Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Non costituisce risoluzione per mutuo consenso la sola inerzia del lavoratore

Licenziamento per superamento del periodo di comporto

Applicazione al videoterminale e pause lavorative

L'applicabilità dell'art. 18 Stat. Lav. al socio lavoratore di cooperativa

Licenziamento per giusta causa

Non costituisce risoluzione per mutuo consenso la sola inerzia del lavoratore

Cass. Sez. Lav. 12 febbraio 2015, n. 2800

Pres. Stile; Rel. Maisano; Ric. D.G.; Controric. E.T. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Tempo determinato - Estinzione del rapporto di lavoro alla scadenza del termine - Risoluzione per mutuo consenso - Configurabilità - Condizioni - Fattispecie

La mera inerzia del lavoratore, non accompagnata da altre circostanze significative, non rappresenta condotta idonea a perfezionare la risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso.

NOTA - Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d'Appello di Reggio Calabria, che aveva rigettato la domanda proposta dal lavoratore - volta ad ottenere la dichiarazione della sussistenza di un unico rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con la società - e ritenuto il rapporto di lavoro risolto per mutuo consenso, considerando il lungo tempo trascorso fra la cessazione del rapporto stesso e la domanda giudiziale (circa sei anni), lo svolgimento di altre attività lavorative alle dipendenze di terzi, il ritiro del libretto di lavoro e del trattamento di fine rapporto.

Il lavoratore proponeva, quindi, ricorso per cassazione, criticando la sentenza impugnata per aver erroneamente ritenuto sussistente la sua volontà di recedere dal rapporto di lavoro in considerazione del mero decorrere del tempo e dello svolgimento di altre attività lavorative, comunque necessario per trarre i mezzi di sostentamento.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha innanzitutto affermato che, in generale, il rapporto di lavoro può risolversi per risoluzione per mutuo consenso tacito, risultante da comportamenti concludenti delle parti e da circostanze significative tali da dimostrare una chiara e certa comune volontà di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo. Sul punto, più volte la Corte ha affermato che a tal fine non è sufficiente la mera inerzia o il semplice ritardo nell'esercizio del diritto (cfr. ex plurimis Cass. n. 2279/2010) e che, in ogni caso, la valutazione del significato e della portata del complesso degli elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto (cfr. ex plurimis Cass. n. 23872/2009).

Nella fattispecie, la Corte d'Appello aveva considerato non solo il lungo lasso di tempo di quasi sei anni intercorso dalla cessazione dell'ultimo rapporto a termine al deposito dell'atto introduttivo del giudizio di primo grado, ma aveva dettagliatamente considerato e valutato anche altri e diversi elementi. Alcuni di tali elementi, quali il ritiro del libretto di lavoro o del trattamento di fine rapporto, potrebbero, a detta della Corte di Cassazione, in verità essere compatibili con la volontà di proseguire il rapporto, essendo anche giuridicamente necessari, ma la Corte d'Appello aveva considerato e valutato anche l'ulteriore elemento costituito dall'inizio di un'attività di impresa da parte del lavoratore, con relativo impegno di investimento.

Ebbene, tale elemento, correttamente e logicamente valutato dal giudice di merito, può ben essere considerato, secondo la Corte, incompatibile con la volontà di proseguire il rapporto di lavoro. Considerato, inoltre, che tale valutazione sfugge da ogni censura di legittimità, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.




Licenziamento per superamento del periodo di comporto

Cass. Sez. Lav. 12 febbraio 2015, n. 2794

Pres. Stile; Rel. Doronzo; P.M. Mastroberardino; Ric. F. S.p.A.; Controric. A.N.B.;

Lavoro subordinato - Licenziamento per superamento del periodo di comporto - Comporto per Sommatoria - Incomputabilità del periodo di aspettativa ai fini del comporto.

Nel caso di concessione di un periodo di aspettativa successivo a quello di malattia, ai sensi dell'art. 40 del CCNL 4 luglio 2008 per i dipendenti dell'industria della gomma, cavi elettrici ed affini e per i dipendenti dell'industria delle materie plastiche, il relativo periodo non può essere computato nell'arco temporale dei trentasei mesi previsto dalla disciplina collettiva, ma deve essere considerato come periodo "neutro", con la conseguenza che il datore di lavoro potrà legittimamente esercitare il diritto di recesso ove, al termine dell'aspettativa, il lavoratore non rientri in servizio o si assenti nuovamente per malattia e l'assenza, sommata alle precedenti, comporti il superamento del periodo di comporto.

