Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento collettivo e criterio della prossimità alla pensione

Licenziamento collettivo e scelta dei lavoratori

Contratto a tempo determinato per ragioni sostitutive

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Trattamento economico dei lavoratori part-time

Licenziamento collettivo e criterio della prossimità alla pensione

Cass. Sez. Lav. 30 settembre 2015, n. 19457

Pres. Bandini; Rel. Bronzini; P.M. Celeste; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. G.C.

Licenziamento collettivo - Unicità del criterio di scelta - Prossimità alla pensione - Ambito di applicazione - Complesso aziendale - Necessità - Individuazione dei settori/reparti eccedentari - Comunicazione di avvio ex art. 4, comma 3, l. 223/1991 - Irrilevanza

In materia di collocamenti in mobilità e di licenziamenti collettivi, ove il criterio di scelta adottato nell'accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali sia unico e riguardi la possibilità di accedere al prepensionamento, tale criterio sarà applicabile a tutti i dipendenti dell'impresa a prescindere dal settore al quale gli stessi siano assegnati, restando perciò irrilevanti i settori aziendali di manifestazione della crisi cui il datore di lavoro ha fatto riferimento nella comunicazione di avvio della procedura.

Nota

La Corte d'Appello di Napoli, confermando la sentenza di primo grado, accoglieva la domanda, proposta da un lavoratore, volta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato all'esito di una procedura di riduzione del personale ex L. n. 223/1991, in quanto, sebbene il recesso fosse avvenuto in coerenza con il criterio di scelta adottato dalle organizzazioni sindacali, e cioè il possesso dei requisiti per la pensione di anzianità, lo stesso era cionondimeno illegittimo per carenza del nesso di causalità tra l'operazione imprenditoriale adottata e la riduzione di personale. Osservava, infatti, la Corte territoriale che per la Regione Campania non risultavano eccedenze relativamente alla posizione di quadro rivestita dal lavoratore e, anche a voler considerare l'intero quadro nazionale, tali eccedenze non emergevano al momento della risoluzione del contratto.

Avverso la predetta sentenza, il datore di lavoro proponeva ricorso per cassazione articolato in due motivi. Con il primo motivo denunciava violazione e falsa applicazione dell'art. 5, l. n. 223/1991, con riguardo alla determinazione dell'ambito di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità, affermando che l'unico criterio di scelta adottato con accordo sindacale (id est: possesso dei requisiti per l'accesso alla pensione) andava applicato a tutto il complesso aziendale ed all'intero organico e non ai soli settori e/o profili professionali individuati come eccedentari nella comunicazione iniziale di avvio della procedura. Con il secondo motivo, allegava violazione e falsa applicazione degli artt. 4, 5 e 24 L. n. 223/1991 sotto il profilo di un erroneo appiattimento del profilo causale del licenziamento collettivo sulla dichiarazione datoriale degli esuberi, senza tener minimamente conto dei reali e dichiarati profili finalistici della procedura.

La Suprema Corte, valutati unitariamente i suddetti motivi ha accolto il ricorso (cassando la sentenza impugnata e rigettando la domanda del lavoratore).

La Corte di legittimità, preliminarmente, ha dato atto dell'esistenza di un contrasto giurisprudenziale tra due orientamenti: 1) quello secondo il quale le esigenze tecnico-produttive di cui alla prima parte dell'art. 5, c. 1, L. n.223/1991 rilevano, indipendentemente dal criterio di scelta adottato ai sensi della seconda parte della stessa disposizione, come "limite dell'ambito" in cui detta scelta può essere operata, in relazione al quale va verificato, in sede giurisdizionale, il nesso causale tra il programma di ristrutturazione aziendale e lo specifico provvedimento di recesso, con la conseguenza che il criterio di scelta adottato sarà applicabile ai soli settori e/o profili professionali eccedentari così come individuati dal datore di lavoro nella comunicazione inziale ex art. 4, c. 3, L. n. 223/1991 (cfr. ex plurimis Cass. 03/10/2006, n. 21300; Cass. 09/10/2013, n. 22958; Cass. 20/09/2012, n. 15868); 2) quello secondo il quale, ove il criterio di scelta adottato nell'accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali sia unico e riguardi la possibilità di accedere al prepensionamento, lo stesso sarà applicabile a tutti i dipendenti dell'impresa, a prescindere dal settore al quale gli stessi siano assegnati, restando perciò irrilevanti i settori aziendali di manifestazione della crisi cui il datore di lavoro ha fatto riferimento nella comunicazione di avvio della procedura (cfr. ex plurimis Cass. 23/06/2014, n. 14170; Cass. 25/02/2013, n. 4667; Cass. 20/06/2012, n. 10126).

