Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Distacco del lavoratore e riconoscimento della qualifica superiore

Patto di demansionamento e soppressione dell'attività lavorativa

Accordi transattivi e clausole generiche e/o omnicomprensive

Il rischio elettivo nell'infortunio sul lavoro

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Distacco del lavoratore e riconoscimento della qualifica superiore

Cass., sez. Lav., 8 settembre 2015, n. 17768

Pres. Amoroso; Rel. Balestrieri; P.M. Fresa; Ric. T.A.S.I. S.p.A.; Contr. X. P.

Distacco - Art. 2103 c.c. - Assegnazione mansioni superiori presso il distaccatario - Riconoscimento inquadramento superiore presso il distaccante - Necessità

Il distacco del lavoratore non comporta una novazione soggettiva e l'insorgenza di un nuovo rapporto con il beneficiario della prestazione lavorativa, ma solo una modificazione nell'esecuzione del rapporto, nel senso che l'obbligazione del lavoratore di prestare la propria opera viene (temporaneamente) adempiuta non in favore del datore di lavoro ma in favore del soggetto presso il quale il datore medesimo ha disposto, nel suo interesse, il distacco, cui sono temporaneamente delegati i connessi poteri direttivi e disciplinari. Ne consegue che in caso di adibizione del dipendente a mansioni superiori presso il distaccatario, in capo al distaccante si verificheranno le conseguenze di cui all'art. 2103 c.c.

Nota

La Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva la domanda di un lavoratore dipendente di una società italiana, temporaneamente distaccato presso una società ellenica, tesa ad ottenere la dichiarazione del suo diritto all'inquadramento nella qualifica dirigenziale dall'aprile 2001 e, conseguentemente, condannava il datore di lavoro al pagamento delle relative differenze retributive.

Avverso tale statuizione la società datrice di lavoro propone ricorso per cassazione denunciando la violazione degli artt. 2103, 2095 e 2697 c.c. Lamenta la ricorrente che erroneamente la corte di merito aveva ritenuto che le mansioni di direttore generale, formalmente attribuite al lavoratore dalla società greca presso cui il dipendente era stato distaccato, potevano comportare il riconoscimento della qualifica dirigenziale ex art. 2103 c.c., in quanto, assume la ricorrente, non era stato provato l'effettivo svolgimento di mansioni dirigenziali da parte del lavoratore distaccato.

La Corte di Cassazione respinge il ricorso sottolineando che, salvo il caso, non dedotto nella specie, in cui il distacco faccia sorgere un distinto ed autonomo rapporto con l'impresa distaccataria, il distacco del lavoratore non comporta una novazione soggettiva e l'insorgenza di un nuovo rapporto con il beneficiario della prestazione lavorativa, ma solo una modificazione nell'esecuzione del rapporto, nel senso che l'obbligazione del lavoratore di prestare la propria opera viene -temporaneamente - adempiuta non in favore del datore di lavoro ma in favore del soggetto presso il quale il datore medesimo ha disposto, nel suo interesse, il distacco, cui sono temporaneamente delegati i connessi poteri direttivi e disciplinari (cfr. Cass. del 21 novembre 2013, n. 26138). Ciò in quanto, la dissociazione tra il soggetto che ha proceduto all'assunzione del lavoratore e l'effettivo beneficiario della prestazione è consentita proprio nella misura in cui continui ad operare, sul piano funzionale, la causa del contratto di lavoro in corso con il distaccante, nel senso che il distacco realizzi uno specifico interesse imprenditoriale che consenta di qualificare il distacco quale atto organizzativo dell'impresa che lo dispone (cfr. Cass. del 22 gennaio 2015, n. 1168).

Ne consegue che ove si tratti, come nel caso di specie, di distacco con permanenza in capo al datore di lavoro distaccante del potere direttivo e disciplinare, in caso di adibizione del dipendente a mansioni superiori presso il distaccatario, nei confronti del distaccante si verificheranno le conseguenze di cui all'art. 2103 c.c., a differenza di quanto accade in caso di comando in materia di pubblico impiego (cfr. Cass. del 29 agosto 2014, n. 18460).

