Contenzioso

Rassegna della Cassazione 10 - 24 ottobre 2014

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Nozione di lavoro subordinato

Trattamento di fine rapporto e mance dei croupiers

Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore di lavoro

Proroga del periodo di somministrazione

Infortunio in itinere: indennizzabilità

Nozione di lavoro subordinato

Cass., sez. lav., 24 ottobre 2014, n. 22690

Pres. Vidiri; Rel. Balestrieri; P.M. Matera; Ric. B.N.; Controric. T.E. Spa

Rapporto di lavoro subordinato - Assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro - Necessità

Requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato (che lo distingue dal rapporto di lavoro autonomo) è costituito dal vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall'emanazione di ordini specifici, oltre che dall'esercizio di un'assidua attività di vigilanza e controllo dell'esecuzione delle prestazioni lavorative.

Nota - La Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza del giudice di primo grado, dichiarava l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra il sig. B., ingegnere responsabile del servizio dell'ingegneria civile di una società di ingegneria, e la T.E. Srl, a far data dal 9 ottobre 1991, ed accertata l'illegittimità del licenziamento intimato all'appellante, ordinava la reintegrazione di quest'ultimo nel suo posto di lavoro, condannando la società al pagamento di un'indennità risarcitoria pari a 36 mensilità dell'ultima retribuzione di fatto.

Avverso tale sentenza proponeva ricorso per Cassazione la società T.E. p.a. Resisteva il sig. B..

La Suprema Corte, con sentenza n. 17549/2003, ritenendo che la Corte di merito avesse riconosciuto la subordinazione sulla base dei soli elementi cd. sussidiari del rapporto (quali il compenso fisso, l'osservanza di un orario determinato, la presenza del ricorrente nel cd. piano ferie ecc.), senza valutare in concreto l'assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, e senza attribuire alcun rilievo all'iniziale volontà delle parti (nel senso dell'autonomia), quale risultante dagli atti negoziali, cassava la sentenza impugnata e rinviava la causa, per un ulteriore esame, alla Corte di appello di L'Aquila.

Quest'ultima, riesaminata la vicenda, rigettava le domande del lavoratore.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione il sig. B., affidato ad un unico articolato motivo.

In particolare, il sig. B. lamentava che, in relazione al fatto controverso costituito dalla subordinazione, e quindi dall'assoggettamento del ricorrente alle direttive ed ai controlli della società, dalla sentenza impugnata emergeva la totale carenza di esame della prova testimoniale e della documentazione prodotta (quali ad esempio fogli di presenza del deducente, tabellone delle ferie ecc.) sia con riferimento alle manifestazioni della subordinazione dedotte dal ricorrente, sia con riferimento agli elementi cd. integrativi ed indiziari della subordinazione, anch'essi dedotti da parte ricorrente (quali ad esempio l'inserzione organica nell'organizzazione aziendale, l'orario, il pagamento dello straordinario, il pagamento delle ferie, la cadenza mensile della retribuzione, l'unicità del rapporto, l'effettuazione delle prestazioni nell'ambito della società e con utilizzazione delle sue attrezzature ecc.).

La Suprema Corte accoglieva il ricorso evidenziando che la Corte di merito non aveva minimamente esaminato, come richiesto dalla pronuncia rescindente, le risultanze di causa, essendosi limitata a svolgere generiche considerazioni sulla summa divisa tra lavoro subordinato ed autonomo, senza alcun effettivo riferimento al caso di specie, e senza nemmeno considerare la specificità dell'incarico conferito al lavoratore ed il modo della sua attuazione.

La Corte di cassazione, ribadendo il principio di diritto affermato dalla pronuncia rescindente, ha chiarito che il requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato (che lo distingue dal rapporto di lavoro autonomo) è costituito dal vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, che si estrinseca nell'emanazione di ordini specifici, oltre che nell'esercizio di un'assidua attività di vigilanza e controllo dell'esecuzione delle prestazioni lavorative.