La Suprema Corte ha aderito a tale ultimo orientamento, al quale ha inteso dare continuità, ritenendo superfluo sottoporre la questione alle Sezioni Unite.

Ha osservato, infatti, la Corte che la soluzione adottata, soprattutto allorquando si verta (come nel caso di specie) in ipotesi di licenziamento collettivo dettato da esigenze di riduzione del costo del personale, è quella che meglio consente di salvaguardare la ratio sottesa alla disciplina ex L. 223/1991, ossia la tutela del lavoratore attraverso il ruolo di negoziazione e di controllo svolto dal sindacato (è ciò mediante sia la trattativa con la controparte durante la procedura, sia la definizione di criteri di scelta rispondenti a principi di equità e di trasparenza). Tale esigenza di tutela emerge ancor più chiaramente se si considera l'ordinamento sovranazionale, che ha voluto l'attribuzione alle OO.SS. di diritti informativi, codificati anche nella Carta di Nizza, che hanno un carattere strumentale essenziale per perseguire gli scopi garantistici di cui alla Direttiva75/129/Cee (recepita nella L. 223/1991).

La Corte di legittimità ha poi escluso la sussistenza di profili discriminatori nella vicenda in esame, avendo ritenuto il criterio di scelta adottato (id est: prossimità alla pensione) conforme al principio di ragionevolezza e non discriminazione (cfr. ex plurimis Cass. 01/12/2010, n. 24343; Cass. 26/09/2002, n. 13962; Cass. 02/09/2003, n. 12781).

La Suprema Corte ha, dunque, concluso che un'eventuale limitazione dell'applicazione del criterio di scelta adottato ai soli reparti o alle sole figure professionali indicate nell'atto di apertura della procedura non ha alcuna "finalità socialmente utile" nei licenziamenti collettivi, il cui scopo sia unicamente quello di una riduzione complessiva del numero dei dipendenti per ragioni di competitività e di efficienza economica.




Licenziamento collettivo e scelta dei lavoratori

Cass. Sez. Lav. 16 ottobre 2015, n. 21015

Pres. Amoroso; Rel. Balestrieri; P.M. Matera; Ric. S. s.r.l.; Contr. S.M.;

Licenziamento collettivo - Art. 4, L. 223/1991 - Lavoratori da collocare in mobilità - Criteri di scelta - Comparazione effettuata unicamente tra lavoratori addetti al reparto da sopprimere - Illegittimità

In tema di licenziamento collettivo per riduzione del personale, pur se il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo a un'unità produttiva o a un settore dell'azienda, il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti al reparto o settore ove sono ravvisati esuberi, se essi siano idonei - per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda - ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative.

Nota

Nel caso sottoposto all'esame della Suprema Corte, un lavoratore aveva convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale del lavoro di Cagliari, il proprio datore di lavoro al fine di ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento collettivo intimatogli. Il dipendente, dopo aver premesso che nei primi anni di assunzione aveva prestato attività in vari reparti della stessa azienda, deduceva che il recesso doveva ritenersi invalido per l'insufficiente comunicazione di cui all'art. 4, commi 9 e 12, L. 223/91, contenendo la stessa una mera elencazione dei lavoratori licenziandi e contestava, altresì, i criteri di scelta utilizzati per la loro individuazione. Il Tribunale accoglieva la domanda e la sentenza veniva confermata dalla Corte di appello di Cagliari.

Avverso la pronuncia della Corte di merito, la società propone ricorso per cassazione lamentando omessa e contraddittoria motivazione, in quanto il datore di lavoro sostiene di aver dimostrato di aver chiuso e soppresso un intero reparto autonomo, mettendo in mobilità tutte le figure lavorative ivi presenti. L'azienda evidenzia, inoltre, che secondo la giurisprudenza di legittimità, qualora il progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esclusivo ad una unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda, la comparazione dei lavoratori non deve necessariamente riguardare l'intera azienda, come erroneamente ritenuto dalla Corte di merito, ma solo gli addetti a quel reparto.

