonomia negoziale degli stipulanti, operano esclusivamente entro l'ambito temporale concordato dalle parti, atteso che l'opposto principio di ultrattività sino ad un nuovo regolamento collettivo, secondo la disposizione dell'art. 2074 c.c., ponendosi come limite alla libera volontà delle organizzazioni sindacali, sarebbe in contrasto con la garanzia prevista dall'art. 39 Cost." (nello stesso senso cfr. Cass. 10 settembre 2013, n. 20726; Cass. 9 maggio 2008, n. 11602; Cass., sez. unite, 30 maggio 2005, n. 11325). Pertanto, facendo applicazione di tali principi al caso di specie, la Suprema Corte ha escluso l'applicabilità del Ccnl del 1994 in relazione al periodo successivo alla sua scadenza e sino alla stipula del successivo.

Ciò in quanto nel predetto Ccnl non era prevista alcuna clausola che consentisse l'ultrattività dello stesso oltre la sua data di scadenza; anzi il Ccnl del 1994, come si è detto, conteneva una espressa previsione all'art. 87 in virtù della quale era previsto che lo stesso sarebbe rimasto in vigore sino al 31.12.1997 e che, a partire da tale data, il rapporto di lavoro del personale sarebbe stato disciplinato dalle normali disposizioni di diritto privato.




Rapporto tra giudizio civile e giudizio penale

Cass., sez. lav., 19 settembre 2014, n. 19772

Pres. Stile; Rel. Tricomi; P.M. Fresa; Ric. A.F.; Controric. Inps

Licenziamento disciplinare - Accertamento dei fatti contestati - Rapporto tra giudizio civile e giudizio penale - Sentenza penale di proscioglimento per prescrizione del reato - Valutazione degli elementi probatori emersi nel giudizio penale - Rilevanza nel giudizio civile - Si configura

La responsabilità disciplinare del lavoratore può essere accertata dal giudice civile sulla base degli elementi di prova acquisiti in sede penale a carico del lavoratore, anche qualora il procedimento penale si sia concluso con una sentenza di proscioglimento per prescrizione del reato.

Nota - Con la sentenza in commento la Corte di cassazione conferma la decisione del giudice del merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento in tronco intimato ad una lavoratrice resasi responsabile di aver autorizzato, per conto dell'istituto per il quale lavorava, la disposizione di quattro pagamenti in favore del marito, senza che ne ricorressero i presupposti di legge; per tale condotta la lavoratrice era stata sottoposta ad un procedimento penale, che, tuttavia, si era concluso con una sentenza di proscioglimento per prescrizione del reato.

Nel giudizio di merito in sede civile, avente ad oggetto la legittimità del predetto licenziamento, era stata ritenuta sussistente la responsabilità disciplinare della lavoratrice per i fatti commessi, sopra richiamati, sulla base degli elementi di prova acquisiti in sede penale; in proposito, il giudice del merito aveva affermato che, se è pur vero che le sentenze di proscioglimento e di non doversi procedere per prescrizione del reato non hanno efficacia extrapenale, tuttavia, è consentito al giudice civile di tenere conto di tutti gli elementi di prova acquisiti in sede penale, rivalutandoli internamente e autonomamente in rapporto all'intera situazione sottoposta al suo esame.

La Suprema Corte adita dalla lavoratrice ribadisce in primo luogo il principio secondo cui nel giudizio civile avente ad oggetto la sussistenza di una responsabilità disciplinare del lavoratore le sentenze penali irrevocabili di assoluzione e di condanna assumono efficacia di giudicato, rispettivamente quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l'imputato non lo ha commesso e quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso; sempre ai fini del procedimento disciplinare alla sentenza di condanna va equiparata la sentenza applicativa della pena patteggiata.

Al contrario, nessun valore peculiare è attribuito ai fini della responsabilità disciplinare alla sentenza penale che stabilisce di non doversi procedere a causa dell'estinzione del reato per intervenuta prescrizione.

Tuttavia, secondo la Corte di cassazione, il giudice civile, in presenza di una sentenza penale di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato, pur priva di effetti vincolanti, può trarre elementi di convincimento dalle risultanze del procedimento penale, ponendo a base delle proprie conclusioni gli elementi di fatto già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede, ricavandoli direttamente dalla sentenza penale e sottoponendoli al proprio vaglio critico, mediante il confronto con gli elementi probatori emersi nel giudizio civile (cfr. nello stesso senso Cass. n. 22200/2010).

Inoltre, sempre secondo la Suprema Corte, il giudice che fondi il proprio convincimento sulle risultanze di una sentenza penale non è tenuto a disporre la previa acquisizione degli atti del processo penale e ad esaminarne il contenuto, qualora, per la formazione di un razionale convincimento, ritenga sufficienti le risultanze della sola sentenza.