NOTA - La Corte d'Appello di Brescia rigettava l'impugnazione proposta da un datore di lavoro avverso la sentenza di primo grado che aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento, dallo stesso intimato, per superamento del periodo di comporto.

Il CCNL per i dipendenti dell'industria della gomma e della plastica (del 4 luglio 2008, applicabile ratione temporis), prevedeva che "Avvenendo l'interruzione del servizio per malattia od infortunio non professionale (...) il lavoratore, non in prova, ha diritto alla conservazione del posto secondo i seguenti termini: a) mesi 6 per gli aventi anzianità di servizio fino a 3 anni; b) mesi 9 per gli aventi anzianità di servizio oltre 3 e fino a 6 anni; c) mesi 12 per gli aventi anzianità di servizio oltre 6 anni" e che tali periodi di comporto (c.d. "comporto interno") "nel caso di più assenze, si intendono riferiti ad un arco temporale di 36 mesi" (c.d. "comporto esterno"). Tale disciplina contrattuale prevedeva, com'è prassi, due diversi tipi di comporto: il cosiddetto "comporto secco" relativo ai casi di assenza continuativa, con un limite massimo di 12 mesi; e il cosiddetto "comporto per sommatoria" relativo ai casi di assenze plurime e non continuative, con un limite massimo di 12 mesi di assenza nell'arco di 36 mesi.

Il CCNL in parola prevedeva altresì che "Superati i limiti di conservazione del posto (c.d. "comporto interno", n.d.a.) (...), il lavoratore potrà usufruire (...) di un periodo di aspettativa della durata di 5 mesi, durante il quale non decorrerà retribuzione né si avrà decorrenza di anzianità a nessun effetto".

Entrambi i giudici di merito ritenevano che, nel caso di specie, il periodo di comporto per sommatoria non fosse stato superato, sia calcolando le assenze a ritroso per i trentasei mesi antecedenti al licenziamento o all'ultima assenza, sia con riferimento ai trentasei mesi successivi alla prima assenza, poiché ai fini del relativo computo, si doveva computare il periodo di aspettativa usufruito dal lavoratore con il conseguente prolungamento dell'arco temporale (c.d. "comporto esterno" o "periodo di osservazione") rispetto al quale conteggiare le assenze (c.d. "comporto interno").

Avverso la pronuncia d'appello, ricorreva per Cassazione il datore di lavoro; il lavoratore resisteva con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale condizionato.

Con i due motivi del ricorso principale, il datore di lavoro lamentava violazione e falsa applicazione della disciplina collettiva nonché delle norme civilistiche in materia di interpretazione dei contratti per aver la Corte di merito erroneamente ritenuto di computare il periodo di aspettativa nel periodo di calcolo del limite di conservazione del rapporto di lavoro.

La Corte di Cassazione, ha accolto il ricorso principale e ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, ritenendo inammissibile il ricorso incidentale condizionato promosso dal lavoratore. La Suprema Corte ha premesso che le regole dettate dall'art. 2110 c.c. per le ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore sono finalizzate ad impedire al datore di lavoro di porre fine al rapporto prima del superamento del limite di tollerabilità dell'assenza, (c.d. periodo di comporto) predeterminato dalla legge, dalle parti o, in via equitativa, dal giudice. Tale disciplina, in altri termini, ha la funzione di contemperare gli interessi confliggenti del datore di lavoro e del lavoratore, riversando sull'imprenditore, in parte ed entro un determinato periodo, il rischio della malattia del lavoratore. Di conseguenza, il superamento del periodo di comporto (sia esso secco o per sommatoria) è condizione sufficiente a legittimare il recesso del datore di lavoro, senza che sia necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo, dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa, né quella della correlativa impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse (cfr. Cass. 20 maggio 2013, n. 12233 nonché Cass. 31 gennaio 2012, n. 1404).

