Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Infortunio sul lavoro e onere di provare la perdurante inabilità temporanea

Lettera di licenziamento

Licenziamento per giusta causa

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

La nozione di trasferta e dei c.d. trasfertisti abituali

Infortunio sul lavoro e onere di provare la perdurante inabilità temporanea

Cass., Sez. Lav., 6 novembre 2015, n. 22726

Pres. Roselli; Rel. Manna; P.M. Matera; Ric. A. S.p.A.; Controric. M.L.P.;

Lavoro subordinato - Infortunio del lavoratore - Allontanamento del lavoratore dalla propria abitazione e ripresa di attività della vita privata - Licenziamento individuale - Giusta causa - Configurabilità - Esclusione - Onere del lavoratore di provare la perdurante inabilità lavorativa - Esclusione - Onere del datore di lavoro - Contenuto

In tema di licenziamento per giusta causa, la condotta del lavoratore che si sia allontanato dalla propria abitazione e abbia ripreso a compiere attività della vita privata - la cui gravosità non è comparabile a quella di una attività lavorativa piena - non è idonea a configurare un inadempimento ai danni dell'interesse del datore di lavoro, dovendosi escludere che gravi in capo al lavoratore l'onere di provare, a ulteriore conferma della certificazione medica, la perdurante inabilità temporanea rispetto all'attività lavorativa, laddove è a carico del datore di lavoro la dimostrazione che, in relazione alla natura degli impegni lavorativi attribuiti al dipendente, il suddetto comportamento contrasti con gli obblighi di buona fede e correttezza nell'esecuzione del rapporto di lavoro.

Nota

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso promosso dalla società datrice di lavoro, e confermato la decisione della Corte d'Appello di Lecce che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad una dipendente.

In particolare, il licenziamento era stato intimato alla lavoratrice per essersi, durante una prolungata assenza dal lavoro causata da un infortunio in itinere, allontanata dalla propria abitazione per svolgere attività inerenti alla sua vita privata.

La Corte d'Appello aveva accertato, sulla scorta di apposita consulenza tecnica d'ufficio, la compatibilità tra le attività extra-lavorative in questione e le condizioni di salute della lavoratrice, escludendo sia che lo stato di inabilità al lavoro conseguente all'infortunio fosse stato fraudolentemente simulato sia che le attività extra-lavorative svolte durante il periodo di assenza avessero in qualche modo ritardato il recupero, da parte della lavoratrice, dell'efficienza psico-fisica necessaria alla ripresa del lavoro.

Sempre in base all'accertamento peritale, era stato altresì escluso che tali attività extra-lavorative fossero equiparabili, quanto all'impegno psico-fisico richiesto, alle normali prestazioni di lavoro, avendo la Corte territoriale evidenziato che le seconde prevedevano vincoli di orari ed impegni funzionali di maggior rilievo.

La società ha impugnato la sentenza di secondo grado nel punto in cui ha ritenuto non raggiunta la prova della giusta causa di licenziamento, affermando che grava sul lavoratore l'onere di provare l'incompatibilità dell'infortunio con la prestazione di lavoro e che tale onere, nel caso di specie, non era stato assolto.

Tale motivo, a detta della Corte, è infondato, poiché come già statuito in altre occasioni (cfr. Cass. n. 6375/2011) il lavoratore non ha l'onere di provare, ad ulteriore conferma della certificazione medica, la perdurante inabilità temporanea rispetto all'attività lavorativa, mentre è a carico del datore di lavoro la dimostrazione che, in relazione alla natura degli impegni lavorativi attribuiti al dipendente, il suo allontanarsi dall'abitazione per compiere attività relative alla vita privata contrasti con gli obblighi di buona fede e correttezza nell'esecuzione del rapporto lavorativo; e tale onere, nel caso di specie, non era stato assolto dalla società.

Per il resto, la società ha impugnato la sentenza di secondo grado censurando sostanzialmente nel merito la consulenza tecnica d'ufficio, e protestandone l'acritica condivisione da parte della Corte territoriale.