In ragione di quanto precede, la Corte di cassazione conclude affermando il principio secondo cui, pur nell'autonomia tra giudizio civile e giudizio penale, il giudice civile può decidere se sussiste o meno la responsabilità disciplinare del lavoratore formando il proprio convincimento sulla base delle risultanze del giudizio penale, anche qualora il procedimento penale si sia concluso con una sentenza di proscioglimento per prescrizione del reato.




Trasferimento d'azienda: requisiti

Cass., sez. lav., 12 agosto 2014, n. 17901

Pres. Roselli; Rel. Napoletano; P.M. Celeste; Ric.D.C. + altri; Controric. C.E. Spa

Trasferimento d'azienda - Ramo aziendale - Requisiti - Preesistenza alla cessione - Necessità - Compatibilità con disciplina comunitaria

Anche a seguito del D.Lgs. n. 276/2003, art. 32 opera il principio per cui per "ramo d'azienda", ai sensi dell'art. 2112 c.c., deve intendersi ogni entità economica organizzata la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità - come del resto previsto dalla prima parte del D.Lgs. n. 276/ 2003, art. 32 - presupponendo ciò comunque una preesistente entità produttiva funzionalmente autonoma (potendo conservarsi solo qualcosa che già esiste), e non anche una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento o come tale unicamente identificata dalle parti del negozio traslativo, essendo preclusa l'esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell'imprenditore e non dall'inerenza del rapporto ad una entità economica dotata di autonoma ed obiettiva funzionalità.

Nota - Con la sentenza in commento la Suprema Corte torna a pronunciarsi su una delle questioni più dibattute in tema di trasferimento di ramo d'azienda, ovvero la necessità che il ramo preesista al momento della cessione. La pronuncia è particolarmente interessante in quanto la Cassazione ha ribadito l'imprescindibilità di tale requisito anche a valle delle affermazioni rese dalla Corte di giustizia Ue nella sentenza n. C-458/ 12.

Nel caso specifico la Corte d'appello di Napoli ha confermato la decisione di rigetto dell'impugnativa del trasferimento di ramo, sul presupposto che la cessione aveva avuto ad oggetto un entità funzionalmente autonoma e che si rientrava nel campo di applicazione dell'art. 2112 c.c così come novellato dal D.Lgs. n. 276/2003, pertanto, diversamente dal passato, non era più richiesto il requisito della preesistenza del ramo ceduto.

Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione articolato su due motivi censurando, in particolare, la statuizione laddove si è ritenuto che la riforma attuata dal D.Lgs. n. 276/2003 abbia eliminato la necessità che il ramo preesista al tempo della cessione.

La Suprema Corte ha accolto tale motivo, affermando il principio di cui alla massima, già espresso in numerosi precedenti, anche molto recenti (Cass. 15 aprile 2014, n. 8757; Cass. 27 maggio 2014, n. 11832; Cass. 3 ottobre 2013, n. 22627; Cass. 4 dicembre 2012, n. 21711; nello stesso senso Cass. 8 giugno 2009, n. 13171; Cass. 9 ottobre 2009, n. 21481).

La Corte sottolinea che ammettere la possibilità di unificare beni e lavoratori al momento del trasferimento contrasterebbe con le direttive comunitarie n. 1998/50 e n. 2001/23, che richiedono un assetto già formato al tempo della cessione, precisando che la recente sentenza emessa dalla Corte di giustizia il 6 marzo 2014 nella causa n. C-458/ 12 non contrasta con i principi affermati.

Come ricorda la Cassazione, in tale decisione la Corte europea ha ritenuto che la disciplina comunitaria "non osta ad una normativa nazionale, come quella italiana, la quale, in presenza di un trasferimento di una parte di impresa, consenta la successione del cessionario al cedente nei rapporti di lavoro nell'ipotesi in cui la parte di impresa in questione non costituisca un'entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento". A parere della Suprema Corte, tuttavia, nell'affermare tale principio, la Corte Ue ha anche chiarito che il trasferimento di impresa in senso comunitario implica la preesistenza dell'entità economica da alienare, pertanto, così interpretata, risulta confermata anche a livello comunitario la necessità del requisito della preesistenza del ramo funzionalmente autonomo oggetto di cessione.

Alla stregua di tali principi la sentenza di appello viene cassata con rinvio.




Qualificazione del rapporto del direttore di una fondazione

Cass., sez. lav., 1° settembre 2014, n. 18476

Pres. Miani Canevari; Rel. Ghinoy; Ric. Fondazione S.E.D.I.C.S.P.; Controric. C.P.