La Suprema Corte ha rilevato, inoltre, che il potere di indicazione che il lavoratore eventualmente eserciti nei confronti di altri lavoratori, non costituisce, di per sé, una manifestazione della sua subordinazione al datore, dato che è ipotizzabile anche nell'ambito di un rapporto di lavoro autonomo.

Così come l'emanazione di "direttive circa i costi e le spese" comprova, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di appello, che il B. non era assoggettato al potere direttivo datoriale (se correttamente inteso circa il suo effettivo contenuto), ben potendo qualunque committente stabilire, di volta in volta, i "tetti" dei costi o delle spese al progettista.

Né costituisce parametro valido per determinare la natura subordinata del rapporto la continuità per un certo periodo di tempo (ottobre 1991/febbraio 1994) della prestazione lavorativa, atteso che la continuità della prestazione coordinata e prevalentemente personale riconducibile alla natura del rapporto è svincolata dall'occasione in cui si manifesta la necessità dell'incarico professionale, assumendo rilevanza la causa dell'incarico stesso (Cass., sent. n. 2120/2001).

Sulla base di tali argomentazioni la Suprema Corte, in accoglimento del ricorso, ha cassato la sentenza impugnata rinviando la causa alla Corte di appello di Firenze.




Trattamento di fine rapporto e mance dei croupiers

Cass., sez. lav., 16 ottobre 2014, n. 21928

Pres. Vidiri; Rel. Ghinoy; P.M. Matera; Ric. M.L., B.C., V.S., H.D., F.R., L.M.; Controric. C. D. L.V. in Liq. e C. D. L.V. Spa

Trattamento di fine rapporto - Nozione di retribuzione a fini fiscali e contributivi - Nozione di retribuzione imponibile ai fini del trattamento di fine rapporto - Coincidenza - Esclusione - Computabilità delle mance ai fini del trattamento di fine rapporto - Esclusione

Deve escludersi la computabilità ai fini del calcolo del Tfr di una quota forfetizzata delle mance dei "croupiers" di una casa da gioco considerato che tale emolumento non ha natura retributiva, difettando i requisiti della corrispettività rispetto alla prestazione lavorativa, dell'obbligatorietà e della determinabilità.

Nota - Un gruppo di croupiers di una casa di gioco adivano il Tribunale di Aosta al fine di ottenere la condanna del proprio datore di lavoro all'accantonamento nelle quote annuali del trattamento di fine rapporto di una somma pari al 75% delle mance lasciate dai clienti del casinò in occasione delle vincite di gioco. I ricorrenti deducevano che percepivano tali mance e che venivano assoggettate a ritenuta fiscale e contribuzione previdenziale nella misura del 75%, in base alle specifiche disposizione del Testo unico delle imposte sui redditi. Secondo i ricorrenti, l'inclusione delle mance nella base di calcolo del Tfr derivava dal carattere non occasionale dell'emolumento e dal fatto che venisse erogato in dipendenza del rapporto di lavoro.

Il Tribunale valdostano respingeva i ricorsi. L'appello proposto dai lavoratori veniva a sua volta rigettato dalla Corte d'appello di Torino. Avverso tale sentenza ricorrevano per Cassazione gli impiegati tecnici di gioco, cui resisteva il casinò.

I ricorrenti principali lamentavano violazione e falsa applicazione dell'art. 2120 c.c. nonché degli artt. 46 e 48 Tuir nella parte in cui la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare che nella nozione di retribuzione a fini fiscali (corrispondente a quella a fini previdenziali) rientrano tutte le somme corrisposte "in dipendenza del rapporto di lavoro".

La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso confermando il principio (già espresso nelle sentenze nn. 8598 del 16 luglio 1992, 11502 del 4 novembre 1995 e 1305 del 12 febbraio 1997) secondo cui deve escludersi la natura retributiva delle mance dei croupiers di una casa da gioco e quindi la loro computabilità ai fini del calcolo del Tfr.

