Contenzioso

Rassegna della Cassazione 20 ottobre - 19 novembre 2014

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento e periodo di comporto

Aspettativa non retribuita e comportamento antisindacale

Licenziamento disciplinare

Licenziamento per giusta causa

I limiti oggettivi del patto di non concorrenza

Licenziamento e periodo di comporto

Cass. Sez. Lav. 18 novembre 2014, n. 24525

Pres. Macioce; Rel. Doronzo; P.M. Ceroni; Ric. G.L.; Contr. S. s.r.l.;

Licenziamento - Periodo di comporto - Recesso intimato prima del superamento e in costanza di malattia - Nullità - Intimazione di un nuovo licenziamento - Legittimità

Il licenziamento intimato prima del superamento del periodo di comporto ed in costanza di malattia, è radicalmente nullo, e non temporaneamente inefficace, per violazione dell'art. 2110 c.c. Ne consegue che deve ritenersi pienamente legittima l'intimazione di un successivo licenziamento, basato anch'esso sul superamento del periodo di comporto, superamento effettivamente avvenuto a seguito di comunicazione del lavoratore del prolungamento del periodo di malattia, tenuto conto che la continuità e permanenza del rapporto di lavoro - non interrotto da un atto nullo - giustificano l'irrogazione di un secondo licenziamento basato su una nuova e diversa ragione giustificatrice.

NOTA - La Corte di appello di Genova, confermando la sentenza di primo grado resa dal Tribunale di Chiavari, rigettava la domanda avanzata da un lavoratore tesa a far dichiarare l'inefficacia della revoca del primo licenziamento nonché la illegittimità del secondo licenziamento intimatogli.

Nella vicenda in oggetto, il lavoratore, in aspettativa per malattia, aveva ricevuto una lettera di licenziamento per superamento del periodo di comporto, ma prima della scadenza dello stesso; al termine dell'aspettativa la società aveva inviato al lavoratore una nuova comunicazione con la quale revocava il precedente atto di recesso e contestualmente ne intimava un altro, sempre per superamento del periodo di comporto per effetto della comunicazione inviata dal lavoratore di prolungamento del suo stato di malattia. Secondo la corte di merito, il primo licenziamento doveva ritenersi nullo, in quanto intimato durante il periodo di malattia e prima della scadenza del comporto; mentre era da considerarsi legittimo il secondo licenziamento intimato dal datore di lavoro e fondato sull'effettivo superamento del periodo di comporto.

Avverso tale statuizione il lavoratore propone ricorso per cassazione lamentando la violazione degli artt. 2110, 2119 e 1423 c.c. Secondo parte ricorrente, poiché la corte di merito aveva ritenuto inefficace la revoca del primo licenziamento, si era ormai consumato il potere risolutorio del datore di lavoro con riferimento al superamento del periodo di comporto.

La Corte di cassazione rigetta il ricorso statuendo che in caso di licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto, ma prima della scadenza di questo, l'atto di recesso è nullo per violazione di norma imperativa, art. 2110 c.c. - che vieta il licenziamento in costanza di malattia - e non temporaneamente inefficace, in quanto il superamento del periodo di comporto deve sussistere anteriormente alla comunicazione dello stesso.

Dalla nullità del licenziamento, secondo la Corte, discende la possibilità per il datore di lavoro di rinnovare l'atto, poiché si tratta di un negozio diverso dal precedente e, quindi, esula dalla previsione di cui all'art. 1423 c.c. (che attiene alla convalida, con efficacia ex tunc, di un negozio nullo). Nel caso di specie, a parere della Suprema Corte, la continuità e permanenza del rapporto di lavoro, non interrotto dall'atto di recesso nullo, da un lato hanno reso priva di effetto la revoca del primo licenziamento intimato dal datore di lavoro e, dall'altro, hanno giustificato l'irrogazione di un secondo licenziamento, motivato dalla comunicazione del lavoratore di prolungamento del suo stato di malattia, in quanto basato su una nuova e diversa ragione giustificatrice.