Essendo, infatti, il distacco disposto nell'interesse del distaccante e persistendo in capo a quest'ultimo il generale potere direttivo, grava sul distaccante l'onere di vigilare sulla esecuzione del rapporto di lavoro presso il distaccatario. Pertanto le modifiche funzionali del rapporto non possono non incidere sul rapporto di lavoro tra lavoratore distaccato e impresa distaccante.


 

Patto di demansionamento e soppressione dell'attività lavorativa

Cass., sez. Lav., 6 ottobre 2015, n. 19930

Rel. Patti; Pres. Macioce; Ric. B.A.; Controric. T.I. S.p.A.

Lavoro - Lavoro subordinato - Mansioni - Soppressione dell'attività lavorativa - Trasferimento - Rifiuto - Patto di demansionamento - Legittimità - Condizioni

E' legittimo il patto di demansionamento che, sottoscritto dal lavoratore che manifesti un consenso non affetto da vizi della volontà, ai soli fini di evitare un licenziamento, gli attribuisca mansioni inferiori a quelle per le quali era stato assunto o che aveva successivamente acquisito, in mancanza di diverse soluzioni alternative all‘estinzione del rapporto di lavoro: a tale condizione essendo equiparabile la fattispecie integrata da presupposti formali prodromici al licenziamento (quali, nel caso di specie, il rifiuto di trasferimento a sede di lavoro diverso, distante oltre centocinquanta chilometri da quella di precedente prestazione dell'attività lavorativa, non più ivi esercitabile nelle mansioni medesime o corrispondenti, per soppressione della relativa unità).

Nota

La sentenza in commento affronta la questione della legittimità, rispetto al disposto dell'art. 2103 c.c. nella sua versione precedente al D.Lgs. 81/2015, di un patto di demansionamento intervenuto a seguito della soppressione delle attività svolte dal ricorrente e del suo rifiuto a trasferirsi ad altra sede. Con sentenza della Corte d'Appello di Potenza il ricorrente si vedeva rigettare l'impugnazione avverso la sentenza di primo grado con la quale era stata esclusa l'illegittimità del demansionamento operato nei suoi confronti dalla Società datrice di lavoro. Secondo la Corte territoriale, infatti, non vi era stato nel caso di specie alcuna violazione dell'art. 2103 c.c. tenuto conto del fatto che le parti avevano raggiunto un accordo per assegnare il ricorrente a mansioni inferiori, vista la soppressione delle attività dallo stesso svolte presso la sede cui era addetto e il rifiuto di quest'ultimo in merito al trasferimento ad una sede di lavoro sita ad oltre 150 Km di distanza. La Corte rilevava la negoziabilità del diritto alla sede con quello alle mansioni. Infine, escludeva l'avveramento della clausola risolutiva del patto, consistente nell'opportunità di ricollocare nella giusta posizione il ricorrente.

Contro tale sentenza il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione lamentando, tra l'altro, violazione e falsa applicazione di numerose disposizioni del codice civile, tra cui gli artt. 2103 e 2113, oltre che del CCNL applicato al rapporto. Nello specifico il ricorrente deduceva la non derogabilità del divieto di adibizione a mansioni inferiori di cui all'art. 2103 c.c. se non per la conservazione del posto di lavoro e il vizio di motivazione della sentenza per aver assunto a fondamento della decisione di legittimo demansionamento elementi differenti da quest'ultimo.

La Corte di Cassazione ha dichiarato tali motivi infondati.

In particolare la Suprema Corte ha rilevato la legittimità del patto di demansionamento sulla base di una motivazione diversa rispetto a quella enunciata dalla Corte territoriale. Da una parte, infatti, ha sancito la possibilità di derogare all'art. 2103 c.c. solo per evitare il licenziamento, con ciò escludendo la negoziabilità del diritto alle mansioni col diritto alla sede di lavoro. Dall'altra ha, date per assodate la soppressione delle attività svolte dal ricorrente e il suo rifiuto al trasferimento (fatti accertati dalla Corte territoriale), rilevato che siffatta fattispecie si sarebbe risolta in un esito estintivo del rapporto a seguito del rifiuto ingiustificato del lavoratore al legittimo esercizio dello ius variandi da parte del datore, segnalando pertanto la piena equiparabilità di tale situazione di fatto con il demansionamento operato in mancanza di soluzioni alternative al licenziamento.