Ad avviso della Corte, i principî sopra enunciati devono trovare applicazione anche nel caso in cui al periodo di comporto si aggiunga, per previsione della disciplina collettiva, un periodo di aspettativa per malattia che, trattandosi di una norma volta, di per sé, ad ampliare la tutela dei lavoratori, non può ulteriormente limitare il potere di recesso del datore di lavoro, quando, al termine del periodo di aspettativa, il lavoratore non riprenda servizio, ovvero quando il lavoratore, in conseguenza di un ulteriore episodio morboso, superi il periodo di comporto.

In conclusione, la Suprema Corte ha ritenuto che tale principio trovasse riscontro nell'interpretazione letterale del contratto collettivo, laddove le parti collettive avevano espressamente previsto che durante il periodo di aspettativa non "si avrà decorrenza di anzianità a nessun effetto".




Applicazione al videoterminale e pause lavorative

Cass. Sez. Lav. 11 febbraio 2015, n. 2679

Pres. Macioce; Rel. Nobile; P.M. Matera; Ric. F.N.; Controric. T.I. s.p.a.;

Applicazione al videoterminale - Interruzione - Svolgimento di mansioni amministrative in luogo delle pause - Legittimità

Considerato che l'art. 54 del d.lgs. n. 626/1994 riconosce il diritto del lavoratore il quale svolga mansioni comportanti l'uso del videoterminale per almeno quattro ore consecutive ad una interruzione mediante "pausa" o "cambiamento di attività", la prevista interruzione può ritenersi integrata nel caso in cui il lavoratore sia adibito allo svolgimento di attività amministrative c.d. di back office, in luogo delle pause, che comportino un cambiamento di attività tale da escludere comunque l'uso continuativo del videoterminale.

NOTA - La Corte di appello di Napoli riformando la sentenza del giudice di primo grado rigettava la domanda della lavoratrice diretta ad ottenere il risarcimento dei danni asseritamente subiti per la mancata fruizione delle pause al videoterminale ex d.lgs. n. 626/1994 per il periodo compreso tra l'assegnazione della stessa al servizio 187 dall'1.09.1997 sino al 17.12.2000, data in cui era stata applicata la pausa di 15 minuti ogni 120 lavorati.

In sintesi, la Corte territoriale, sulla base delle risultanze della prova testimoniale, rilevava che nella fattispecie non poteva ritenersi sussistente la continuità della applicazione al videoterminale - previsto dall'art. 54 del d.lgs. n. 626/1994 quale presupposto essenziale per la maturazione del diritto al godimento delle pause -, in quanto gli addetti al 187 (tra i quali era compresa la ricorrente) svolgevano anche altre autonome mansioni amministrative, c.d. di back office, che non comportavano l'uso continuativo dei videoterminali.

La Corte rilevava, altresì, che in ogni caso, lo svolgimento di attività amministrativa nella stessa giornata comportava un cambiamento di attività comunque idoneo a consentire un'interruzione dell'applicazione al videoterminale così come richiesto per legge.

La ricorrente proponeva ricorso per cassazione avverso tale pronuncia fondato su sei motivi.

Con i primi due motivi la lavoratrice impugnava la sentenza di appello per violazione dell'art. 54 del d.lgs. n. 626 del 1994 mentre con i successivi motivi, dal terzo al sesto, la ricorrente denunciava pretesi vizi di motivazione della sentenza impugnata contestando, in particolare, l'accertamento di fatto compiuto dalla Corte di merito.

La Cassazione rigettava il ricorso.

La Suprema Corte dopo aver richiamato il dettato normativo di cui all'art. 54 del d.lgs. n. 626/1994 ai sensi del quale è previsto che "1. Il lavoratore (n.d.r. il quale svolga mansioni comportanti l'uso del videoterminale) qualora svolga la sua attività per almeno quattro ore consecutive, ha diritto ad una interruzione della sua attività mediante pause ovvero cambiamento di attività. 2. Le modalità di tali interruzioni sono stabilite dalla contrattazione collettiva anche aziendale. In assenza di una disposizione contrattuale riguardante l'interruzione di cui al comma 1, il lavoratore comunque ha diritto ad una pausa di quindici minuti ogni centoventi minuti di applicazione continuativa al videoterminale.", ha rilevato che correttamente la Corte di merito, sulla base delle risultanze della prova testimoniale espletata, aveva accertato che nella specie non potesse ravvisarsi la continuità della applicazione al videoterminale e che, in ogni caso, lo svolgimento dell'attività amministrativa nella stessa giornata - consistente nell'esame e risoluzione di pratiche e richieste che pervenivano in forma cartacea dalla clientela e che non implicavano dialogo diretto in linea con l'utente - comportava un cambiamento di attività comunque idoneo a consentire un'interruzione della applicazione al videoterminale così come previsto per legge.

