Contenzioso

Rassegna della Cassazione 5 - 30 settembre 2014

di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Trasferimento del lavoratore e unità produttiva

Rapporto tra contrattazione collettiva nazionale e aziendale

Consorzio di cooperative e contratto di appalto

Nozione di infortunio sul lavoro

Giusta causa di licenziamento

Trasferimento del lavoratore e unità produttiva

Cass., sez. lav., 30 settembre 2014, n. 20600

Pres. Stile; Rel. Tria; P.M. Celeste; Ric. G.B. e G.D.; Res. H.C. Srl

Lavoro subordinato - Trasferimento del lavoratore - Campo di applicazione - Nozione di unità produttiva - Requisiti

Poiché la finalità principale della norma di cui all'art. 2103 c.c. in tema di trasferimento del lavoratore è quella di tutelare la dignità del lavoratore e di proteggere l'insieme di relazioni interpersonali che lo legano ad un determinato complesso produttivo, tale norma deve trovare applicazione anche quando lo spostamento da una unità produttiva ad un'altra avvenga in un ambito geografico ristretto (ad esempio nello stesso territorio comunale) e non imponga il mutamento della residenza del lavoratore.

Ai fini del trasferimento, per unità produttiva deve intendersi l'entità aziendale che si caratterizzi per condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica e amministrativa tali che in essa si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essenziale dell'attività produttiva aziendale.

Ne consegue che deve escludersi la configurabilità di un'unità produttiva in relazione alle articolazioni aziendali che, sebbene dotate di una certa autonomia amministrativa, siano destinate a scopi interamente strumentali o a funzioni ausiliarie sia rispetto ai generali fini dell'impresa, sia rispetto ad una frazione dell'attività produttiva della stessa.

Nota - Il Tribunale di Napoli accoglieva le domande dei lavoratori dichiarando l'illegittimità dei licenziamenti per violazione dei doveri di buona fede e correttezza da parte del relativo datore di lavoro.

I ricorrenti avevano dedotto di aver lavorato presso un punto vendita di una catena di supermercati e di essere stati preordinatemente trasferiti, in assenza dei necessari presupposti, al reparto macelleria di un altro punto vendita, presso il quale erano poi stati licenziati per soppressione del reparto.

La Corte d'Appello di Napoli, in totale riforma della sentenza di primo grado, rigettava le domande dei lavoratori ritenendo che, nella specie, non potesse configurarsi alcun trasferimento, dovendosi escludere che i punti vendita di una stessa catena di supermercati, peraltro ubicati nel medesimo comune, potessero costituire distinte unità produttive.

Del resto, i lavoratori neppure avevano provato che i singoli supermercati costituissero unità produttive separate; né avevano fornito prova dell'intenzione della società di dar luogo ai trasferimenti quali meri espedienti per giustificare i licenziamenti.

Al contrario, risultava provata la genuinità delle ragioni tecniche e produttive poste alla base dei recessi datoriali, essendo stata effettivamente disposta la soppressione del reparto macelleria al quale i due lavoratori erano addetti.

Avverso tale sentenza ricorrevano in cassazione entrambi i lavoratori; resisteva con controricorso il datore di lavoro.

La Suprema Corte ha ritenuto fondati i primi due motivi di ricorso con i quali i ricorrenti lamentavano violazione e falsa applicazione dell'art. 2103 c.c. per aver la Corte d'Appello escluso che i singoli supermercati potessero configurare distinte unità produttive, con la conseguente disapplicazione della disciplina del trasferimento dei dipendenti prevista dalla norma sopra richiamata.

Il giudice di secondo grado non ha correttamente applicato i consolidati orientamenti di legittimità (già espressi da Cass. n. 6117/2005; n. 11103/2006; n. 11660/2003 e n. 22695/2011), secondo cui per unità produttiva deve intendersi l'entità aziendale che si caratterizzi per condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica e amministrativa, tali che in essa si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essenziale dell'attività produttiva aziendale.

Dovendo, al contrario, escludersi la configurabilità di un'unità produttiva in relazione alle articolazioni aziendali che, sebbene dotate di una certa autonomia amministrativa, siano destinate a scopi interamente strumentali o a funzioni ausiliarie rispetto ai generali fini dell'impresa o ad una frazione dell'attività produttiva della stessa.

