Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Malattia e periodo di prova

Servizio di reperibilità in un giorno festivo

Indennità di lavoro notturno

Attività extralavorativa durante la malattia

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e repechage

Malattia e periodo di prova

Cass. Sez. Lav. 25 settembre 2015, n. 19043

Pres. Stile; Rel. Tricomi; P.M. Celeste; Ric. C.P.; Controric. P. I. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Costituzione del rapporto - Assunzione - Patto di prova - Periodo di prova pari ad un complessivo arco temporale - Giorni di mancata prestazione lavorativa - Incidenza - Fattispecie in tema di malattia

Il decorso di un periodo di prova determinato nella misura di un complessivo arco temporale, mentre non è sospeso dalla mancata prestazione lavorativa inerente al normale svolgimento del rapporto, quali i riposi settimanali e le festività, deve ritenersi escluso, invece, stante la finalità del patto di prova, in relazione ai giorni in cui la prestazione non si è verificata per eventi non prevedibili al momento della stipulazione del patto stesso, quali la malattia, l'infortunio, la gravidanza e il puerperio, i permessi, lo sciopero, la sospensione dell'attività del datore di lavoro e il godimento delle ferie annuali. Tale principio trova applicazione solo in quanto non preveda diversamente la contrattazione collettiva, la quale può attribuire od escludere rilevanza sospensiva del periodo di prova a dati eventi, che si verifichino durante il periodo medesimo.

Lavoro subordinato - Costituzione del rapporto - Assunzione - Patto di prova - Causa - Esperimento di convenienza - Ripetizione in sequenza di contratti - Legittimità - Condizioni

La ripetizione del patto di prova in due successivi contratti di lavoro tra le stesse parti è ammissibile se essa, in base all'apprezzamento del giudice di merito, risponda alla finalità di tutelare l'interesse di entrambe le parti del rapporto a sperimentarne la convenienza, permettendo all'imprenditore di verificare non solo le qualità professionali, ma anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all'adempimento della prestazione, elementi suscettibili di modificarsi nel tempo per l'intervento di molteplici fattori, attinenti alle abitudini di vita o a problemi di salute.

Nota

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d'Appello di Roma che, riformando la sentenza di primo grado, aveva rigettato la domanda della lavoratrice di impugnazione del licenziamento intimatole dalla società durante il periodo di prova.

In particolare, il Giudice di primo grado aveva ritenuto illegittimo il recesso per impossibilità di verificare se, alla data del licenziamento, il periodo di prova fosse decorso o meno, poiché intervallato da alcuni giorni di assenza per malattia, non specificati nella comunicazione di licenziamento. La Corte territoriale aveva poi riformato la sentenza di primo grado ritenendo legittimo il licenziamento poiché intimato prima del decorso del periodo di prova. Nella lettera di recesso, infatti, erano stati correttamente indicati i giorni di assenza per malattia computati ed era richiamata la disposizione del CCNL applicato al rapporto di lavoro, che prevede che il periodo di prova, di durata massima trimestrale, possa essere sospeso per causa di malattia per un periodo di massimo trenta giorni; dunque, erroneamente, il Tribunale aveva ritenuto impossibile verificare il decorso del periodo di prova.

La lavoratrice ha presentato ricorso per cassazione contestando la decisione impugnata per due motivi. Con il primo motivo di ricorso ha sostenuto che la Corte d'Appello non avrebbe dovuto tenere conto di alcuni dei giorni di malattia e che, in ogni caso, la malattia avrebbe dato luogo alla sospensione del periodo di prova solo laddove fosse stato il lavoratore a richiederlo. Sul punto, la Corte di Cassazione ha precisato che il decorso del periodo di prova determinato nella misura di un complessivo arco temporale deve ritenersi escluso, stante la finalità del patto di prova, in relazione ai giorni in cui la prestazione non si è verificata per eventi non prevedibili al momento della stipulazione del patto stesso, quale la malattia. Tale principio trova applicazione solo in quanto non preveda diversamente la contrattazione collettiva, la quale può attribuire od escludere rilevanza sospensiva del periodo di prova a dati eventi, che si verifichino durante il periodo medesimo (cfr. anche Cass. n. 4573/2012).