Conseguentemente, la Corte ha rigettato il ricorso enunciando, ex art. 384 c.p.c. il seguente principio di diritto: «E' legittimo il patto di demansionamento che, sottoscritto dal lavoratore che manifesti un consenso non affetto da vizi della volontà, ai soli fini di evitare un licenziamento, gli attribuisca mansioni inferiori a quelle per le quali era stato assunto o che aveva successivamente acquisito, in mancanza di diverse soluzioni alternative all‘estinzione del rapporto di lavoro: a tale condizione essendo equiparabile la fattispecie integrata da presupposti formali prodromici al licenziamento (quali, nel caso di specie, il rifiuto di trasferimento a sede di lavoro diverso, distante oltre cento cinquanta chilometri da quella di precedente prestazione dell'attività lavorativa, non più ivi esercitabile nelle mansioni medesime o corrispondenti, per soppressione della relativa unità)".


 

Accordi transattivi e clausole generiche e/o omnicomprensive

Cass., sez. Lav., 15 settembre 2015, n. 18094

Pres. Macioce; Rel. Amendola; P.M. Matera; Ric. I.S. S.p.a.; Contr. R.R.

Rinunce e transazioni - Genericità e/o omnicomprensività delle clausole dell'accordo - Volontà abdicativa - Consapevolezza - Inconfigurabilità - Efficacia negoziale - Valore di "quietanza a saldo"

Ai fini della validità di una rinuncia o di una transazione è necessario che l'accordo contenga una manifestazione consapevole di volontà abdicativa del lavoratore rispetto ai diritti cui l'atto si riferisce. Enunciazioni generiche e/o omnicomprensive, assimilabili alle clausole di stile, non sono di per sé sufficienti a comprovare alcuna volontà dispositiva dell'interessato, con la conseguenza che alle stesse, al più, può essere attribuito valore di "quietanza a saldo".

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi in materia di rinunce e transazioni e dei rapporti tra tali atti abdicativi e le mere "quietanze a saldo".

Nel caso in esame si controverteva su somme di cui il ricorrente chiedeva il riconoscimento a titolo di integrazione TFR (trattamento di fine rapporto), derivanti dall'incidenza su quest'ultimo che avrebbero dovuto avere i compensi percepiti dal ricorrente in costanza di distacco presso sedi estere. I giudici di merito avevano respinto l'eccezione di improponibilità/inammissibilità della domanda sollevata dalla Società resistente, fondata su un accordo transattivo sottoscritto dal ricorrente in una data antecedente rispetto a quella di cessazione del rapporto. In sostanza, il Tribunale - e su tale scia anche la Corte d'Appello - aveva ritenuto che l'atto abdicativo sottoscritto dal ricorrente, in quanto pre-esistente rispetto alla cessazione del rapporto di lavoro, non avrebbe potuto contenere rinunce a competenze non ancora liquidate; ciò in quanto nel momento di stipulazione dell'accordo transattivo il lavoratore non sapeva - né avrebbe potuto sapere - in che misura tali spettanze gli sarebbero state corrisposte, né tantomeno quali basi di calcolo sarebbero state prese come parametro. Piuttosto - proseguivano i giudici - nell'atto in questione, vista la genericità e l'indeterminatezza delle espressioni utilizzate, poteva al più essere ravvisata una "quietanza a saldo" della complessiva somma pattuita dal lavoratore a fronte del suo recesso anticipato dal rapporto di lavoro.

Venendo al merito della pronuncia, va detto che la Cassazione in primo luogo ribadisce l'orientamento secondo cui l'interpretazione di un atto negoziale è riservata all'esclusiva competenza del giudice del merito (da ultimo, v. Cass. 28 aprile 2015 n. 8586) ed i risultati di siffatta attività interpretativa soggiacciono al giudizio di Cassazione nei soli limiti del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale e del controllo della sussistenza di una motivazione logica e coerente (Cass. 27 febbraio 2009, n. 4851). Pertanto, la S.C. chiarisce ancora una volta che il sindacato di legittimità non copre i casi in cui il giudice del merito abbia privilegiato una certa interpretazione di un determinato atto negoziale, a discapito di un'altra (pur astrattamente possibile), ma soltanto quelli in cui sia dimostrata tanto l'invalidità dell'interpretazione adottata, attraverso l'allegazione dell'inesistenza o dell'assoluta inadeguatezza dei dati considerati, o anche solo delle regole giustificative utilizzate per condurre dagli elementi dati al risultato interpretativo che si assume viziato.