Inoltre, nel negare che i singoli supermercati costituissero separate unità produttive, la Corte territoriale non ha tenuto conto della normativa, sia nazionale sia comunitaria, in materia di distribuzione e vendita di prodotti alimentari che, per la grande distribuzione, è basata principalmente sul riferimento ai singoli punti vendita considerati come autonome strutture aziendali.

L'accoglimento dei primi due motivi del ricorso ha comportato l'assorbimento dei rimanenti motivi relativi all'illegittimità del recesso.

Di conseguenza, la Corte ha cassato la decisione di secondo grado con rinvio alla Corte d'Appello di Napoli, in diversa composizione, per l'ulteriore esame del merito alla luce dei principî sopra affermati.




Rapporto tra contrattazione collettiva nazionale e aziendale

Cass., sez. lav., 15 settembre 2014, n. 19396

Pres. Roselli; Rel. Maisano; P.M. Servello; Ric. L.Q.; Controric. S. Spa

Lavoro subordinato - Rapporto tra contrattazione collettiva nazionale e aziendale - Contratto aziendale - Derogabilità "in pejus" del Contratto nazionale - Sussistenza

Il concorso tra i diversi livelli contrattuali va risolto non secondo i principi della gerarchia e della specialità propria delle fonti legislative, bensì accertando quale sia l'effettiva volontà delle parti, da desumersi attraverso il coordinamento delle varie disposizioni della contrattazione collettiva, nazionale e aziendale, aventi tutti pari dignità e forza vincolante, sicché anche i contratti aziendali possono derogare in pejus i contratti nazionali, con la sola salvaguardia dei diritti già definitivamente acquisiti nel patrimonio dei lavoratori.

Nota - Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d'Appello di Lecce, che a sua volta aveva confermato la sentenza del Tribunale di Brindisi, con cui era stata rigettata la domanda del lavoratore volta ad ottenere la condanna del datore di lavoro alla corresponsione dell'indennità di trasferta prevista dal Contratto collettivo nazionale di categoria.

La Corte territoriale aveva motivato la sua pronuncia di rigetto considerando che la previsione del Ccnl di categoria invocato era stata derogata da un accordo sindacale inteso a salvaguardare il livello di occupazione, che escludeva il diritto dei lavoratori a percepire l'indennità in questione per la trasferta lavorativa da Brindisi a Lecce per un determinato periodo. Ebbene, a detta della Corte, tale accordo era pienamente valido ed efficace, nonostante contenesse previsioni peggiorative rispetto al Ccnl.

Con due motivi di ricorso il lavoratore ha dedotto che la Corte d'Appello non avrebbe tenuto conto dell'inapplicabilità degli accordi sindacali ai lavoratori che non vi abbiano aderito né dell'inefficacia di tali accordi, laddove deroghino a previsioni relative a diritti irrinunciabili quali quello alla retribuzione, cui va assimilata l'indennità di trasferta in questione.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha affermato innanzitutto che la concorrenza delle due discipline, nazionale e aziendale va risolta tenendo conto dei limiti di efficacia connessi alla natura dei contratti stipulati, dato che il contratto collettivo nazionale di diritto comune estende la sua efficacia nei confronti di tutti gli iscritti alle organizzazioni stipulanti, nell'ambito del territorio nazionale, e il contratto collettivo aziendale estende, invece, la sua efficacia a tutti i lavoratori che svolgono attività lavorativa nell'ambito dell'azienda, che siano o meno iscritti alle organizzazioni stipulanti. I lavoratori ai quali si applicano i contratti collettivi aziendali possono, pertanto, giovarsi anche delle clausole dei contratti collettivi nazionali se risultano iscritti alle organizzazioni sindacali che hanno stipulato i relativi contratti collettivi. Con riguardo al concorso tra i diversi livelli contrattuali, la Corte ha poi precisato che detto concorso va risolto non secondo i principi della gerarchia e della specialità propri delle fonte legislative, bensì accertando quale sia l'effettiva volontà delle parti, da desumersi attraverso il coordinamento delle varie disposizioni della contrattazione collettiva, aventi tutti pari dignità e forza vincolante, sicché anche i contratti aziendali possono derogare in pejus i contratti nazionali, con la sola salvaguardia dei diritti già definitivamente acquisiti nel patrimonio dei lavoratori, che non possono pertanto ricevere un trattamento deteriore in ragione della posteriore normativa contrattuale, di eguale o di diverso livello (cfr. tra le tante, Cass. 18 settembre 2007 n. 19351).