Innanzitutto, ad avviso della Suprema Corte, non vi è necessaria coincidenza tra gli importi che costituiscono reddito da lavoro dipendente ai fini fiscali e previdenziali e la retribuzione che costituisce base di calcolo per il Tfr. In quest'ultima rientra tutto quanto il lavoratore riceva in cambio della sua prestazione di lavoro, che si ponga con tale prestazione in rapporto, non già di mera occasionalità, bensì di corrispettività. Questa infatti è la nozione di retribuzione che deve essere desunta dalla causa genetica e funzionale del contratto di lavoro.

Alle mance da gioco non può essere riconosciuta natura retributiva, in quanto provenienti da terzi estranei al rapporto lavorativo e corrisposte in ragione del gradimento che i clienti hanno tratto dalla fruizione complessiva dei servizi offerti dal casinò, fatto che ne giustifica la ripartizione in parti uguali tra dipendenti e datore di lavoro. Difettano, infine, i requisiti dell'obbligatorietà e della determinatezza, considerato che la casa da gioco, in assenza di disposizioni particolari, non è tenuta garantire l'elargizione delle mance.




Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore di lavoro

Cass., sez. lav., 14 ottobre 2014, n. 21647

Pres. Vidiri; Rel. Tria; P.M. Celentano; Ric. Inail; Controric. G.K.A.V.

Infortunio sul lavoro - Rischio elettivo - Definizione - Abnormità e inopinabilità della condotta del lavoratore - Insussistenza - Responsabilità dell'infortunio in capo al datore di lavoro - Si configura

Il datore di lavoro è responsabile dell'infortunio sul lavoro occorso al dipendente, a meno che la condotta del lavoratore non configuri il cd. rischio elettivo, ossia non presenti i caratteri dell'abnormità e dell'inopinabilità rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute.

Nota - Nel caso oggetto della sentenza in commento un dipendente restava gravemente infortunato a seguito della caduta da un'altezza di circa 8/10 metri dal suolo, mentre, nell'esecuzione della propria prestazione lavorativa, era intento ad ispezionare un caminetto posto sul tetto di un capannone, attività di cui era esperto, avendola già espletata in passato e per la quale aveva ricevuto l'ordine di realizzare un camminamento sino al punto in cui intervenire.

L'Inail, al fine di recuperare quanto versato al lavoratore infortunato, agiva in giudizio nei confronti del datore di lavoro per l'esercizio dell'azione di regresso ex artt. 10 e 11 del D.P.R. n. 1124/1965.

Nel corso del giudizio di merito emergeva, in particolare, che il punto ove si era verificata la caduta del lavoratore era molto distante dai camminamenti di sicurezza e che nel sito non vi erano parapetti o impalcati di protezione, ma soltanto un parapetto naturale costituito dalla struttura stessa; inoltre, sempre nel giudizio di merito veniva appurato che l'evento accadde in una fase del tutto iniziale di approntamento dei camminamenti, nella quale non era ancora possibile creare la struttura cui agganciare le cinture di sicurezza, tanto più che il tetto in questione era piano.

L'Inail risultava soccombente in entrambi i primi due gradi di giudizio, ritenendo il giudice di merito inapplicabili gli artt. 10 e 70 del D.P.R. n. 164/1965, invocati dall'Inail, posto che nel caso di specie era emerso che al momento del verificarsi dell'infortunio non era ancora possibile l'ancoraggio delle cinture di sicurezza. Va ricordato, infatti, che l'art. 10 del D.P.R. n. 164/1965 prevede che "nei lavori presso gronde e cornicioni, sui tetti, sui ponti sviluppabili a forbice e simili, su muri in demolizione e nei lavori analoghi che comunque espongano a rischi di caduta dall'alto o entro cavità, quando non sia possibile disporre impalcati di protezione o parapetti, gli operai addetti devono far uso di idonea cintura di sicurezza con bretelle collegate a fune di trattenuta". Inoltre, l'art. 70 del D.P.R. n. 164/1965 dispone che "prima di procedere alla esecuzione di lavori su tetti, lucernari, coperture simili, deve essere accertato che questi abbiano resistenza sufficiente per sostenere il peso degli operai e dei materiali di impiego. Nel caso in cui sia dubbia tale resistenza, devono essere adottati i necessari apprestamenti atti a garantire la incolumità delle persone addette, disponendo a seconda dei casi, tavole sopra le orditure, sottopalchi e facendo uso di cinture di sicurezza".