La Corte di Cassazione ha ritenuto anche tale motivo infondato, rilevando innanzitutto che la sentenza di secondo grado non aveva riportato in maniera acritica le conclusioni del c.t.u., ma aveva anzi argomentato quanto evidenziato nell'accertamento peritale, rilevando in particolare che l'impegno funzionale dell'organismo è senza dubbio minore allorquando il soggetto non sia sottoposto agli stringenti ritmi della prestazione lavorativa, ma possa gestire le attività con maggiore elasticità, magari alternando riposi ad intervalli regolari al fine di non affaticare troppo l'organismo.

In ogni caso, a detta della Corte, il motivo di impugnazione della società, consistente in un'inammissibile critica del convincimento del giudice di merito, non rientra tra i vizi deducibili con il ricorso per cassazione, poiché, per costante insegnamento della Corte, "può ravvisarsi un difetto di motivazione nella sentenza che abbia aderito alle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio solo in caso di palese deviazione dalle nozioni correnti della scienza medica - la cui fonte va indicata dal ricorrente - o nell'omissione degli accertamenti strumentali dai quali, secondo le predette nozioni, non si possa prescindere per la formulazione di una corretta diagnosi" (cfr. ex aliis Cass. n. 5748/2015).

Per tali motivi, il ricorso della società è stato rigettato.



Lettera di licenziamento

Cass., Sez. Lav., 6 novembre 2015, n. 22717

Pres. Venuti; Rel. Doronzo; P.M. Mastroberardino; Ric. M.C.; Controric. J. S.p.A.;

Licenziamento individuale - Potere del soggetto che sottoscrive la lettera di licenziamento - Carenza del potere di rappresentanza del datore di lavoro - Nullità del licenziamento - Esclusione - Ratifica con effetto retroattivo ex art. 1399 c.c. mediante costituzione in giudizio - Applicabilità al licenziamento

La carenza del potere di rappresentanza in capo al soggetto che sottoscrive la lettera di licenziamento può essere legittimamente sanata dal datore di lavoro che, attraverso la costituzione in giudizio, manifesta la volontà di volersi avvalere dell'atto di recesso. La disciplina dettata dall'art. 1399 c.c., che prevede la possibilità di ratifica, con effetto retroattivo ma con salvezza dei diritti dei terzi, del contratto concluso dal soggetto privo di rappresentanza, eÌ applicabile anche ai negozi unilaterali, come il licenziamento, in virtù dell'art. 1324 c.c., che, facendo salve diverse disposizioni, estende a tali atti le norme, in quanto compatibili, regolanti i contratti.

Nota

La Corte d'Appello di Roma confermava la decisione di primo grado che aveva rigettato il ricorso di un lavoratore avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento, intimatogli dal proprio datore di lavoro per soppressione della posizione.

La Corte d'Appello considerava infondata l'eccezione di nullità del licenziamento perché intimato da soggetto privo del relativo potere, dal momento che il datore di lavoro, con la costituzione in giudizio, aveva validamente manifestato la volontà di avvalersi dell'atto di recesso. Veniva poi considerata infondata anche l'eccezione di inefficacia del licenziamento in pendenza della malattia perché il certificato medico era stato inviato solo successivamente al rifiuto del lavoratore di ricevere la consegna a mani della lettera di recesso.

Avverso tale sentenza il dipendente ricorreva in Cassazione; il datore di lavoro resisteva con controricorso.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso ribandendo il principio di diritto (già affermato in Cass., 1° dicembre 2008, n. 28514 e Cass., 18 novembre 2003, n. l746l) secondo cui la disciplina di cui all'art. 1399 c.c., che prevede la possibilità di ratifica, con effetto retroattivo ma con salvezza dei diritti dei terzi, del contratto concluso dal soggetto privo di rappresentanza, è applicabile anche ai negozi unilaterali, come il licenziamento, in virtù dell'art. 1324 c.c., che, facendo salve diverse disposizioni, estende a tali atti le norme, in quanto compatibili, regolanti i contratti. Di conseguenza, la Corte di Cassazione ha confermato che il datore di lavoro, attraverso la costituzione in giudizio e l'opposizione alla domanda di illegittimità del licenziamento promossa dal lavoratore, ha pienamente e legittimamente ratificato l'operato del soggetto che aveva sottoscritto l'atto di recesso.