Aspettativa non retribuita e comportamento antisindacale

Cass. Sez. Lav. 17 novembre 2014, n. 24393

Pres. Macioce; Rel. Ghinoy; P.M.Cerone; Ric. P.I. s.p.a.; Contr. Cobas;

Lavoro - Lavoro subordinato - Associazioni sindacali - Attività sindacale - Lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettorali od a cariche sindacali provinciali e nazionali - Diritto all'aspettativa non retribuita - Requisiti previsti dall'art. 31, legge n. 300 del 1970 - Necessità - Requisiti indicati dall'art. 3, D. Lgs. n. 564 del 1996 in tema di contribuzione figurativa - Irrilevanza.

Il diritto all'aspettativa non retribuita in favore dei lavoratori eletti in Parlamento, ovvero chiamati ad altre funzioni pubbliche elettive, o a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali, sorge solo in presenza dei requisiti previsti dall'art. 31 della legge 20 maggio 1970, n. 300, senza che siano necessari anche i requisiti indicati dall'art 3 del d.lgs. n. 564 del 1996, in tema di contribuzione figurativa per lavoratori chiamati a ricoprire cariche sindacali, la cui disciplina vale solo ai fini previdenziali e non introduce una modifica di ordine generale della disciplina dettata dallo Statuto dei Lavoratori.

NOTA - Con sentenza del 2007 la Corte d'Appello di Milano rigettava l'appello proposto da una società datrice di lavoro avverso la sentenza del Tribunale di Milano che, confermando il decreto emesso ai sensi dell'art. 28 Stat. Lav., aveva ritenuto l'antisindacalità del comportamento della società consistito nel considerare come assenza ingiustificata dal lavoro i giorni di aspettativa sindacale non retribuita richiesti da un dipendente ai sensi dell'art. 31 Stat. Lav.

La Corte rilevava che il dipendente interessato era stato chiamato dal responsabile legale nazionale a far parte dell'Ufficio sindacale nazionale mediante il meccanismo della cooptazione, in sostituzione di un altro componente, il che determinava la sussistenza del diritto all'aspettativa sindacale; nè allo scopo, a parere della Corte Territoriale, era necessario che sussistessero le condizioni previste dall' art. 3 del D.Lgs. n. 546 del 1996, norma attinente ai soli fini della contribuzione figurativa.

La società ricorreva per Cassazione, lamentando la violazione di legge in cui sarebbe incorsa la sentenza di merito nel ritenere che fosse sufficiente per fruire dell'aspettativa sindacale prevista dall'art. 31 Stat. Lav. la circostanza, riferita dal teste escusso, che il dipendente fosse stato dallo stesso chiamato a far parte dell'ufficio sindacale nazionale mediante il meccanismo della cooptazione, e che la norma dell' art. 3 del D.Lgs. n. 546 del 1996 - che prevede che le cariche sindacali di cui al secondo comma dell'art. 31 Stat. Lav. sono quelle previste dalle norme statutarie e formalmente attribuite per lo svolgimento di funzioni rappresentative e dirigenziali - sia dettata solo ai fini della contribuzione figurativa.

La Suprema Corte ha rigettato i suddetti motivi di ricorso, osservando che l'art. 31 Stat. Lav., al primo comma prevede che: "I lavoratori che siano eletti membri del Parlamento nazionale o del Parlamento europeo o di assemblee regionali ovvero siano chiamati ad altre funzioni pubbliche elettive possono, a richiesta, essere collocati in aspettativa non retribuita, per tutta la durata del loro mandato". Il secondo comma aggiunge: "La medesima disposizione si applica ai lavoratori chiamati a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali". Il terzo e il quarto comma aggiungono che: "I periodi di aspettativa di cui ai precedenti commi sono considerati utili a richiesta dell'interessato, ai fini del riconoscimento del diritto e della determinazione della misura della pensione a carico della assicurazione generale obbligatoria di cui al regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827, e successive modifiche ed integrazioni, nonché a carico di enti, fondi, casse e gestioni per forme obbligatorie di previdenza sostitutive dell'assicurazione predetta, o che ne comportino comunque l'esonero.Durante i periodi di aspettativa l'interessato, in caso di malattia, conserva il diritto alle prestazioni a carico dei competenti enti preposti alla erogazione delle prestazioni medesime".

La Suprema Corte ha, inoltre, richiamato anche l'art. 3 II comma del D.Lgs. n. 546 del 1996 (inserito in un decreto legislativo che si occupa di contribuzione figurativa e di copertura assicurativa per periodi non coperti da contribuzione), che prevede che: "Le cariche sindacali di cui al secondo comma dell'art. 31 della citata legge n. 300 del 1970, sono quelle previste dalle norme statuarie e formalmente attribuite per lo svolgimento di funzioni rappresentative e dirigenziali a livello nazionale, regionale e provinciale o di comprensorio, anche in qualità di componenti di organi collegiali dell'organizzazione sindacale".