La Corte di cassazione, chiamata dall'Istituto assicuratore a pronunciarsi sulla vicenda, afferma in primo luogo che correttamente il giudice di merito ha escluso l'applicabilità nel caso di specie degli artt. 10 e 70 del D.P.R. n. 164/1965, in ragione dell'accertata impossibilità di apportare l'ancoraggio delle cinture di sicurezza e comunque dopo la constatazione dell'esistenza di un parapetto naturale, pur in mancanza di specifici parapetti o impalcati di protezione, senza che ciò risulti in contrasto con i precedenti giurisprudenziali rilevati in materia.

In particolare, ricorda la Suprema Corte, in caso di esecuzione di opere di montaggio o smontaggio delle impalcature trovano applicazione sia la norma generale del D.P.R. n. 164/1956, art. 10, sia l'art. 2087 c.c. che impone l'adozione delle opportune misure antinfortunistiche in caso di situazioni non direttamente contemplate dalla normativa antinfortunistica, ogni volta in cui non sia accertata l'impossibilità di caduta degli operai da qualunque punto del piano di lavoro, per effetto di specifici apprestamenti (collocazione, a seconda dei casi, di tavole sopra le orditure e di sottopalchi) previsti dal D.P.R. n. 164, art. 70, per i lavori da eseguirsi su lucernai, tetti, coperture e simili - sia, infine, il citato D.P.R. n. 164/1956, art. 17, che impone all'imprenditore o alla persona da lui nominata di provvedere alla diretta sorveglianza dei lavori di montaggio e smontaggio delle opere provvisionali e quindi di impedire, quale destinatario delle norme antinfortunistiche, che i lavoratori operino prima che siano stati predisposti adeguati sistemi per garantire la loro sicurezza (Cass. 11 maggio 2002, n. 6796).

Sempre secondo la Corte di cassazione, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, l'obbligo del datore di lavoro, nel caso di lavorazioni eseguite ad altezza superiore a due metri, di apprestare (quando possibile) impalcature, ponteggi o altre opere provvisionali non può essere sostituito dall'uso delle cinture di sicurezza, che è una misura di carattere generale e imperativo, ma complementare, nel senso che, quando sia comprovata l'impossibilità della relativa concreta realizzabilità, il datore di lavoro può essere esonerato dall'obbligo di fornire la protezione delle cinture, purché i suddetti impalcati di protezione e parapetti siano idonei a scongiurare del tutto il rischio di caduta dall'alto e non soltanto a facilitare il lavoro, o, tutt'al più, ad attenuare soltanto tale rischio (Cass. pen. 13 gennaio 2005, n. 10213: Id. 20 giugno 2007, n. 29204; Id. 19 aprile 2013, n. 25134).

Fatte queste precisazioni, la Suprema Corte, con la pronuncia in commento, accoglie parzialmente il ricorso dell'Inail, relativamente alla parte della sentenza impugnata in cui il comportamento del lavoratore era stato configurato come condotta anomala, esorbitante o atipica (configurando, secondo il giudice di merito il cd. rischio elettivo), con la conseguente esclusione della responsabilità del datore di lavoro.

Infatti, come ribadito dai giudici di legittimità, le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente. Non può, infatti, attribuirsi alcun effetto esimente, per l'imprenditore, all'eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare l'esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell'evento; a tal fine è però necessaria una rigorosa dimostrazione dell'indipendenza del comportamento del lavoratore dalla sfera di organizzazione e dalle finalità del lavoro, e, con essa, dell'estraneità del rischio affrontato a quello connesso alle modalità ed esigenze del lavoro da svolgere (cfr. Cass. 10 settembre 2009, n. 19494; Cass. 23 aprile 2009, n. 9689; Cass. 25 febbraio 2011, n. 4656: Cass. 4 febbraio 2014, n. 2455).