Nella specie, la Corte d'Appello aveva fatto corretta applicazione di tale principio, rilevando inoltre che il CCNL applicato al rapporto di lavoro stabiliva le modalità di sospensione del periodo di prova trimestrale in caso di malattia, senza richiedere particolari formalità. Ebbene, a detta della Corte di Cassazione, si tratta d'interpretazione di una disciplina contrattuale, unitamente ad un accertamento di fatto correttamente ed esaurientemente motivato, pertanto non suscettibile di censura in sede di legittimità.

Con il secondo motivo di ricorso la lavoratrice ha dedotto l'illegittimità del licenziamento per nullità del patto di prova, poiché avente ad oggetto mansioni identiche a quelle già espletate precedentemente, nell'ambito di un contratto di lavoro a tempo indeterminato a favore del medesimo datore di lavoro. Sul punto, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la ripetizione del patto di prova in due successivi contratti di lavoro tra le stesse parti è ammissibile se essa, in base all'apprezzamento del giudice di merito, risponda alla finalità di tutelare l'interesse di entrambe le parti del rapporto a sperimentarne la convenienza, permettendo all'imprenditore di verificare non solo le qualità professionali, ma anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all'adempimento della prestazione, elementi suscettibili di modificarsi nel tempo per l'intervento di molteplici fattori, attinenti alle abitudini di vita o a problemi di salute (cfr. anche Cass. n. 10440/2012).

Ebbene, sul punto la Corte d'Appello aveva precisato che la prestazione relativa al primo contratto di lavoro aveva avuto brevissima durata (soli tre mesi), e tra la cessazione di efficacia del primo contratto e l'inizio del secondo era trascorso un notevole lasso di tempo (circa sei anni e mezzo) durante il quale la strumentazione, le procedure e le modalità di svolgimento delle mansioni espletate dalla lavoratrice erano state ragionevolmente oggetto di trasformazione ed evoluzione. La Corte d'Appello aveva quindi congruamente e logicamente ritenuto sussistenti i presupposti che avrebbero legittimato la ripetizione della prova. Anche tale accertamento di fatto è stato adeguatamente motivato e pertanto, a detta della Corte di Cassazione, non è censurabile in sede di legittimità. Per tali motivi, il ricorso della lavoratrice è stato rigettato.




Servizio di reperibilità in un giorno festivo

Cass. Sez. Lav. 8 ottobre 2015, n. 20191

Pres. Venuti; Rel. De Marinis; P.M. Matera; Ric. A.D.R.; Controric. A.p. T.;

Lavoro subordinato - Servizio di reperibilità - Nozione - Servizio di reperibilità prestato durante il riposo settimanale - Attribuzione di un giorno di riposo compensativo - Configurabilità - Mancata concessione del giorno di riposo compensativo - Risarcimento del danno non patrimoniale - Danno in re ipsa Esclusione.

La reperibilità prevista dalla disciplina collettiva, si configura come una prestazione strumentale ed accessoria qualitativamente diversa dalla prestazione di lavoro, consistendo nell'obbligo del lavoratore di porsi in condizione di essere prontamente rintracciato, fuori del proprio orario di lavoro, in vista di un'eventuale prestazione lavorativa. Pertanto, il servizio di reperibilità svolto nel giorno destinato al riposo settimanale limita soltanto, senza escluderlo del tutto, il godimento del riposo stesso e comporta il diritto ad un particolare trattamento economico aggiuntivo stabilito dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, dal giudice nonché il diritto ad un giorno di riposo compensativo, che non è riconducibile, attesa la diversa incidenza sulle energie psicofisiche del lavoratore della disponibilità allo svolgimento della prestazione rispetto al lavoro effettivo, all'art. 36 Cost., ma la cui mancata concessione è idonea ad integrare un'ipotesi di danno non patrimoniale (per usura psico-fisica) da fatto illecito o da inadempimento contrattuale che è risarcibile in caso di pregiudizio concreto patito dal lavoratore, sul quale grava l'onere della specifica deduzione e della prova.

Nota

Un dipendente di un'amministrazione provinciale adiva il Giudice del lavoro per il risarcimento del danno biopsichico derivante dallo svolgimento del servizio di reperibilità in alcune giornate festive, senza aver poi usufruito di riposi compensativi.