Per queste ragioni la Suprema Corte rigettava il ricorso e confermava la sentenza di appello.

NB: Il D.lgs. 81/2008 ha sostanzialmente confermato il dettato dell'art. 54 del D.Lgs 626/1994 disponendo all'art. 175 che l'addetto al videoterminale "...ha comunque diritto ad una pausa di 15 minuti ogni 120 minuti di applicazione continuativa al videoterminale".




L'applicabilità dell'art. 18 Stat. Lav. al socio lavoratore di cooperativa

Cass. Sez. Lav. 23 gennaio 2015, n. 1259

Pres. Stile; Rel. Tria; P.M. Celeste; Ric. C.L.O.; Controric. F.V.;

Lavoro nelle cooperative - Socio lavoratore - Esclusione dal rapporto sociale - Ragioni disciplinari - Conseguenze - Cessazione automatica del rapporto di lavoro - Illegittimità del provvedimento espulsivo - Tutele - Art. 18 Stat. Lav. - Applicabilità - Ripristino sia del rapporto associativo sia di quello lavorativo - Si configura

In tema di società cooperativa di produzione e lavoro, ove la società deliberi, per ragioni disciplinari, l'espulsione del socio con conseguente automatica cessazione del rapporto di lavoro subordinato intercorrente tra il socio e la società stessa e il provvedimento espulsivo venga dichiarato illegittimo, trova applicazione, in forza del rinvio operato dall'art. 2 della L. n. 142 del 2001, l'art. 18 St. lav., che comporta che all'illegittimità della delibera di esclusione del socio consegue anche quella del licenziamento, con il ripristino sia del rapporto associativo sia di quello lavorativo.

NOTA - Nel caso oggetto della sentenza in commento un socio lavoratore di una cooperativa, in seguito ad un forte diverbio, con aggressione fisica, intercorso con un socio di un'altra cooperativa veniva estromesso dal rapporto sociale, con conseguente automatica cessazione del relativo rapporto di lavoro subordinato, stante la gravità della sua condotta, lesiva dell'immagine della cooperativa.

In riforma della decisione di primo grado, la Corte d'Appello adita riteneva illegittima l'espulsione del socio lavoratore, sulla base del fatto che il comportamento addebitatogli non era sussumibile in alcuna delle ipotesi di esclusione tassativamente elencate nello statuto sociale, né poteva trovare applicazione il disposto del regolamento interno che consentiva l'applicabilità della sanzione disciplinare dell'esclusione dalla cooperativa solo in caso di recidiva. Peraltro, secondo la Corte territoriale, non era neppure risultato accertato nel corso del giudizio che si fosse davvero verificata l'aggressione fisica contestata. Pertanto, il giudice di secondo grado annullava il provvedimento espulsivo irrogato a carico del socio lavoratore ritenendo che, sulla base delle previsioni dello statuto e del regolamento interno della cooperativa, non fosse sufficiente un semplice diverbio, per quanto acceso, a rendere lecita l'estromissione di un socio, tanto più in assenza di precedenti rilievi di carattere disciplinare, con il conseguente travolgimento della risoluzione del rapporto di lavoro conseguente alla predetta estromissione.