Nel caso in esame, essendo pacificamente applicabile al lavoratore il contratto collettivo aziendale, e richiamato il principio di cui sopra, secondo cui anche i contratti aziendali possono derogare in pejus i contratti nazionali, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del lavoratore.




Consorzio di cooperative e contratto di appalto

Cass., sez. lav., 8 settembre 2014, n. 18860

Pres. Roselli; Rel. Buffa; P.M. Servello; Ric. C.S.N. - S.C. a r.l.; Controric. G. F. ed altri

Consorzio di cooperative - Contratto di appalto - Clausola sociale - Responsabilità del Consorzio per le retribuzioni dovute dalle società consorziate ai propri dipendenti - Configurabilità - Sussistenza

In materia di appalto stipulato da consorzio di cooperative, di cui all'art. 2602 c.c. e 27-bis D.Lgs. C.p.S. n. 1577/1947, ove il contratto preveda la cd. clausola sociale (in virtù della quale il Consorzio si impegna nei confronti del committente ad assicurare al personale adibito alle attività oggetto del contratto, le condizioni normative e retributive non inferiori a quelle risultanti dai contratti nazionali di lavoro applicabili), il Consorzio è responsabile, nei confronti dei dipendenti delle società consorziate, del rispetto delle condizioni normative ed economiche previste dalla contrattazione collettiva nazionale di lavoro applicabile.

Ciò in quanto la clausola sociale ha natura di clausola contrattuale a favore di terzo.

Nota - La Corte di appello di Cagliari confermava la sentenza del Tribunale di primo grado che aveva condannato il C.N.S. coop a r.l. al pagamento in favore di alcuni dipendenti delle società consorziate della somma di 28.000 euro oltre accessori, a titolo di differenze retributive.

Riteneva la Corte territoriale che la clausola contenuta nel contratto di appalto, con la quale il Consorzio si era impegnato, nei confronti del committente, ad assicurare la prestazione contrattuale attraverso le cooperative associate e si era, altresì, impegnato, ai sensi dell'art. 7 del contratto, ad assicurare al personale dipendente adibito alle attività oggetto del contratto, condizioni normative e retributive non inferiori a quelle risultanti dai contratti collettivi nazionali di lavoro applicabili (cd. clausola sociale), avesse natura di clausola contrattuale a favore di terzo.

Da ciò discendeva, secondo la Corte territoriale, che il Consorzio dovesse ritenersi responsabile del pagamento delle retribuzioni dovute dalle imprese consorziate ai propri dipendenti.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il Consorzio, sulla base di tre motivi.

In particolare, il Consorzio sosteneva che l'obbligo contemplato dall'art. 7 del contratto di appalto consisteva esclusivamente in un mero impegno di influenza, in virtù del quale il Consorzio si era impegnato soltanto a far rispettare alle proprie consorziate determinati standards del contratto di lavoro. Pertanto, tale obbligo sussisteva esclusivamente nei confronti del committente dell'appalto, e non già nei confronti dei singoli lavoratori, e non aveva ad oggetto il pagamento delle retribuzioni.

La Cassazione ha rigettato il ricorso.

La Suprema Corte ha, innanzitutto, premesso che, in linea generale, nel consorzio di cooperative, le cooperative consorziate hanno personalità giuridica ed autonomia patrimoniale, che vale a distinguere la fattispecie del consorzio di società cooperative da altre relative a consorzi diversi. Il contratto di consorzio, di cui all'art. 2602 c.c., infatti, non comporta l'assorbimento delle imprese contraenti in un organismo unitario, con creazione di un rapporto di immedesimazione organica tra il consorzio e le imprese consorziate, ma unicamente la costituzione di una organizzazione comune, per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive attività dei contraenti (in questo senso, Cass. 27 gennaio 2014, n. 1636; Cass. sez. I, 2 aprile 2010, n. 8124; Cass., sez. I, 13 giugno 2008, n. 16011; Cass. sez. III, 3 luglio 2008, n. 18235).