La Suprema Corte respinge il ricorso affermando che se è vero che talvolta la cassazione ha affermato che in caso di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo a un'unità produttiva o a un settore dell'azienda, la comparazione dei lavoratori, al fine di individuare quelli da avviare in mobilità, può essere limitata agli addetti dell'unità, reparto o settore da ristrutturare (Cass. del 20 febbraio 2012, n. 2429), è però altrettanto vero che i motivi della restrizione della platea dei lavoratori da comparare devono essere adeguatamente esposti nella comunicazione ex art. 4, comma 3, L. 223/91, circostanza di cui non vi è prova nel caso di specie.

In ogni caso, a parere della Corte, in base ad un orientamento più recente della sezione (Cass. del 12 gennaio 2015, n. 203), cui la Cassazione nella decisione in oggetto ritiene di aderire, il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti al reparto o settore ove sono ravvisati esuberi, se essi siano idonei - per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda - ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso, da parte degli stessi, di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative.




Contratto a tempo determinato per ragioni sostitutive

Cass. Sez. Lav. 8 ottobre 2015, n. 20186

Pres. Stile; Rel. Lorito; P.M. Mastroberardino; Ric. P. S.p.A.; Contr. C.S.;

Lavoro subordinato - Costituzione del rapporto - Durata del rapporto - A tempo determinato - In genere - Contratto di lavoro a tempo determinato per ragioni di carattere sostitutivo di altri dipendenti - Presupposti nelle situazioni aziendali complesse - Indicazione nominativa dei lavoratori da sostituire - Necessità - Esclusione - Specificazione delle ragioni della sostituzione - Necessità - Sussistenza - Modalità - Individuazione - Fattispecie.

In tema di assunzione a termine di lavoratori subordinati per ragioni di carattere sostitutivo, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 214 del 2009, con cui è stata dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 368 del 2001, l'onere di specificazione delle predette ragioni è correlato alla finalità di assicurare la trasparenza e la veridicità della causa dell'apposizione del termine e l'immodificabilità della stessa nel corso del rapporto. Pertanto, nelle situazioni aziendali complesse, in cui la sostituzione non è riferita ad una singola persona, ma ad una funzione produttiva specifica, occasionalmente scoperta, l'apposizione del termine deve considerarsi legittima se l'enunciazione dell'esigenza di sostituire lavoratori assenti - da sola insufficiente ad assolvere l'onere di specificazione delle ragioni stesse - risulti integrata dall'indicazione di elementi ulteriori (quali l'ambito territoriale di riferimento, il luogo della prestazione lavorativa, le mansioni dei lavoratori da sostituire, il diritto degli stessi alla conservazione del posto di lavoro) che consentano di determinare il numero dei lavoratori da sostituire, ancorchè non identificati nominativamente, ferma restando, in ogni caso, la verificabilità della sussistenza effettiva del prospettato presupposto di legittimità. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza della corte territoriale la quale, pur affermando che l'esigenza sostitutiva indicata in contratto risultava sufficientemente specificata, aveva ritenuto non dimostrato il collegamento fra detta causale e l'assunzione a termine dei lavoratori, non avendo la società fornito elementi al giudice per controllare l'esigenza delle sostituzioni per la causale addotta e la sua temporaneità, non essendo specificato il numero assenze e il nome dei sostituti. E ciò sebbene la società, fin dalla memoria di costituzione di primo grado, avesse allegato che i lavoratori avevano sostituito il personale titolare assente per ferie, malattia, permessi vari e con diritto alla conservazione del posto).

Nota

La sentenza in commento trae origine da una sentenza del Tribunale di Busto Arsizio con la quale veniva dichiarata la nullità dell'apposizione del termine a un contratto di lavoro per ragioni di carattere sostitutivo, correlate alla specifica esigenza di provvedere alla sostituzione di personale, addetto ad un determinato servizio, assente con diritto alla conservazione del posto.

La Corte d'Appello di Milano successivamente adita confermava la pronuncia di primo grado.

La società proponeva, quindi, ricorso per Cassazione lamentando che la sentenza impugnata non avrebbe valutato tutte le prove testimoniali offerte nel giudizio. Secondo l'assunto della società ricorrente, in particolare, la Corte territoriale avrebbe violato le disposizioni di legge che presiedono l'apprezzamento del materiale istruttorio affermando erroneamente che la società non avrebbe fornito elementi al giudice per controllare l'esigenza delle sostituzioni per la causale addotta e la sua temporaneità, non avendo indicato il numero delle assenze e/o i nomi dei dipendenti assenti nell'ufficio, né numero dei lavoratori a termine che hanno sostituito gli assenti.