Con riguardo all'irrilevanza del certificato medico, inviato successivamente al rifiuto del dipendente di ricevere la consegna a mani della lettera di recesso, la Suprema Corte ha ribadito che il rifiuto di una prestazione da parte del destinatario non può risolversi a danno dell'obbligato, inficiandone l'adempimento. Principio che, nell'ambito del rapporto di lavoro, comporta l'obbligo del lavoratore di ricevere le comunicazioni, anche formali, sul posto di lavoro c durante l'orario di lavoro, in dipendenza del potere direttivo e disciplinare al quale è sottoposto. L'onere, gravante sul datore di lavoro, di provare la consegna a mani della lettera di licenziamento e il rifiuto del lavoratore di sottoscriverla per ricevuta, può essere assolto mediante prova per testi.



Licenziamento per giusta causa

Cass., Sez. Lav., 13 ottobre 2015, n. 20543

Pres. Amoroso; Rel. Napoletano; P.M. Servello; Ric. F.D.; Controric. F.G.A. S.p.A.;

Giusta causa - Licenziamento - Proporzionalità della sanzione - Idoneità della condotta a porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento - Sussistenza - Legittimità

Ai fini della proporzionalità della sanzione del licenziamento per giusta causa, la condotta del prestatore di lavoro deve essere presa in considerazione sotto il profilo del valore sintomatico che la stessa può assumere rispetto ai futuri comportamenti del lavoratore, nonché all'idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e ad incidere sull'elemento essenziale della fiducia sottesa al rapporto di lavoro, tenuto conto della specificità dei compiti affidati al lavoratore medesimo.

Nota

La Corte di Appello di Torino, riformando la sentenza del giudice di primo grado, rigettava la domanda del lavoratore avente ad oggetto l'impugnativa del licenziamento per giusta causa intimatogli dalla società datrice per aver visionato a lungo, in orario di lavoro, un pc portatile, introdotto senza autorizzazione, ed aver fumato due sigarette preparate con sostanze stupefacenti.

A fondamento del decisum la Corte di merito rilevava che la sanzione adottata doveva ritenersi proporzionata rispetto al comportamento addebitato poiché, avuto riguardo al contenuto specifico delle mansioni di manutentore svolte dal lavoratore, il comportamento tenuto dallo stesso, oltre a contrastare con i doveri di diligenza e fedeltà connessi al suo inserimento nella struttura e nell'organizzazione aziendale, faceva venir meno, in maniera irreversibile, la fiducia che il datore di lavoro doveva porre nella corretta esecuzione delle future prestazioni lavorative.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore sulla base di un unico motivo di censura.

In particolare, il ricorrente deduceva violazione dell'art. 2119 c.c., nonchè contraddittorietà ed insufficienza della motivazione, evidenziando che la Corte territoriale aveva erroneamente ritenuto sussistenti gli estremi di gravità dell'inadempimento idonei a giustificare il recesso per giusta causa.

La Suprema Corte ha confermato la sentenza della Corte di appello.

Nello specifico la Suprema Corte ha osservato che la Corte territoriale, con motivazione formalmente logica ed adeguata, al fine di verificare la proporzionalità della sanzione del licenziamento, aveva correttamente preso in considerazione la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che poteva assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all'idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e ad incidere sull'elemento essenziale della fiducia sotteso al rapporto di lavoro (cfr. Cass. 18 settembre 2014, n. 19864; Cass. 12 dicembre 2012, n. 22798).

La Suprema Corte ha altresì rilevato che, in tale contesto, altrettanto correttamente la Corte di appello aveva tenuto conto della specificità dei compiti affidati al lavoratore (individuazione dei guasti e dei malfunzionamenti delle macchine e degli impianti), rispetto ai quali, il comportamento addebitato, è stato ritenuto idoneo a far venire meno irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro nella correttezza delle future prestazioni lavorative (cfr. Cass. 8 agosto 2011, n. 17092).



Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass., Sez. Lav., 12 ottobre 2015, n. 20420

Pres. Stile; Rel. Ghinoy; P.M. Sanlorenzo; Ric. P.I.; Controric. S. s.r.l.;

Licenziamento - Giustificato motivo oggettivo - Riorganizzazione aziendale - Soppressione della posizione - Assenza di altre misure volte al ridimensionamento - Legittimità

Il nesso di causalità tra la dimostrata situazione oggettiva e non transeunte di crisi aziendale ed il licenziamento, unitamente all'impossibilità di utile ricollocazione del dipendente, sono sufficienti a rendere legittimo il recesso, non essendo richiesto, specie in realtà aziendali di piccole dimensioni, che il ridimensionamento assuma caratteri strutturali più ampi rispetto alla soppressione del posto del lavoratore licenziato.