Tuttavia, ha osservato la Suprema Corte che, nel caso di specie, l'obbligo e la relativa responsabilità del consorzio di cooperativa, per i debiti delle consorziate verso i dipendenti, traeva origine dalla specifica clausola sociale (di cui all'art. 7), contenuta nel contratto di appalto.

Tale clausola, come si è detto, prevedeva che: "il consorzio si obbliga ad attuare nei confronti di tutto il personale dipendente adibito alle attività costituenti oggetto del presente contratto tutte le condizioni riportate all'art. 5 del capitolato speciale", tra le quali rientravano "le condizioni economiche e normative non inferiori a quelle previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro applicabili, alla data di inizio del servizio, alla categoria e nella località in cui si svolgono le dette attività".

La clausola, ha evidenziato la Cassazione, ha un contenuto specifico che, precisando l'oggetto dell'impegno assunto, vale ad obbligare giuridicamente lo stipulante, non soltanto ad un mero impegno di influenza verso le consociate al rispetto degli standards di lavoro, ma comporta anche una responsabilità diretta dello stipulante medesimo per il caso in cui le consorziate non rispettino le condizioni economiche e normative pattuite.

La Suprema Corte ha, dunque, ritenuto che tramite la clausola del contratto di appalto surriportata il Consorzio avesse assunto l'obbligo di garantire ai lavoratori dipendenti dalle cooperative consorziate il pagamento di retribuzioni conformi alla contrattazione collettiva applicabile, con la conseguenza che, qualora le consorziate (datrici di lavoro) non avessero corrisposto le retribuzioni conformi, il Consorzio avrebbe dovuto rispondere direttamente di tale obbligo.

Sulla base di tali argomentazioni la Cassazione ha rigettato il ricorso.




Nozione di infortunio sul lavoro

Cass., sez. lav., 5 settembre 2014, n. 18786

Pres. Macioce; Rel. Maisano; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. S.D. Spa; Controric. N.T.; Controric. e Ric. inc. F.I Spa

Infortunio sul lavoro - Rischio elettivo - Presupposti - Condotta volontaria ed avulsa da prestazione di lavoro - Interruzione nesso causale tra prestazione ed attività assicurata

Il rischio elettivo consiste in una condotta personalissima del lavoratore, avulsa dall'esercizio della prestazione lavorativa o ad essa riconducibile, esercitata ed intrapresa volontariamente in base a ragioni e a motivazioni del tutto personali, al di fuori dell'attività lavorativa e prescindendo da essa, idonea ad interrompere il nesso eziologico tra prestazione ed attività assicurata.

Nota - Un addetto alla portineria ha convenuto in giudizio il datore di lavoro chiedendo il risarcimento dei danni subiti a cagione di un infortunio verificatosi mentre era intento a montare una tenda parasole al locale dove ubicava.

In particolare il lavoratore deduceva di essere caduto al suolo dall'alto a causa del cedimento della scala utilizzata per l'incombente ed invocava la responsabilità del datore ex art. 2087 c.c. La società si costituiva in giudizio contestando la pretesa e chiedendo la chiamata in causa del terzo cessionario del ramo di azienda di cui era parte il rapporto di lavoro del ricorrente.

Il tribunale ha dichiarato prescritto il diritto azionato, ritenendo che l'attività che aveva determinato l'infortunio fosse estranea alle mansioni del ricorrente e, che fosse, quindi, applicabile la prescrizione quinquennale delle pretese di natura extracontrattuale.

La Corte d'Appello ha riformato la decisione, affermando che l'infortunio si era verificato nell'ambito delle attribuzioni del ricorrente e che non sussisteva, quindi, rischio elettivo. Di qui, operando la prescrizione ordinaria decennale non ancora maturatasi ed accertata la violazione della disciplina antinfortunistica in tema di scale "doppie", ha condannato entrambe le società in solido al risarcimento del danno.

Avverso tale decisione hanno proposto ricorso sia la cedente che, in via incidentale, la cessionaria.

Nel rigettare tutti i motivi di ricorso sollevati dalla ex datrice di lavoro attinenti alla sussistenza di rischio elettivo ed alle relative conseguenza in tema di prescrizione e responsabilità del datore la Corte, richiamando un suo specifico precedente (Cass. 8 giugno 2005, n. 11950), ha ribadito i contorni del rischio elettivo, ritenendolo configurabile soltanto quando l'infortunio del lavoratore derivi da suoi comportamenti volontari ed arbitrari, completamente scollegati dall'esercizio della prestazione lavorativa ed ad essa estranei.