La Cassazione ha accolto il ricorso richiamando un proprio consolidato orientamento secondo il quale in tema di assunzione a termine di lavoratori subordinati per ragioni di carattere sostitutivo, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 214 del 2009, con cui è stata dichiarata infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 368 del 2001, l'onere di specificazione delle predette ragioni è correlato alla finalità di assicurare la trasparenza e la veridicità della causa dell'apposizione del termine e l'immodificabilità della stessa nel corso del rapporto. Pertanto, nelle situazioni aziendali complesse, in cui la sostituzione non è riferita a una singola persona, ma a una funzione produttiva specifica, occasionalmente scoperta, l'apposizione del termine deve considerarsi legittima se l'enunciazione dell'esigenza di sostituire lavoratori assenti - da sola insufficiente ad assolvere l'onere di specificazione delle ragioni stesse - risulti integrata dall'indicazione di elementi ulteriori (quali l'ambito territoriale di riferimento, il luogo della prestazione lavorativa, le mansioni dei lavoratori da sostituire, il diritto degli stessi alla conservazione del posto di lavoro) che consentano di determinare il numero dei lavoratori da sostituire, ancorché non identificati nominativamente, ferma restando, in ogni caso, la verificabilità della sussistenza effettiva del prospettato presupposto di legittimità.

La Suprema Corte ha, peraltro, evidenziato di aver ripetutamente accolto i ricorsi delle società avverso le sentenze di merito che, disattendendo il criterio di elasticità dettato dal suddetto principio, avevano ritenuto non specifica la causale sostitutiva indicata in contratto (tra le altre, Cass. 17 gennaio 2012, n. 565; Cass. 4 giugno 2012, n. 8966).

Ebbene, nella fattispecie, la Corte territoriale, pur affermando che l'esigenza sostitutiva indicata in contratto risultava sufficientemente specificata, ha ritenuto non dimostrato il collegamento fra detta causale e l'assunzione a termine dei lavoratori, non avendo la società fornito elementi al giudice per controllare l'esigenza delle sostituzioni per la causale addotta e la sua temporaneità, non essendo specificato il numero delle assenze e il nome dei sostituti.

Secondo quanto affermato dalla Cassazione tale motivazione è contraria al principio di elasticità sopra ribadito, essendo in sostanza incentrata sulla necessità di una stretta corrispondenza tra la specifica assunzione a termine e la specifica assenza di un singolo dipendente, pur in una situazione aziendale complessa come quella in esame.

Invero, contrariamento a quanto affermato dalla Corte territoriale, la società, fin dalla memoria di costituzione di primo grado aveva allegato che i lavoratori avevano sostituito il personale titolare assente per ferie, malattia, permessi vari e con diritto alla conservazione del posto.

Alla luce dei suddetti principi, la Suprema Corte ha, dunque, ritenuto non condivisibile il ragionamento seguito dal giudice del merito laddove ha ritenuto non adeguatamente dimostrato il collegamento fra assunzione a termine e causale sostitutiva contrattuale.




Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 23 settembre 2015, n. 18780

Pres. Macioce; Rel. Buffa; P.M. Matera; Ric. D.S. G.; Contr. D.M. +1;

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Riassegnazione mansioni del lavoratore licenziato ad altro dipendente (in aggiunta a quelle già espletate) - Sussistenza del motivo di licenziamento - Insindacabilità giudiziale della scelta organizzativa - Obbligo di repechage - Onere della prova ripartito - Datore di lavoro: impossibilità di differente utilizzazione del lavoratore - Lavoratore: allegazione delle differenti posizioni su cui poteva essere ricollocato - Datore di lavoro: inutilizzabilità del lavoratore nelle posizioni indicate da quest'ultimo - Licenziamenti individuali plurimi - Criteri di scelta ex art. 5 l. 223/1991 - Inapplicabilità

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, sempre che risulti l'effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato, né essendo necessario, ai fini della configurabilità del giustificato motivo, che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere solo diversamente ripartite ed attribuite. Compete invece al giudice il controllo in ordine all'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale il datore di lavoro ha l'onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte; tale prova, tuttavia, non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell'accertamento di un possibile "repechage", mediante l'allegazione dell'esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato, e conseguendo a tale allegazione l'onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità nei posti predetti.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, soffermandosi in particolare sui profili della (non) sindacabilità giudiziale della scelta imprenditoriale da cui scaturisce la necessità di procedere al licenziamento e dell'obbligo di repechage, con interessanti precisazioni in relazione al relativo onere della prova.