Nei primi due gradi di giudizio il ricorso veniva rigettato in ragione del fatto che l'art. 49 d.P.R. 333/1990, nel riconoscere il diritto del lavoratore a giorni di riposi compensativi per lo svolgimento del servizio di reperibilità in giornate festive, subordinasse tale diritto alla richiesta del lavoratore, richiesta che invece il ricorrente non aveva mai avanzato.

Il lavoratore ricorreva in Cassazione, lamentando violazione e falsa applicazione dell'art. 36, comma 3, Cost. nonché dell'art. 49 d.P.R. 333/1990. Il lavoratore sosteneva che il sacrificio del mancato riposo settimanale e la conseguente usura psicofisica costituisce titolo autonomo di specifico risarcimento, senza necessità di ulteriore prova. In sostanza, la tesi del lavoratore era che il mancato godimento dei riposi compensativi comportasse un danno in re ipsa, per il cui risarcimento non era necessaria alcuna prova.

La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso del lavoratore ribadendo il principio di diritto (già affermato in Cass 14288/2011) secondo cui il c.d. servizio di reperibilità, consistente nell'obbligo del lavoratore di porsi in condizione di essere prontamente rintracciato, fuori del proprio orario di lavoro, in vista di un'eventuale prestazione lavorativa, se svolto nel giorno destinato al riposo settimanale, non esclude del tutto il godimento del riposo stesso ed ha quindi una minor incidenza sulle energie psicofisiche del lavoratore. Di conseguenza, il diritto al riposo compensativo per lo svolgimento del servizio di reperibilità in giornate festive non può trarre origine dall'art. 36, comma 3, Cost.

Lo svolgimento del servizio di reperibilità in giornate festive comporta solamente il diritto ad un particolare trattamento economico aggiuntivo stabilito dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, determinato dal giudice. Ove la disciplina collettiva, in aggiunta all'indennità di reperibilità, riconosca anche il diritto ad un riposo compensativo, la mancata concessione di tale riposo è idonea ad integrare un'ipotesi di danno non patrimoniale (per usura psico-fisica) che è risarcibile solo in presenza di un pregiudizio concreto che il lavoratore ha l'onere di dedurre e provare.




Indennità di lavoro notturno

Cass. Sez. Lav. 30 settembre 2015, n. 19465

Pres. Macioce; Rel. Buffa; P.M. Sanlorenzo; Ric. C.F.; Controric. C.A.D.D.P.;

Lavoro notturno - Indennità - Assegnazione a mansioni di guardiania diurna - Conservazione - Spettanza - Insussistenza

Il livello retributivo acquisito dal lavoratore subordinato, per il quale opera la garanzia della irriducibilità della retribuzione, prevista dall'art. 2103 c.c., deve essere determinato con il computo della totalità dei compensi corrispettivi delle qualità professionali intrinseche alle mansioni del lavoratore, attinenti cioè, alla professionalità tipica della qualifica rivestita, mentre non sono compresi i compensi erogati in ragione di particolari modalità della prestazione lavorativa o collegati a specifici disagi o difficoltà, i quali non spettano allorché vengano meno le situazioni cui erano collegati.