Esaminando il rapporto tra le disposizioni sopra richiamate, la Corte di Cassazione, conformandosi ad un precedente orientamento giurisprudenziale (Cass. n. 16865 del 2011 e Cass. n. 16507 del 2014), ha evidenziato che la disciplina del 1996 vale solo ai fini previdenziali, espressamente specificati dalla medesima norma, e non introduce una modifica di ordine generale della disciplina dettata dallo Statuto dei Lavoratori e quindi una limitazione per l'autonomia sindacale nell'individuare le cariche sindacali provinciali e nazionali legittimate alla fruizione dei permessi. Resta comunque ferma la necessità, secondo la Corte, che l'utilizzo di tali permessi deve essere effettuato in modo trasparente e coerente con la ratio e le finalità della norma, che è quella di tutelare l'attività sindacale così come delineata nelle scelte operate dall'associazione sindacale nel suo complesso.

Inoltre, a parere della Suprema Corte, la valutazione della ricomprensione di una specifica carica nel concetto di "cariche sindacali e provinciali" secondo le previsioni dell'autonomia sindacale spetta al giudice di merito e, nel caso in esame, la Corte milanese aveva correttamente ritenuto che la rispondenza dell'utilizzazione del permesso alle scelte dell'associazione sindacale risultasse, da quanto riferito in giudizio dal teste escusso (responsabile legale nazionale), ovvero che il dipendente che aveva usufruito dei permessi facesse parte di un organo collegiale nazionale dal 2003, oltre ad essere membro dell'ufficio sindacale nazionale e che fosse stato chiamato in relazione alle esigenze dei programmi di intervento dell'O.S.




Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 14 novembre 2014, n. 24335

Pres. Stile; Rel. Venuti; Ric. I.G.; Controric. Fondiaria-Sai;

Lavoro (rapporto di) - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento disciplinare - Giustificato motivo soggettivo - Liquidatore - Liquidazione sinistri falsi - Contesto ambientale criminoso - Esimente - Esclusione

Ai fini della legittimità del licenziamento per motivi soggettivi, l'imperversare della criminalità non può atteggiarsi ad esimente della condotta del lavoratore e giustificare la reiterata liquidazione di falsi sinistri, dovendo il lavoratore piuttosto richiedere un tempestivo intervento degli organi societari ovvero rivolgersi, per la denuncia dei singoli casi, agli organi di polizia giudiziaria.

NOTA - La controversia decisa dalla Suprema Corte ha ad oggetto il licenziamento di un dipendente di una compagnia assicurativa addetto alla liquidazione sinistri, motivato da plurime e gravi inadempienze del lavoratore concretantisi nell'indennizzo di incidenti macroscopicamente falsi o palesemente sospetti, senza l'autorizzazione della società.

Il dipendente, a propria discolpa, aveva eccepito, sul piano formale, la tardività delle contestazioni disciplinari (in specie, tali contestazioni erano avvenute uno o due anni dopo la liquidazione dei sinistri, e ciò nonostante vi fossero state nell'ufficio di Caserta dove operava il lavoratore reiterate ispezioni amministrative della società); su quello sostanziale, la sussistenza di una diffusa situazione ambientale criminosa, di atteggiamenti minacciosi ed intimidatori posti in essere da terzi nei confronti del lavoratore, di un'esposizione a rischio per l'incolumità personale del lavoratore, che avevano indotto quest'ultimo a non denunziare alcunché ai vertici aziendali ed a liquidare irregolarmente i sinistri.

La Corte di Cassazione, quanto al primo profilo di censura, condivide le valutazioni dei giudici di merito secondo i quali la regola dell'immediatezza deve essere posta in relazione alla laboriosità delle indagini, alla complessità dei controlli, ai fascicoli da esaminare e al numero di procedure irregolari di liquidazioni denunciate (nella specie, circa cento), soggiungendo che il ricorrente era stato, altresì, sottoposto a procedimento penale e che solo a seguito di tale procedimento la società aveva avuto piena cognizione degli illeciti commessi. Tale circostanza - conclude la Corte - unitamente alla complessità dei controlli da effettuare e al rilevante numero di sinistri irregolarmente liquidati, giustificano il ritardo con il quale erano state effettuate le due contestazioni disciplinari.