Nel caso in esame era stato impugnato un licenziamento per motivi oggettivi, a cui era seguito l'affidamento ad altro lavoratore delle mansioni precedentemente affidate al dipendente licenziato. Inoltre, il suddetto recesso si inquadrava nell'ambito di una più generale operazione che, sebbene non avesse reso necessario aprire la procedura di licenziamento collettivo ex l. 223/1991 (probabilmente a causa dell'esiguità del numero dei lavoratori da licenziare), aveva comunque portato a c.d. "licenziamenti individuali plurimi". In ragione di ciò, un altro punto controverso riguardava l'eventuale necessità di rispettare dei criteri di scelta tra i lavoratori da licenziare, indipendentemente dall'apertura della procedura ex l. 223/1991.

La Cassazione coglie l'occasione per ribadire innanzitutto l'orientamento secondo cui la scelta imprenditoriale che si pone "a monte" del licenziamento - ad esempio, di sopprimere un settore o un reparto aziendale, o anche la sola posizione a cui era addetto l'ex dipendente - non è sindacabile da parte del Giudice, in quanto diretta espressione della libertà di iniziativa economica privata tutelata, in prima battuta, dall'art. 41 della Costituzione. Naturalmente, tutto ciò vale a condizione che risulti "l'effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato": in altre parole, la genuinità del motivo addotto.

Di sicuro interesse è poi la specificazione secondo cui, ai fini della sussistenza del giustificato motivo oggettivo, non è necessario "che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere solo diversamente ripartite ed attribuite", con ciò ritenendo legittima la scelta dell'imprenditore di licenziare un lavoratore le cui mansioni intenda sopprimere solo parzialmente, affidando contestualmente le residue ad altri dipendenti.

Con riguardo, invece, alla necessità - paventata dal dipendente - di applicazione dei criteri di scelta ex l. 223/1991, avendo la società proceduto al licenziamento di più lavoratori in relazione al medesimo mutamento organizzativo, la Corte, sia pure incidenter tantum, approfitta per affermare la "non automatica applicabilità dei criteri di scelta previsti dalla legge n. 223 del 1991 per i licenziamenti collettivi a licenziamenti individuali plurimi". Di conseguenza, secondo l'obiter dictum dei giudici di legittimità, il fatto che la Società non abbia - legittimamente - proceduto ad aprire la procedura ex l. 223/1991 consente alla stessa di sottrarsi dall'applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da tale norma previsti, in quanto la reiterazione di singoli licenziamenti per motivi oggettivi (si intende, nei limiti fissati dalla stessa l. 223/91) non è ritenuta sufficiente, di per sé, a "spostare" l'asse del singolo recesso sul piano, e sulle conseguenti tutele, anche procedurali, dei licenziamenti collettivi.

Infine, la Corte torna ad occuparsi dell'obbligo di repechage e della relativa ripartizione dell'onere della prova. Ed infatti, affermando che in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo "compete al giudice... il controllo in ordine all'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro", la Cassazione, da un lato, addossa al datore di lavoro "l'onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte", ma dall'altro richiede al lavoratore che agisce in giudizio impugnando il licenziamento una "collaborazione nell'accertamento di un possibile "repechage", consistente nella necessità di una puntuale allegazione dei posti di lavoro nei quali avrebbe potuto essere utilmente collocato. Solo a questo punto - una volta, cioè, che il lavoratore abbia dichiarato, nell'impugnativa (anche giudiziale) del licenziamento, le posizioni in relazione alle quali ritiene non essere stato rispettato il c.d. repechage - toccherà nuovamente al datore di lavoro dimostrare l'infondatezza dell'allegazione del lavoratore, ovvero l'inutilizzabilità dello stesso nei posti indicati.