La Cassazione ritiene immune da vizi l'interpretazione che la Corte territoriale, confermando la sentenza di primo grado, ha dato all'accordo transattivo in questione, qualificato alla stregua di una "quietanza a saldo", sulla base del rilievo che nello stesso non si rinveniva alcuna rinuncia del ricorrente a che il c.d. "assegno di sede estera" venisse computato nella base di calcolo per il T.F.R., ma soltanto generiche dichiarazioni di «non avere null'altro a pretendere da…" e di «rinunciare … a qualsiasi diritto ed azione, anche giudiziale nei confronti di …, avente titolo, direttamente o indirettamente, nel rapporto di lavoro intercorso".

La Corte coglie quindi l'occasione per ribadire il noto orientamento secondo cui «la quietanza liberatoria rilasciata a saldo di ogni pretesa costituisce, di regola, una semplice manifestazione del convincimento soggettivo dell'interessato di essere soddisfatto di tutti i suoi diritti, e pertanto concreta una dichiarazione di scienza priva di alcuna efficacia negoziale" (Cass. 21 gennaio 2011, n. 2146); infatti, sempre a parere della Corte, «enunciazioni omnicomprensive sono assimilabili alle clausole di stile e non sono di per sé sufficienti a comprovare l'effettiva sussistenza di una volontà dispositiva dell'interessato" (Cass. 17 maggio 2006, n. 11536).

Unica eccezione a tale principio potrebbe aversi qualora dalla dichiarazione o aliunde sia possibile ravvisare gli estremi di una «rinunzia o transazione in senso stretto" (Cass. 6 maggio 2015, n. 9120): dunque, solo in presenza di «particolari elementi di interpretazione" da cui possa desumersi che la parte ha reso la dichiarazione de qua «con la chiara e piena consapevolezza di abdicare e transigere su propri diritti".

Tuttavia, quantomeno con specifico riferimento alle transazioni intervenute in occasione della risoluzione del rapporto di lavoro, la Corte esclude tale ultima ipotesi affermando in via generale che «a fronte dell'indicazione di un importo complessivo corrisposto una tantum, il lavoratore non può avere la piena cognizione della specifica imputazione di tale somme alle varie competenze spettanti in relazione alla risoluzione del rapporto sì da poter manifestare una volontà abdicativa rispetto alle stesse" (Cass. 19 aprile 2012, n. 6112).


 

Il rischio elettivo nell'infortunio sul lavoro

Cass., sez. Lav., 27 luglio 2015, n. 15700

Pres. Roselli; Rel. Manna; P.M. Mastroberardino; Ric. O.M. di R.E.&C. S.n.c.; Contr. M.M. e E.F. Gmbh&C.

Infortuni sul lavoro e malattie professionali - Responsabilità - Del datore di lavoro e dei dipendenti del datore di lavoro - Limiti - Esclusione della responsabilità del datore di lavoro - Condizioni - Abnormità e imprevedibilità della condotta del prestatore rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute - Necessità - Fattispecie.

Il c.d. rischio elettivo esonera il datore di lavoro da ogni responsabilità per l'infortunio patito dal dipendente ove questi abbia posto in essere un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell'evento, creando egli stesso condizioni di rischio estraneo a quello connesso alle normali modalità di lavoro da svolgere. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso che la condotta del lavoratore, infortunatosi mentre era intento nelle operazioni di installazione di una macchina palettizzatrice di 8 tonnellate di peso, avesse i caratteri dell'abnormità o dell'imprevedibilità, avendo, peraltro, il dipendente segnalato al proprio responsabile la pericolosità della situazione in cui si doveva posizionare la macchina stessa).

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Appalto - Responsabilità del committente per violazione delle norme di sicurezza del lavoro - Configurabilità - Condizioni - Fattispecie.

In materia di appalto, la responsabilità per la violazione dell'obbligo di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei prestatori di lavoro si estende al committente ove lo stesso si sia reso garante della vigilanza relativa alla misura da adottare in concreto e si sia riservato i poteri tecnico organizzativi dell'opera da eseguire.