In particolare, in materia di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, costituisce rischio elettivo la deviazione, puramente arbitraria ed animata da finalità personali, dalle normali modalità lavorative, che comporta rischi diversi da quelli inerenti alle usuali modalità di esecuzione della prestazione. Tale genere di rischio - che è in grado di incidere, escludendola, sull'occasione di lavoro - si connota per il simultaneo concorso dei seguenti elementi: a) presenza di un atto volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive; b) direzione di tale atto alla soddisfazione di impulsi meramente personali; e) mancanza di nesso di derivazione con lo svolgimento dell'attività lavorativa (Cass. 2 ottobre 2009, n. 21113; Cass. 8 maggio 2009, n. 11417; Cass. 13 giugno 2012, n. 9649).

Nel caso di specie, secondo la Suprema Corte, il giudice del merito si è limitato a rilevare che: a) l'infortunato aveva riferito di essersi incamminato dove non vi era ancora il camminamento a tavoloni, nella suddetta fase di preparazione, e di essersi allontanato diversi metri da dove egli stesso aveva predisposto le misure di sicurezza; b) pertanto, con tutta evidenza, il lavoratore aveva disatteso l'ordine ricevuto di realizzare un camminamento fino al punto in cui intervenire, allontanandosi inopinatamente da dove aveva predisposto le misure di sicurezza. Al contrario, nel giudizio di merito non è stato chiarito se nella condotta del lavoratore siano, in concreto, rinvenibili tutti gli elementi per configurarla come abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, sicché essa, come tale, sia da considerare idonea a comportare l'esonero totale del datore di lavoro da ogni responsabilità rispetto all'infortunio o se, invece, l'incidente si sia verificato per colpa esclusiva o concorrente del lavoratore, situazione che non esclude la responsabilità del datore di lavoro, tanto più in ipotesi particolarmente delicate, quali sono quelle di caduta dall'alto verificatasi nella fase iniziale di approntamento delle misure protettive, come quella di cui si tratta. In ragione di quanto precede, la Corte di cassazione afferma nella sentenza in esame che il datore di lavoro è responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore a seguito di negligenza e/o imperizia di quest'ultimo, non essendo stato accertato nel caso di specie che l'evento traumatico occorso al lavoratore sia ascrivibile ad un comportamento del dipendente medesimo del tutto abnorme ed avulso dalla normalità della prestazione lavorativa, con la conseguenza che il datore di lavoro è tenuto a ristorare l'Inail delle somme erogate. Infatti, soltanto se nella condotta del lavoratore siano, in concreto, rinvenibili tutti gli elementi costitutivi del cd. rischio elettivo, sopra richiamati, essa si può considerare idonea a comportare l'esonero totale del datore di lavoro da ogni responsabilità rispetto all'infortunio, circostanza che nel caso di specie non si è verificata.




Proroga del periodo di somministrazione

Cass., sez. lav., 10 ottobre 2014, n. 21520

Pres. Macioce; Rel. Ghinoy; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. S.I. Spa; Controric. L.I.

Somministrazione - Accordo di proroga con il lavoratore - Forma scritta - Necessità - Mancanza - Conseguenze - Instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra utilizzatore e lavoratore

In mancanza di un contratto scritto di comunicazione e accettazione della proroga da parte del lavoratore somministrato, il periodo di lavoro ulteriore rispetto alla durata inizialmente pattuita e ritualmente comunicata esorbita dallo schema della somministrazione e dalla fattispecie complessa normativamente tipizzata, essendovi rimasto estraneo il lavoratore, sicché la prosecuzione di fatto del rapporto determina la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con la società utilizzatrice.

Nota - Con la sentenza in commento la Corte di cassazione ha confermato la decisione della Corte d'appello di Firenze, che a sua volta aveva confermato la sentenza del Tribunale di Prato, con cui era stata accertata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra il lavoratore e la società utilizzatrice, con conseguente condanna di quest'ultima alla riammissione in servizio e al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate, detratto l'aliunde perceptum.