Trattamento economico dei lavoratori part-time

Cass. Sez. Lav. 15 ottobre 2015 n. 20843

Pres. Venuti; Rel. Berrino; Ric. A. P. L. I. S.p.A.; Controric. P. C.;

Lavoro subordinato - Part-time - Divieto di discriminazione - Lavoratori comparabili - Individuazione - Criteri - Criterio della diversa turnazione - Inapplicabilità

In tema di lavoro a tempo parziale, il rispetto del principio di non discriminazione, di cui all'art. 4 del d.lgs. n. 61 del 2000, attuativo della direttiva 97/81/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo parziale, comporta che il lavoratore in regime di part-time non deve ricevere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno comparabile, che va individuato esclusivamente in quello inquadrato nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dai contratti collettivi di cui all'articolo 1, comma 3" dello stesso decreto (contratti collettivi nazionali stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, contratti collettivi territoriali stipulati dai medesimi sindacati e contratti collettivi aziendali stipulati dalle rappresentanze sindacali aziendali, di cui all'art. 19 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni). Ne consegue che, ai fini della suddetta comparazione, non sono ammissibili criteri alternativi, quale quello del sistema della turnazione continua ed avvicendata seguita dai lavoratori a tempo pieno.

Nota

Il caso in commento ha ad oggetto il divieto di discriminazione dei lavoratori assunti con contratto part-time rispetto a quelli comparabili a tempo pieno.

La lavoratrice, esattrice con contratto a tempo parziale, aveva richiesto ed ottenuto dal Tribunale di Milano la condanna della società datrice di lavoro al pagamento del differenziale retributivo per le maggiorazioni da lavoro notturno e notturno festivo riservate agli esattori a tempo pieno. La Corte d'Appello rigettava il ricorso della società ritenendo che l'art. 4 d.lgs. 61/2001, nel vietare la discriminazione dei lavoratori part-time rispetto a quelli a tempo pieno, imponeva la necessità di riconoscere al lavoratore a tempo parziale le medesime maggiorazioni riconosciute alle figure a tempo pieno analoghe, riproporzionate in ragione dell'entità della prestazione lavorativa.

Contro tale decisione proponeva ricorso in Cassazione la società datrice di lavoro sostenendo, tra l'altro, che le maggiorazioni in esame non fossero dovute ai lavoratori part-time sulla base della circostanza per cui questi ultimi lavoravano secondo una turnazione diversa rispetto a quella degli esattori a tempo pieno ("turni continui ed avvicendati") che, in base alla specifica disposizione del CCNL applicato, comportava l'applicazione delle maggiorazioni per lavoro notturno e notturno festivo. Sempre secondo la società, infatti, il bilancio lavoro/riposo degli esattori a tempo pieno che svolgono la prestazione secondo questa specifica turnazione (o altra espressamente prevista da altre disposizioni del CCNL) è più gravoso di quella degli esattori a tempo parziale e, pertanto, tale da giustificare l'erogazione delle maggiorazioni.

Concludeva la società affermando che, da un lato la Corte territoriale era incorsa in errore nell'affermare che la retribuzione della lavoratrice non era proporzionale a quella dei lavoratori a tempo pieno con turni continui e avvicendati in quanto la prima non era riconducibile a tale sistema di turnazione; dall'altra che il principio di non discriminazione non poteva riguardare la retribuzione globale e che, pertanto, nessuna violazione di tale divieto era ravvisabile nella fattispecie in esame poiché la retribuzione oraria della lavoratrice era la stessa spettante al lavoratore a tempo pieno comparabile.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. In particolare, la Cassazione ha esaminato congiuntamente, secondo un'interpretazione logico-sistematica, tutte le disposizioni rilevanti del CCNL applicato e non esclusivamente quella attributiva delle maggiorazioni in esame. Su tali basi la Corte ha affermato in primo luogo che, poiché il CCNL prevede la mera possibilità che il personale part-time sia escluso dalla turnazione a turni continui e avvicendati, è logico ritenere che questo tipo di turnazione non sia riferito al solo personale full-time; in secondo luogo che per turni continui e avvicendati debbano intendersi tutti i turni che, anche se intervallati da giorni di mancata prestazione (come nel caso del part-time verticale) e indipendentemente dallo schema di turnazione applicato, si ripetano nel tempo con le medesime modalità.

Conseguentemente, la Suprema Corte ha ritenuto che le maggiorazioni previste dal CCNL applicato per i turni continui e avvicendati fossero applicabili anche al personale part-time.

Sempre secondo la Corte, una diversa interpretazione porterebbe ad una violazione del divieto di discriminazione di cui all'art. 4 d.lgs. 61/2001 in quanto il lavoratore a tempo pieno comparabile con quello part-time "va individuato esclusivamente in quello inquadrato nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dai contratti collettivi", non essendo ammissibili criteri alternativi per la comparazione "quale quello del sistema della turnazione (...)".

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