In base a tale principio la Suprema Corte ha escluso che nella fattispecie sussistesse rischio elettivo, sul presupposto che il ricorrente, nel montare una tenda per ripararsi dal sole nel posto ove è costretto ad operare, ha svolto un'attività necessaria a rendere accessibile il proprio posto di lavoro, come tale ad esso "interna" e non già estranea.

Parimenti rigettato il ricorso incidentale proposto dalla società cessionaria, avendo la Cassazione rilevato che le rinunzie effettuate dal lavoratore nell'ambito della transazione invocata dall'azienda non ricomprendevano la responsabilità antinfortunistica ed, erano, pertanto irrilevanti nel caso concreto.




Giusta causa di licenziamento

Cass., sez. lav., 18 settembre 2014, n. 19684

Pres. Vidiri; Rel. Bandini; P.M. Matera; Ric. M.R.; Controric. A. Spa

Licenziamento - Condotta fraudolenta del lavoratore ai danni del datore di lavoro - Conseguenze - Perdita della fiducia nei confronti del lavoratore - Tenuità del danno patrimoniale subìto dal datore di lavoro - Irrilevanza - Giusta causa - Sussiste

La condotta fraudolenta posta in essere dal lavoratore ai danni del datore di lavoro, da cui sia derivato un danno patrimoniale di modesta entità in capo a quest'ultimo, è idonea, in ragione del suo carattere doloso e premeditato, a determinare la perdita della fiducia nei confronti del lavoratore sulla sua futura correttezza nell'adempimento dei obblighi contrattuali e, pertanto, configura una giusta causa di licenziamento.

Nota - Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione conferma la decisione del giudice territoriale adito che aveva respinto il ricorso della lavoratrice avverso il licenziamento per giusta causa intimatole.

In particolare, nel corso del giudizio di merito era emerso che la lavoratrice si era resa responsabile, mediante un accorgimento fraudolento, dell'acquisto presso il datore di lavoro di un capo di abbigliamento ad un prezzo inferiore rispetto a quello fissato nel relativo talloncino. Tale accorgimento fraudolento era consistito nell'avere la dipendente, approfittando delle sue mansioni di addetta al reparto abbigliamento e ai camerini di prova, scambiato intenzionalmente i talloncini segnaprezzo di due capi di abbigliamento, al fine di acquistare uno di essi con il prezzo minore, anziché al prezzo originariamente segnato. In merito a ciò la Corte territoriale adita aveva ritenuto che la sanzione del licenziamento in tronco non fosse sproporzionata, posto che, indipendentemente dalla tenuità del danno procurato al datore di lavoro, dal fatto commesso emergeva in maniera evidente la perdita di fiducia nei confronti della dipendente.

La Corte di Cassazione, confermando la decisione del Giudice di merito, ribadisce il principio secondo cui l'entità del fatto può essere ritenuta modesta (e quindi tale da non legittimare un licenziamento in tronco) non tanto con riferimento alla tenuità del danno patrimoniale, quanto piuttosto in relazione all'eventuale tenuità del fatto oggettivo sotto il profilo del valore sintomatico che lo stesso può assumere rispetto ai futuri comportamenti del lavoratore e, quindi, alla fiducia che nello stesso può nutrire il datore di lavoro (cfr. ex plurimis, Cass. n. 11806/1997 e Cass. n. 5633/2001). Secondo tale orientamento, infatti, è assistito da giusta causa il licenziamento intimato al lavoratore allorché i fatti allo stesso addebitati rivestano il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro e, specialmente, dell'elemento essenziale della fiducia, cosicché la condotta del dipendente sia idonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento.

Applicando al caso di specie il principio sopra richiamato la Suprema Corte ha affermato che proprio il dimostrato carattere fraudolento (in quanto palesemente doloso e premeditato) della condotta della lavoratrice è risultato idoneo ad incidere in maniera grave ed irreversibile sull'elemento fiduciario e, conseguentemente, a fondare validamente il recesso datoriale dal rapporto di lavoro per giusta causa, nonostante la modesta entità del danno patrimoniale subìto dal datore di lavoro e la mancanza di precedenti disciplinari in capo alla lavoratrice.

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