La Corte territoriale aveva motivato la sua pronuncia sulla base del fatto che il lavoratore era stato assunto dalla società somministratrice con contratto di lavoro interinale a termine ed in seguito somministrato alla società utilizzatrice per il periodo dal 18.10.2010 al 16.1.2011, continuando a lavorare fino al 16.4.2011 sulla base di una proroga stabilita fra somministratrice e utilizzatrice, senza che tuttavia nessun contratto scritto fosse intervenuto per il periodo di proroga né tra il lavoratore e la società somministratrice, né tra il lavoratore e la società utilizzatrice.

Ciò, a detta della Corte territoriale, determinava la violazione degli oneri di forma imposti dal decreto legislativo n. 368/2001 e la conseguente inefficacia del termine, con la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con la società utilizzatrice. Né poteva darsi rilievo all'accordo di proroga intervenuto fra somministratrice e utilizzatrice, poiché non indicava nominativamente il lavoratore interessato alla proroga.

Con il primo motivo di ricorso la società utilizzatrice ha dedotto che la Corte d'appello avrebbe errato nell'applicare nel caso di specie le conseguenze di cui al decreto legislativo n. 368/2001, poiché la normativa sul contratto di somministrazione ne escluderebbe l'applicabilità; ed infatti, il decreto legislativo n. 276/2003 prevede l'instaurazione di un rapporto di lavoro tra l'utilizzatrice e il prestatore di lavoro in una serie di casi, tra i quali non sarebbe però compresa la mancanza della forma scritta per il contratto di lavoro tra somministratrice e lavoratore. Nel caso di specie peraltro, aggiunge la ricorrente, contrariamente a quanto assunto dalla Corte territoriale, il contratto di proroga intervenuto tra somministratrice e utilizzatrice richiamava espressamente il numero del contratto di lavoro a tempo determinato del lavoratore interessato alla proroga.

Sul punto, la Corte di cassazione ha affermato innanzitutto che il motivo di ricorso così formulato non coglie la ratio decidendi della Corte d'appello. Il giudice di merito, infatti, ha ritenuto di non applicare la normativa del contratto di somministrazione in quanto per il periodo di proroga non vi era stato alcun contratto scritto tra il lavoratore e la somministratrice, né tra il lavoratore e l'utilizzatrice, sicché ha applicato direttamente al rapporto così come di fatto realizzatosi la disciplina del D.Lgs. n. 368/2001.

Tale soluzione non è stata tuttavia specificamente confutata dalla ricorrente, che ha invece valorizzato la disciplina del contratto di somministrazione sulla base degli accordi intercorsi tra somministratrice e utilizzatrice, senza esaminare gli effetti della mancanza di contratto scritto nei confronti del lavoratore, che a tali accordi è rimasto estraneo.

Inoltre, prosegue la Corte, qualora, come nel caso di specie è pacifico, non risulti l'atto scritto di comunicazione e accettazione della proroga da parte del lavoratore, il periodo di proroga ulteriore rispetto alla durata inizialmente pattuita e ritualmente comunicata esorbita dallo schema della somministrazione e dalla fattispecie complessa normativamente tipizzata, essendovi rimasto estraneo il lavoratore. In proposito la Corte ha in più occasioni ribadito che il contratto di somministrazione si configura anche nell'attuale assetto normativo come un'eccezione, non suscettibile né di applicazione analogica, né di interpretazione estensiva, il che impone un pregnante controllo dei rigidi schemi voluti dal legislatore (cfr. tra le altre Cass. n. 232/2012).

L'art. 22, comma 2, del D.Lgs n. 276/2003 prevede, inoltre, che in caso di somministrazione a tempo determinato il rapporto di lavoro tra somministratrice e prestatore di lavoro sia soggetto anche alla disciplina di cui al D.Lgs.

n. 368/2001 per quanto compatibile, sicché la prosecuzione di fatto del rapporto determina la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con la società utilizzatrice, ed alle stesse conseguenze conduce la mancanza del vincolo di forma scritta previsto per l'apposizione del termine dal D.Lgs. n. 368/2001.