Quanto al secondo profilo di censura, la Suprema Corte conferma la statuizione della Corte di merito, osservando che "l'imperversare della criminalità non poteva atteggiarsi ad esimente della condotta del lavoratore e giustificare la reiterata liquidazione di falsi sinistri, dovendo il lavoratore piuttosto richiedere un tempestivo intervento degli organi societari ovvero rivolgersi, per la denuncia dei singoli casi, agli organi di polizia giudiziaria". Segnatamente - a parere della Corte di legittimità - ancorché le liquidazioni dei sinistri fossero state condizionate dall'ambiente malavitoso e il dipendente fosse stato oggetto di intimidazioni e minacce, tali circostanze non erano idonee ad escludere la responsabilità di quest'ultimo, che aveva, tra l'altro, lo specifico obbligo di segnalare la liquidazione di sinistri sospetti al proprio capo area, il quale avrebbe poi dovuto segnalarli alla direzione. In nuce - argomenta la Suprema Corte - il ricorrente piuttosto che rimanere fedele alla società, esponendosi a rischi, ha preferito tutelare la propria incolumità personale, procedendo alla liquidazione di falsi sinistri, ciò che giustifica il licenziamento.

Alla stregua dei suddetti principî, la Suprema Corte ha ritenuto correttamente motivata la sentenza pronunciata dalla Corte d'Appello di Napoli, che aveva ritenuto integrata, nel caso sopra esposto, la fattispecie del giustificato motivo soggettivo di licenziamento.




Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 20 ottobre 2014, n. 22152

Pres. Vidiri; Rel. Nobile; P.M. Matera; Ric. A.P.; Contr. S. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento per giusta causa - Legittimità - Sanzioni disciplinari - Rilevanza di precedenti inadempimenti nella valutazione dei fatti contestati successivamente - Ammissibilità - Fattispecie

Ai fini della valutazione della gravità della insubordinazione e della conseguente sussistenza della giusta causa, rileva il comportamento pregresso del lavoratore anche a prescindere dalla rilevanza autonoma della recidiva.

NOTA - La vicenda in esame trae spunto dal ricorso proposto da un lavoratore volto all'accertamento dell'infondatezza dei provvedimenti disciplinari inflittigli e alla dichiarazione della nullità e/o illegittimità del licenziamento intimatogli.

Il ricorso veniva rigettato sia in primo grado che in secondo grado. La corte d'Appello, in particolare, rilevava come il licenziamento fosse fondato su una duplice motivazione e, precisamente, non solo sulla recidiva ma anche su una giusta causa ai sensi dell'art. 2119 c.c.. Secondo la Corte territoriale, dunque, anche a prescindere dalla detta recidiva, il licenziamento era legittimo, in quanto il lavoratore, rifiutandosi di eseguire i compiti affidatigli dal suo superiore, aveva di fatto posto in essere un comportamento di insubordinazione, inidoneo a consentire la protrazione anche temporanea del rapporto. Avverso tale pronuncia il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione deducendo che i provvedimenti disciplinari pregressi avevano perso efficacia in quanto il datore di lavoro era decaduto dalla nomina del proprio arbitro nell'ambito dei relativi procedimenti arbitrali e che, pertanto, il licenziamento irrogato sulla base di detti provvedimenti, in quanto fondato sulla recidiva, sarebbe invalido e/o inefficace. Secondo la Cassazione la Corte territoriale ha correttamente motivato la propria decisione rilevando che il licenziamento era stato irrogato non solo sulla base della recidiva ma anche per giusta causa ex art. 2119 c.c., ravvisata nell'impossibilità intrinseca di prosecuzione del rapporto per rescissione del vincolo fiduciario, chiaramente riconducibile alla condotta d'insubordinazione del lavoratore rispetto alle direttive impartite dal suo superiore corroborata nella sua efficacia rescindente dal pregresso comportamento recidivante del lavoratore. La Suprema Corte ha, pertanto, rigettato il ricorso affermando, in particolare, che ai fini della valutazione della gravità della insubordinazione e della conseguente sussistenza della giusta causa, rileva il comportamento pregresso del lavoratore anche a prescindere dalla rilevanza autonoma della recidiva.