Nota

La Corte di appello di Bari, confermando la sentenza del tribunale di Trani, rigettava la domanda del lavoratore diretta ad ottenere la conservazione della retribuzione già percepita come guardiano notturno anche per il periodo di assegnazione a mansioni di guardiania diurna. Avverso tale decisione proponeva ricorso il lavoratore fondato su due motivi. In particolare il dipendente denunciava la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 2108 c.c., nonché l'omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, rilevando che la Corte territoriale aveva erroneamente ritenuto che l'assunzione come guardiano notturno non comportasse alcun diritto a continuare a ricevere l'indennità per il lavoro disagiato, di fatto corrisposta per circa un ventennio. La Suprema Corte rigettava il ricorso sulla base delle argomentazioni di seguito esposte. In primo luogo, la Suprema Corte evidenziava che il livello retributivo acquisito dal lavoratore subordinato, per il quale opera la garanzia della irriducibilità della retribuzione, prevista dall'art. 2103 c.c., deve essere determinato con il computo della totalità dei compensi corrispettivi delle qualità professionali intrinseche alle mansioni del lavoratore, attinenti cioè alla professionalità tipica della qualifica rivestita, mentre non sono compresi i compensi erogati in ragione di particolari modalità della prestazione lavorativa o collegati a specifici disagi o difficoltà, i quali non spettano allorchè vengano meno le situazioni cui erano collegati (in tal senso cfr. Cass. 5 settembre 2013, n. 20418; Cass. 23 luglio 2008, n. 20310; Cass. 8 maggio 2006, n. 10449; nonché con specifico riferimento alla questione del computo della maggiorazione per lavoro notturno nella base di calcolo della retribuzione per il periodo feriale v. Cass. 19 agosto 2004, n. 16261). Pertanto, la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte territoriale si fosse correttamente uniformata a tali principi laddove aveva escluso il diritto del dipendente alla conservazione dell'emolumento dovuto per il lavoro notturno al mutare delle modalità della prestazione lavorativa, non più destinata a svolgersi in orario notturno, senza che ciò avesse comportato la violazione né del contratto di lavoro, né dell'art. 2103 c.c., né del principio di irriducibilità della retribuzione. Ed infatti, ha osservato la Suprema Corte che l'indennità per lavoro notturno doveva considerarsi finalizzata a compensare la particolare modalità di prestazione dell'attività lavorativa e non già la professionalità tipica della qualifica rivestita, considerato, tra l'altro, che non vi era nel contratto una qualifica di guardiano notturno ma solo la qualifica di guardiano, la cui retribuzione risultava essere stata correttamente corrisposta.




Attività extralavorativa durante la malattia

Cass. Sez. Lav. 5 agosto 2015, n. 16465

Pres. Roselli; Rel. Roselli; P.M. Celentano; Ric. T. S.p.A.; Controric. G.D.S.;

Malattia del lavoratore - Svolgimento di attività extralavorativa durante la malattia - Condotta passibile di sanzione disciplinare - Condizioni - Messa in pericolo della ripresa del lavoro

Lo svolgimento di attivitaÌ extralavorativa in periodo di assenza dal lavoro per malattia costituisce illecito di pericolo passibile di sanzione disciplinare quando la ripresa del lavoro sia stata posta in pericolo, ossia quando il lavoratore si sia comportato in modo imprudente durante la malattia.

Nota

Nel caso di specie la Corte territoriale, in riforma della decisione del Giudice di prime cure, aveva annullato il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore per avere egli svolto, durante l'assenza dal lavoro per malattia, attività extralavorative potenzialmente incompatibili con lo stato morboso (colica addominale), ossia nel caso di specie tre immersioni per pesca subacquea. In particolare il Giudice di secondo grado aveva ritenuto che il fatto posto in essere dal lavoratore non costituisse un illecito disciplinare, posto che egli con il suo comportamento non aveva simulato lo stato patologico o pregiudicato la sua guarigione ed il conseguente rientro in servizio. Infatti, la malattia era stata constatata in occasione di due visite fiscali e il lavoratore aveva ripreso regolarmente servizio alla scadenza del periodo di malattia pronosticato.

Il datore di lavoro ha quindi proposto ricorso alla Corte di Cassazione avverso la predetta decisione di annullamento del suddetto licenziamento, rilevando, in particolare, circa la reale ricostruzione dei fatti nel caso di specie come la Corte d'Appello adita non avesse tenuto conto del fatto che, dopo avere ottenuto una prognosi della malattia fino ad una certa data e dopo essersi dedicato alla pesca subacquea in quella data, il lavoratore ottenne dal medico un prolungamento della prognosi, cosiÌ risultando non vero che egli riprese il lavoro alla prima scadenza prevista. Tale prolungamento dell'assenza dal lavoro costituiva, secondo il datore di lavoro, un indice della simulazione dello stato di malattia, il cui prolungamento era stato potenzialmente determinato dall'attività extralavorativa svolta dal lavoratore durante la malattia.