Sulla base di tali principi la Corte di cassazione ha pertanto concluso per il rigetto del ricorso.




Infortunio in itinere: indennizzabilità

Cass., sez. lav., 20 ottobre 2014, n. 22154

Pres. Vidiri; Rel. Amendola; P.M. Matera; Ric. P.R.; Controric. Inail

Infortunio in itinere - Indennizzabilità - Presupposti - Uso autovettura privata - Necessità

Ai sensi del D.P.R. n. 1124/1965, art. 2, l'indennizzabilità dell'infortunio in itinere, subito dal lavoratore nel percorrere, con mezzo proprio, la distanza fra la sua abitazione e il luogo di lavoro, postula: a) la sussistenza di un nesso eziologico tra il percorso seguito e l'evento, nel senso che tale percorso costituisca per l'infortunato quello normale per recarsi al lavoro e per tornare alla propria abitazione; b) la sussistenza di un nesso almeno occasionale tra itinerario seguito ed attività lavorativa, nel senso che il primo non sia dal lavoratore percorso per ragioni personali o in orari non collegabili alla seconda; c) la necessità dell'uso del veicolo privato, adoperato dal lavoratore, per il collegamento tra abitazione e luogo di lavoro, considerati i suoi orari di lavoro e quelli dei pubblici servizi di trasporto.

Nota - In riforma della sentenza di primo grado la Corte d'appello di Ancona ha respinto l'originario ricorso con cui un lavoratore chiedeva all'Inail di essere indennizzato in conseguenza di un infortunio subito alla guida della propria autovettura mentre si recava al lavoro. In particolare la Corte di merito ha rilevato che, in relazione alla distanza tra abitazione e luogo di lavoro, al servizio di trasporto pubblico esistente sul percorso, alle condizioni di età e di salute del lavoratore, l'uso dell'autovettura privata non era necessario, avendo egli potuto recarsi al lavoro a piedi ovvero col servizio pubblico di linea.

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione affidato ad un unico motivo, dolendosi che la Corte non avrebbe considerato che, in concreto, gli orari delle corse di linea su quella tratta erano tali da impedirgli di rispettare l'orario di ingresso al lavoro qualora avesse utilizzato il servizio pubblico per recarvisi.

Nel respingere il ricorso la Suprema Corte ribadisce il principio riportato nella massima, già affermato in precedenti specifici (Cass. 23 aprile 2004, n. 7717). Precisa la Cassazione che, per il verificarsi dell'estensione della copertura assicurativa, il comportamento del lavoratore deve essere giustificato da un'esigenza funzionale alla prestazione lavorativa, tale da legarla indissolubilmente all'attività di locomozione, posto che l'infortunio in itinere merita tutela nei limiti in cui l'assicurato non aggravi, per motivi o esigenze personali, la condotta extralavorativa connessa alla prestazione per ragioni di tempo e di luogo, interrompendo così il collegamento che giustifica la copertura assicurativa.

In questa direzione, il rischio elettivo - escludente l'indennizzabilità - comprende tutto quello che, estraneo e non attinente all'attività lavorativa, è dovuto a scelta arbitraria del lavoratore, che volutamente crei ed affronti, in base a ragioni personali, una situazione diversa da quella inerente alla sua attività lavorativa e per nulla connessa ad essa (Cass. 29 settembre 2005, n. 19047).

Secondo la Cassazione, quindi, considerati gli altissimi rischi legati alla circolazione stradale, l'uso del proprio autoveicolo per recarsi al lavoro deve essere valutato con particolare rigore, considerando che il mezzo di trasporto pubblico costituisce lo strumento normale per la mobilità delle persone e comporta il grado minimo di esposizione al rischio di incidenti (Cass. 6 ottobre 2004, n. 19940).

Alla stregua di tali principi la Suprema Corte respinge il ricorso ritenendo immune da censure la valutazione operata dal giudice dell'appello in merito alla non necessità, nel caso concreto, dell'uso dell'autovettura privata da parte del lavoratore.

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