Autonomia e subordinazione - Qualificazione del rapporto di lavoro di direttore di fondazione - Accertamento della natura subordinata con qualifica dirigenziale - Configurabilità - Sussistenza - Requisiti

L'essere organo di una persona giuridica di per sé non osta alla possibilità di configurare tra la persona giuridica stessa ed il suddetto organo un rapporto di lavoro subordinato, quando di tale rapporto sussistano le caratteristiche dell'assoggettamento, nonostante la suddetta carica sociale, al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell'organo di amministrazione dell'ente.

Nota - La Corte d'appello di Torino, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava la sussistenza, fra l'appellante e una fondazione di cui aveva ricoperto la carica di direttore, di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato di natura dirigenziale in ragione dello svolgimento della carica organica.

La Corte territoriale, premesso che lo svolgimento di un ruolo sociale non è in sé incompatibile con la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato fra colui che ha rivestito cariche sociali di una persona giuridica e l'ente stesso, prendeva atto che, a norma dello statuto della fondazione, "il direttore è nominato dal Consiglio direttivo, su proposta del presidente, con incarico professionale quadriennale rinnovabile e revocabile, in base ai requisiti di cultura, esperienza e capacità lavorativa. Il trattamento economico e la posizione giuridica e normativa del direttore vengono stabiliti con apposita deliberazione del Consiglio direttivo. Il direttore ha la responsabilità dell'organizzazione e del funzionamento della fondazione per la scuola e sovrintende alla gestione del personale".

Ciò posto, la Corte d'appello esaminava le modalità di realizzazione della prestazione del direttore al fine di verificare se le parti avessero effettivamente voluto porre in essere un rapporto di lavoro subordinato, in contrasto con il contratto dalle stesse qualificato quale collaborazione coordinata e continuativa. La natura subordinata del contratto veniva desunta dall'assoluta centralità ed indispensabilità della funzione di direttore rispetto all'attività dell'ente; dall'inserimento pieno ed esclusivo dello stesso nella struttura gerarchica e organizzativa della fondazione; dall'esercizio del potere direttivo sul personale dipendente gestione del personale della fondazione; dalla necessità di relazionare il consiglio direttivo, quale organo amministrativo della fondazione, in ordine ai progetti e le possibili linee di sviluppo; dall'imputazione alla fondazione dei risultati e dei rischi dell'attività del lavoratore; dalla continuità ed esclusività della prestazione resa nonché dall'assenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale in capo all'appellante. Ad avviso della Corte territoriale, in aggiunta a tali elementi fattuali, era significativo che nel contratto di collaborazione coordinata e continuativa non si facesse esplicito riferimento all'autonomia organizzativa e professionale del lavoratore.

Per la cassazione di tale sentenza ricorreva la fondazione; il lavoratore resisteva con controricorso.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendo infondati entrambi i motivi con cui la fondazione lamentava omessa o insufficiente motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio, riguardanti in particolare la mancata allegazione dell'espletamento, da parte del direttore, di mansioni estranee alle funzioni inerenti alla carica organica rivestita, che potessero essere oggetto di un contratto di lavoro subordinato ulteriore e coesistente con quello (organico) derivante dallo svolgimento della carica di direttore.

La Corte di cassazione ha affermato che nell'individuare un rapporto di lavoro subordinato fra colui che ha rivestito cariche sociali di una società di capitali e la società stessa, è necessario che il ricorrente fornisca la prova della sussistenza del vincolo di subordinazione e cioè dell'assoggettamento al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell'organo di amministrazione della società nel suo complesso, nonostante le suddette cariche sociali. Ad avviso della Suprema Corte, infatti, l'unica situazione che preclude il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato per lo svolgimento di una carica sociale è quella dell'amministratore unico di società, attesa l'incompatibilità che sussiste tra la qualità di esecutore subordinato della volontà sociale e quella di organo competente ad esprimere tale volontà.

Peraltro, sul punto, si segnala una recente pronuncia di legittimità nella quale - contrariamente alla sentenza in commento - viene esplicitamente affermato che per la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato fra colui che ha rivestito cariche sociali di una persona giuridica e l'ente stesso è necessaria, quale condicio sine qua non, l'individuazione di due distinti e coesistenti rapporti: carica sociale e posizione di lavoratore subordinato, precisando che a tal fine è imprescindibile accertare lo svolgimento in concreto di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita, così da configurare due prestazioni ontologicamente differenti, dimostrando poi la sussistenza di un vincolo di eterodirezione nello svolgimento della prestazione diversa ed ulteriore rispetto alle funzioni proprie della carica sociale ricoperta.

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