Con la sentenza in commento la Suprema Corte, in accoglimento del ricorso del datore di lavoro, afferma che lo svolgimento di attivitaÌ extralavorativa in periodo di assenza dal lavoro per malattia costituisce illecito di pericolo e non di danno. Tale illecito si configura non soltanto qualora l'attività extralavorativa svolta abbia effettivamente provocato un'impossibilitaÌ temporanea di ripresa del lavoro, ma anche quando la ripresa del lavoro sia stata posta in pericolo, ossia quando il lavoratore si sia comportato in modo imprudente durante l'assenza per malattia.

Ciò posto, la Corte di Cassazione cassa la sentenza di merito impugnata, ritenendo che la Corte d'appello adita avesse errato nel non aver valutato se la malattia addominale rappresentata dal lavoratore fosse prudentemente compatibile con la pesca subacquea, con la conseguenza che, nell'ipotesi in cui da tale valutazione (rimessa al Giudice del rinvio) dovesse emergere un'imprudenza del lavoratore, ciò sarebbe sufficiente a rendere la condotta contestata disciplinarmente sanzionabile, a prescindere dal fatto che l'attività extralavorativa svolta non abbia effettivamente provocato un'impossibilitaÌ temporanea di ripresa del lavoro.




Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e repechage

Cass. Sez. Lav. 6 ottobre 2015, n. 19923

Pres. Stile; Rel. Napoletano; P.M. Celeste; Ric. M.M.; Controric. F.C.C.I.D.N.;

Licenziamento - Giustificato motivo oggettivo - Soppressione del posto -Accertamento mediante presunzioni - Dichiarazioni delle rappresentanze sindacali aziendali - Ammissibilità - Obbligo repechage - Distribuzione onere probatorio - Allegazione da parte del lavoratore di posti in cui essere collocato - Necessità

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, compete al giudice - che non può, invece, sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 della Costituzione - il controllo in ordine all'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale il datore di lavoro ha l'onere di provare, anche mediante elementi presuntivi e indiziari, l'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte. Tale prova, tuttavia, non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell'accertamento di un possibile repechage, mediante l'allegazione dell'esistenza di altri posti di lavoro nei quale egli poteva essere utilmente ricollocato, e conseguendo a tale allegazione l'onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità dei posti predetti.

Nota

La Corte d'Appello di Brescia ha confermato la sentenza del tribunale di rigetto dell'opposizione promossa da un'infermiera avverso l'ordinanza con cui era stata respinta l'impugnativa del licenziamento intimatole per giustificato motivo oggettivo. In particolare la Corte territoriale ha ritenuto accertata la soppressione del posto di lavoro sulla base di quanto emerso durante incontri tra le parti sociali ed adempiuto l'obbligo di repechage stante il mancato accertamento di posizioni lavorative libere dello stesso livello della ricorrente e l'indisponibilità da lei manifestata a svolgere mansioni inferiori.

Avverso tale decisione la lavoratrice propone ricorso per Cassazione affidato a due motivi, lamentando, sostanzialmente, un'errata verifica da parte del giudice del merito dell'effettività della soppressione della posizione e dell'adempimento dell'obbligo di repechage.

La Suprema Corte respinge entrambe le censure - che esamina congiuntamente per motivi di connessione - affermando il principio di cui alla massima, oltremodo consolidato (Cass. 8 febbraio 2011 n. 3040; Cass 8 novembre 2013, n. 25197). In particolare la Cassazione ritiene corretto l'iter seguito dalla Corte territoriale laddove ha accertato la reale sussistenza della soppressione della posizione cui era addetta la ricorrente mediante elementi presuntivi tratti dagli incontri con le rappresentanze sindacali aziendali, evidenziando, tra l'altro, che l'avvenuta soppressione non era neanche contestata dalla lavoratrice. Parimenti corretta, secondo la Suprema Corte, la decisione di merito nella parte in cui ha ritenuto l'impossibilità di ricollocare utilmente la lavoratrice stante l'indisponibilità manifestata ad essere impiegata in mansioni inferiori e la totale mancanza di allegazione da parte della medesima dei posti in cui poter essere utilmente ricollocata, imprescindibile per il sorgere dell'obbligo del datore di lavoro di dimostrare la non utilizzabilità nei posti indicati.

Il ricorso viene, conseguentemente, rigettato.

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