I limiti oggettivi del patto di non concorrenza

Cass. Sez. Lav. 19 novembre 2014, n. 24662

Pres. Roselli; Rel. Doronzo; P.M. Servello; Ric. 3V S. S.p.a.; Res. B.R.;

Lavoro subordinato - Patto di non concorrenza - Limiti oggettivi - Attività del datore di lavoro nei cui confronti è assunto il vincolo

L'oggetto del patto di non concorrenza è delimitato dall'attività del datore di lavoro nei confronti del quale è assunto il vincolo, sicché deve escludersi che possano rientrarvi, in quanto inidonee ad integrare concorrenza, attività estranee allo specifico settore produttivo o commerciale nel quale opera l'azienda.

NOTA - La Corte d'Appello di Brescia, riformando la sentenza di primo grado, escludeva la violazione del patto di non concorrenza da parte di un dirigente che, dopo aver lavorato per una società operante nel settore chimico con mansioni di direttore di stabilimento, aveva iniziato a lavorare per un'altra società, operante nel medesimo settore.

La Corte territoriale, in particolare, sulla base di una consulenza tecnica d'ufficio che aveva accertato la diversità dei meccanismi di produzione e degli impianti adoperati dalle due aziende, nonché dei prodotti realizzati, evidenziava che le conoscenze e le informazioni acquisite dal dirigente presso la prima datrice di lavoro non avrebbero potuto essere utilizzate in favore della seconda.

Avverso la decisione della Corte d'Appello la società proponeva ricorso per cassazione, mentre il dirigente resisteva con controricorso.

La ricorrente, in particolare, evidenziava che il patto di non concorrenza riguardava le attività in favore di terzi "limitatamente ai prodotti oggetto dell'attività lavorativa da parte del dipendente", che uno dei prodotti realizzati dall'azienda alle cui dipendenze era andato a lavorare il dirigente era in concorrenza con quattro dei suoi prodotti e che la decisione della Corte d'appello si fondava su una circostanza del tutto estranea all'accordo delle parti, ossia la possibilità per il dipendente "di incidere su questa concorrenza con le sue conoscenze professionali".

La Corte di cassazione ha respinto il ricorso, rilevando che le clausole di non concorrenza sono finalizzate a salvaguardare l'imprenditore da qualsiasi "esportazione presso imprese concorrenti" del patrimonio immateriale dell'azienda e che l'art. 2125 cod. civ., prevedendo, a pena di nullità del patto, determinati limiti, è funzionale a garantire al lavoratore subordinato che le predette clausole non comprimano eccessivamente la sua possibilità di svolgere attività lavorativa alle dipendenze di altri datori di lavoro.

La pronuncia ha inoltre rimarcato che, per quanto riguarda i limiti oggettivi del patto, deve aversi riguardo all'attività del prestatore di lavoro, non circoscritta alle specifiche mansioni in concreto svolte presso il datore nei cui confronti è assunto il vincolo. Benché l'art. 2125 cod. civ. non fornisca indicazioni sull'estensione di tali limiti, esse devono ricavarsi dalla ratio della previsione di nullità, che è tesa ad assicurare al prestatore di lavoro un margine di attività idoneo a procurargli un guadagno adeguato alle esigenze di vita sue e della sua famiglia.

Ne deriva che l'oggetto del patto di non concorrenza è delimitato dall'attività del datore di lavoro e che deve escludersi che possano rientrarvi, in quanto inidonee ad integrare concorrenza, attività estranee allo specifico settore produttivo o commerciale nel quale opera l'azienda, ovvero al "mercato nelle sue oggettive strutture, ove convergono domande ed offerte di beni o servizi identici oppure reciprocamente alternativi o fungibili, comunque, parimenti idonei ad offrire beni o servizi nel medesimo mercato" (Cass. 21 marzo 2013, n. 7141).

In ragione di ciò, la Corte ha rimarcato la correttezza della decisione di secondo grado, rilevando che l'attività svolta dal dirigente in favore del nuovo datore di lavoro non rientrava nell'ambito oggettivo del patto di non concorrenza, tenuto conto dell'assenza di competitività tra le due aziende, derivante dalla diversità dei meccanismi di produzione e dei prodotti, e quindi dell'impossibilità di esportazione verso la nuova società dei beni immateriali della vecchia.

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