Nota

La sentenza in commento trae spunto da una pronuncia della Corte d'Appello di Bologna che aveva confermato la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva condannato una società, officina meccanica, al risarcimento dei danni patiti da un proprio dipendente a seguito di infortunio sul lavoro. Tale infortunio, in particolare, era occorso all'interno della sede di una diversa azienda, presso la quale il dipendente era stato inviato in trasferta per l'esecuzione di un contratto d'appalto.

L'officina meccanica proponeva ricorso per cassazione lamentando come l'impugnata sentenza avesse trascurato la c.t.u., in base alla quale l'infortunio si sarebbe verificato unicamente per una condotta del tutto autonoma, abnorme e imprevedibile posta in essere dal lavoratore. Secondo l'assunto della ricorrente, al più, l'unica concorrente responsabilità poteva essere quella della società committente per aver consentito l'accesso in azienda in un giorno non lavorativo.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso richiamando un proprio costante orientamento secondo il quale il c.d. rischio elettivo esonera il datore di lavoro da ogni responsabilità per l'infortunio patito dal dipendente ove questi abbia posto in essere un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell'evento, creando egli stesso condizioni di rischio estraneo a quello connesso alle normali modalità di lavoro da svolgere.

Ebbene, nella fattispecie di cui è causa, la sentenza impugnata ha accertato come il lavoratore avesse segnalato al capo squadra la pericolosità della situazione in cui si doveva installare la macchina palettizzatrice e che il responsabile, pur di tanto informato dal capo squadra medesimo, aveva dato disposizioni affinché si procedesse ad installare il macchinario. Da ciò, afferma la Cassazione, la gravata pronuncia ha correttamente desunto che l'infortunio non si era verificato per una condotta del tutto autonoma, abnorme e imprevedibile del lavoratore e ciò a prescindere dal contrario avviso del c.t.u., non vincolate per il giudice di merito.

La Suprema Corte ha poi rilevato come la Corte d'Appello avesse correttamente escluso qualunque responsabilità in capo alla società committente per aver consentito l'accesso in azienda in un giorno non lavorativo, vuoi perché la committente non aveva alcun compito di coordinamento nell'installazione della macchina palettizzatrice, vuoi perché l'apertura dell'azienda in un giorno non lavorativo non ha avuto alcuna incidenza causale nella determinazione dell'infortunio.

Secondo l'insegnamento della Cassazione, infatti, in tanto il committente è tenuto a provvedere, all'interno del proprio cantiere, alle misure di sicurezza dei lavoratori non alle sue dipendenze, in quanto egli stesso si sia reso garante della vigilanza relativa alle misure da adottare in concreto, riservandosi i poteri tecnico-organizzativi dell'opera o del servizio da eseguire, situazione che l'impugnata sentenza ha motivatamente escluso nel caso di specie.


 

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass., sez. Lav., 16 luglio 2015, n. 14928

Pres. Vidiri; Rel. Nobile; P.M. Ceroni; Ric. F.; Controric. S.E. S.p.A.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Nuove assunzioni successive al licenziamento - Legittimità del recesso - Condizioni - Non equivalenza delle mansioni assegnate ai nuovi dipendenti con quelle svolte dal lavoratore licenziato - Prova - Onere a carico del datore di lavoro

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ove il datore di lavoro abbia assunto, successivamente al recesso, nuovo personale, è necessario, al fine di ritenere raggiunta la prova dell'inutilizzabilità "aliunde" del lavoratore licenziato, che il datore medesimo, su cui grava l'onere probatorio, indichi le assunzioni effettuate, il relativo periodo, le qualifiche e le mansioni affidate ai nuovi dipendenti e dimostri che queste ultime non siano da ritenersi equivalenti a quelle svolte dal lavoratore licenziato, tenuto conto della professionalità da questi raggiunta.

Licenziamento ritorsivo - Nullità - Presupposti - Motivo illecito determinante - Prova - Onere a carico del lavoratore - Sussistenza

Il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta - assimilabile a quello discriminatorio, vietato dagli artt. 4 della legge n. 604 del 1966, 15 della legge n. 300 del 1970 e 3 della legge n. 108 del 1990 - costituisce l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore licenziato, con conseguente nullità del recesso quando il motivo ritorsivo sia stato l'unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni.