Nelle motivazioni della propria decisione la Corte territoriale adita, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di prime cure, osservava che è inapplicabile al caso di specie la tutela reale di cui all'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Infatti, secondo l'interpretazione del giudice di secondo grado, l'art. 5, comma 2, della legge n. 142 del 2001, come sostituito dall'art. 9, comma 1, lettera d), della legge n. 30 del 2003, stabilisce che, una volta venuto meno il rapporto associativo, quello lavorativo si estingue automaticamente, senza che risulti necessario il perfezionamento di una causa risolutiva autonoma; ne consegue, a contrario, che l'illegittimità dell'atto estintivo del rapporto associativo comporta di per sé (cioè al di fuori degli schemi tipici di cui alle leggi n. 604 del 1966 e n. 300 del 1970) il ripristino del rapporto di lavoro in base alla disciplina relativa agli effetti dell'annullamento del negozio giuridico, senza che venga in discussione l'applicazione dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, che, peraltro, è espressamente esclusa dall'art. 2, comma 1, della predetta legge n. 142 del 2001. In considerazione di quanto precede, concludeva la Corte d'Appello adita, per effetto dell'annullamento ex tunc della delibera di espulsione dalla cooperativa (con conseguente risoluzione del rapporto di lavoro) al socio lavoratore non spettano il risarcimento e le indennità di cui all'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, ma solo un risarcimento commisurato alle retribuzioni dovute per il periodo intercorrente tra l'espulsione e la data in cui il socio lavoratore, esercitando il diritto di opzione di cui al predetto art. 18 - che pure non gli spettava - ha dimostrato per fatti concludenti di voler recedere dal rapporto di lavoro con la cooperativa.

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione interviene nella vicenda affermando in particolare che in tema di società cooperativa di produzione e lavoro, se la delibera di esclusione del socio è fondata esclusivamente sull'intervenuto licenziamento disciplinare, alla dichiarazione dell'illegittimità del licenziamento consegue la pari illegittimità della delibera di esclusione del socio. Pertanto, in base a quanto previsto dall'art. 2 della legge n. 142 del 2001, trova applicazione l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Infatti, tale disposizione (l'art. 2) prevede che ai soci lavoratori di cooperativa con rapporto di lavoro subordinato si applica lo statuto dei lavoratori (L. del 20 maggio 1970, n. 300), compreso l'art. 18 sulla reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato, salvo che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo. Sicché, qualora non si abbia che il rapporto di lavoro si sia risolto in ragione della cessazione del rapporto associativo, ma al contrario che quest'ultimo sia cessato a causa dell'intimato licenziamento del socio lavoratore, non ricorre la fattispecie eccettuata dell'indicato art. 2 e quindi trova applicazione la disciplina ordinaria sulla reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato (vedi, per tutte: Cass. 6 agosto 2012, n. 14143; Cass. 18 marzo 2014, n. 6224; Cass. 11 agosto 2014, n. 17868).

Secondo la Suprema Corte il suddetto indirizzo risulta applicabile anche al caso di specie, benché sia stata l'esclusione dal rapporto sociale a comportare il licenziamento, e non viceversa. Infatti, ciò che rileva è che si sia avuta l'estromissione dalla società, con conseguente risoluzione del rapporto di lavoro subordinato, per ragioni disciplinari e non per ragioni attinenti al rapporto societario e che tali ragioni si siano rivelate inidonee a comportare detta estromissione, con conseguente illegittimità anche della risoluzione del rapporto lavorativo.

In altri termini, ciò che conta è la sostanza e, nella sostanza, nel caso oggetto della pronuncia in commento si è avuto un licenziamento disciplinare illegittimo. Del resto, ragionando diversamente, alle cooperative sarebbe sufficiente comunicare l'esclusione dal rapporto sociale (implicante la risoluzione di quello lavorativo) per sottrarsi alle conseguenze di cui all'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, così violando quella che è la ragione principale della costituzione delle cooperative di produzione e lavoro, rappresentata dal permettere ai soci lavoratori di usufruire di condizioni di lavoro migliori rispetto a quelle disponibili sul mercato, sia in termini qualitativi che economici.

Ne deriva che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale, il caso oggetto della sentenza in commento - al pari di tutti i casi di estromissione dalla società del socio lavoratore subordinato, determinata da ragioni disciplinari con contestuale licenziamento - non rientra fra i casi in cui l'art. 2 della L. n. 142 del 2001 esclude l'applicabilità dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, dovendo tale esclusione essere limitata alle ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro derivante dalle cause di estromissione dalla società previste dallo statuto per ragioni attinenti al rapporto societario (diverse da quelle che possono determinare il licenziamento disciplinare), come, ad esempio, la mancata partecipazione ad un certo numero di assemblee o l'omesso versamento della quota sociale.




Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 10 febbraio 2014, n. 2550

Pres. Macioce; Rel. Ghinoy; P.M. Fresa; Ric. L.T.; Controric. B.C. s.r.l.;

Licenziamento per giusta causa - Obbligo di fedeltà - Ampiezza - Condotta extralavorativa - Rilevanza - Limiti - Attività contraria agli interessi del datore - Sussistenza

In tema di licenziamento per violazione dell'obbligo di fedeltà, il lavoratore deve astenersi dal porre in essere non solo i comportamenti espressamente vietati dall'art. 2105 cod. civ. ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa, ivi compresa la mera preordinazione di attività contraria agli interessi del datore di lavoro potenzialmente produttiva di danno.

NOTA - Nella fattispecie in esame il lavoratore ha impugnato il licenziamento per giusta causa intimatogli dalla società, di cui era dipendente e socio, per il compimento di atti di violenza nei confronti della moglie, parimenti socia. Oltre all'annullamento del recesso il lavoratore ha chiesto il riconoscimento della natura subordinata del rapporto per un precedente periodo e la condanna della società alla corresponsione di differenze retributive.

La Corte di Appello di Lecce, riformando parzialmente la sentenza di primo grado, ha condannato la società al pagamento del t.f.r. ed ha rigettato le altre richieste, riconoscendo, in particolare, la legittimità del licenziamento. Secondo la Corte territoriale i reiterati atti di violenza commessi nei confronti della moglie, sebbene non strettamente inerenti la prestazione lavorativa, avevano comportato il venir meno del rapporto fiduciario essendosi svolti anche all'interno dell'azienda ed in presenza di estranei ed avendo avuto come vittima uno dei soci.

Per la cassazione della sentenza il lavoratore ha proposto ricorso affidato a quattro motivi cui la società ha resistito con controricorso.

Per quanto rileva in questa sede il lavoratore ha censurato la statuizione per non avere i giudici di merito considerato che gli episodi di violenza contestatigli erano di scarsa importanza e, comunque, estranei al rapporto di lavoro.

Nel rigettare il motivo la Suprema Corte precisa che l'incidenza delle condotte addebitate sul rapporto fiduciario è stata puntualmente esaminata dalla Corte d'Appello, la quale ha, in primis, evidenziato che fosse quantomeno revocabile in dubbio che i comportamenti fossero da considerarsi solo extralavorativi, considerato che gli atti di violenza sono stati realizzati nei confronti della moglie che comunque era socia della società ed anche all'interno del luogo di lavoro.

In ogni caso, aderendo a specifici precedenti in termini, la Cassazione precisa che l'incidenza sul rapporto di lavoro delle condotte extralavorative non potrebbe comunque essere esclusa, avendo l'obbligo di fedeltà un contenuto più ampio di quello risultante dall'art. 2105 cod. civ., dovendo integrarsi con gli artt. 1175 e 1375 cod. civ., che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, che devono essere tali da non danneggiare il datore di lavoro (Cass. 18 giugno 2009, n. 14176).

Nell'affermare, quindi, il principio di cui alla massima, la Cassazione si richiama ad alcuni precedenti (Cass. 4 aprile 2005, n. 6957; Cass. 1 febbraio 2008, n. 2474) e chiarisce che gli artt. 2104 e 2105 cod. civ., non vanno interpretati restrittivamente e non escludono che il dovere di diligenza del lavoratore subordinato si riferisca anche ai vari doveri strumentali e complementari che concorrono a qualificare il rapporto obbligatorio di durata e si estenda a comportamenti che, per la loro natura e per le loro conseguenze, appaiano in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell'impresa (Cass. 16 febbraio 2011, n. 3822).

Secondo la Cassazione la Corte d'Appello ha correttamente applicato tali principi, laddove ha ritenuto che la condotta realizzata dal dipendente, per la sua natura violenta, la reiterazione, la qualità della vittima ed i suoi rapporti con la compagine societaria, il luogo nel quale è stata realizzata, la presenza di clienti, ripercuotesse irrimediabilmente i suoi effetti sul vincolo fiduciario che deve presiedere al rapporto di lavoro subordinato.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©