Nota

La Corte d'Appello di Bologna, confermando la sentenza di primo grado, ha dichiarato la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad una lavoratrice a seguito della soppressione della posizione lavorativa dalla stessa ricoperta. La Corte territoriale, infatti, ha affermato che non erano stati allegati dalla lavoratrice elementi sintomatici di un intento ritorsivo e/o discriminatorio del licenziamento e che, piuttosto, il datore di lavoro aveva regolarmente offerto la prova sia dell'effettività della ragione dedotta a base del recesso (id est: riorganizzazione aziendale, decisa per far fronte ai negativi risultati di gestione, con soppressione di posizione lavorativa), sia dell'insussistenza di altre posizioni professionali equivalenti.

Avverso tale sentenza la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione articolato in plurimi motivi, con i quali, in particolare, censurava la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la sussistenza di un motivo discriminatorio e/o illecito di licenziamento e lamentava violazione degli artt. 3 e 5 della L. 604/1966, nonché vizio di motivazione, per avere la Corte di merito erroneamente ritenuto assolto l'onere della prova circa l'effettività della riorganizzazione aziendale e l'impossibilità di un repechage.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso rilevando, preliminarmente, che i motivi formulati, pur denunciando formalmente vizi di violazioni di legge, in realtà consistevano prevalentemente in censure di insufficienza ed incongruità della motivazione, risolvendosi gli stessi in un'ammissibile richiesta di revisione del ragionamento decisorio e dell'accertamento di fatto operati dalla Corte di merito. La Corte di legittimità ha, comunque, ritenuto l'accertamento di fatto compiuto dal giudice di merito immune dalle censure sollevate dalla ricorrente, in quanto pienamente conforme con i principi, ormai consolidati, in materia di riparto degli oneri probatori con riferimento sia al licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia al licenziamento ritorsivo; principi che la Suprema Corte ha ampiamente ripercorso nella sentenza de qua.

Più specificamente, con riguardo al licenziamento ritorsivo, la Corte ha ribadito il principio secondo cui l'onere probatorio del carattere discriminatorio del recesso grava sul lavoratore (Cass. 08/08/2011 n. 17087 e Cass. 18/03/2011 n. 62829) e che lo stesso può ritenersi assolto mediante la dimostrazione di elementi specifici, tali da far ritenere, con sufficiente certezza, l'intento di rappresaglia, il quale deve aver avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro (Cass. 05/08/2010, n. 18283). Con riferimento, poi, al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la Suprema Corte, richiamando principi ormai noti, ha affermato che sul datore di lavoro grava un duplice onere: quello di dimostrare la riferibilità del licenziamento alle effettive ragioni di carattere produttivo-organizzativo che lo hanno determinato (id est: nesso causale) e quello di provare l'impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale (Cass. 11/07/2011, n. 15157, Cass. 14/05/2012 n. 7474, Cass. 01/00/2013, n. 18416). Ha altresì precisato che, in caso di nuove assunzioni, la prova dell'inutilizzabilità "aliunde" del lavoratore può ritenersi assolta, purché il datore dimostri che le mansioni affidate ai nuovi dipendenti non siano equivalenti a quelle svolte dal lavoratore licenziato.

Ebbene, la Suprema Corte ha osservato come la Corte di merito ha fatto corretta applicazione dei surrichiamati principi, dal momento che la stessa ha accertato: a) la sussistenza del riassetto organizzativo (la società datrice, in ragione dei risultati negativi di gestione fino a quel momento ottenuti, affidava la direzione della struttura alberghiera ad una figura dirigenziale, capace di gestione autonoma nell'ambito delle direttive del C.d.A.); b) l'effettività della soppressione della posizione ricoperta dalla lavoratrice; c) la non equivalenza della nuova qualifica rispetto a quella ricoperta dalla lavoratrice, in ragione del diverso grado di autonomia decisionale.

La Suprema Corte ha ritenuto altresì incensurabile la pronuncia di merito nella parte in cui la stessa, a fronte dell'effettività della riorganizzazione illustrata nella lettera di licenziamento, ha ritenuto non dimostrato il carattere ritorsivo o discriminatorio del licenziamento da parte della lavoratrice.

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