Nota

La Corte d'Appello di l'Aquila ha confermato la sentenza del Tribunale di Pescara di rigetto dell'impugnativa proposta da un dipendente avverso il licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo consistente nella drastica riduzione della clientela e nell'impossibilità di raggiungere gli obiettivi prefigurati.

Avverso tale decisione il lavoratore propone ricorso per Cassazione articolato in due motivi, dolendosi, con il primo, della ridotta entità e contingenza della contrazione delle vendite che aveva condotto al suo licenziamento nonché del fatto che quest'ultimo era stato l'unico provvedimento in cui si era sostanziata la ristrutturazione aziendale, e, con il secondo, della mancata valorizzazione, ai fini del repechage, del richiamo in servizio di un lavoratore già andato in quiescenza.

La Suprema Corte, dopo aver dichiarato l'inammissibilità di entrambi i motivi per la mancata formulazione del quesito di diritto richiesto ratione temporis, ne rileva, comunque, l'infondatezza, sottolineando che la Corte territoriale ha basato il suo decisum su una serie di circostanze a suo dire sufficienti per integrare il giustificato motivo oggettivo di recesso, ovvero: a) il mancato verificarsi del presupposto fattuale che avrebbe dovuto determinare un significativo incremento delle vendite e che aveva indotto la società ad assumere il ricorrente; b) l'effettiva perdita di esercizio; c) l'essere il ricorrente il dipendente con minore anzianità aziendale; d) l'irrilevanza del richiamo in servizio di altro dipendente andato in quiescenza perché risalente rispetto al recesso e, comunque, inerente lavoratore addetto ad altre mansioni e con un'anzianità di servizio ben superiore a quella del ricorrente; e) l'irrilevanza della ridotta percentuale del calo delle vendite di fatto prodottosi, dato che esso si era accompagnato ad un significativo decremento delle vendite della auto nuove rispetto alle usate, le quali avevano un margine di guadagno molto più ristretto; f) la mancata indicazione da parte del ricorrente di utili posizioni in cui essere ricollocato; l'inesistenza di altre assunzioni successivamente al licenziamento in questione.

La Cassazione rileva che, a fronte di tale motivazione, i motivi di ricorso proposti sono volti unicamente a proporre una diversa lettura degli atti e dei documenti già analizzati, ovvero una rivalutazione del merito, notoriamente inammissibile in sede di legittimità, quando - come nel caso di specie - la decisione è giuridicamente corretta e logicamente coerente. Viene, pertanto affermato il principio di cui alla massima evidenziandosi che la scelta della soluzione organizzativa idonea a fronteggiare le regioni inerenti l'attività produttiva ed il suo assetto sono integralmente rimesse all'autonomia imprenditoriale.

Il ricorso viene, pertanto, integralmente rigettato.



La nozione di trasferta e dei c.d. trasfertisti abituali

Cass., Sez. Lav., 15 ottobre 2015, n. 20833

Pres. Stile; Rel. Tria; P.M. Celentano; Ric. B. D.; Controric. INPS;

Trasferta - Nozione - Caratteristiche - Temporaneo mutamento del luogo di lavoro rispetto alla sede abituale - Ordine di servizio del datore di lavoro - Necessità - Consenso del lavoratore - Irrilevanza

Trasferta - Trasfertisti abituali - Nozione - Sistematico e professionale svolgimento della prestazione lavorativa fuori dalla sede aziendale

La nozione di trasferta eÌ caratterizzata dal trasferimento del lavoratore in un luogo diverso da quello abituale per svolgere l'attività lavorativa, nonché dalla temporaneità del mutamento del luogo di lavoro, dalla necessità che la prestazione lavorativa sia effettuata in esecuzione di un ordine di servizio del datore di lavoro e dalla irrilevanza del consenso del lavoratore.

In materia di trasferta, sono considerati trasfertisti abituali i lavoratori subordinati destinati a svolgere sistematicamente e professionalmente la propria attività quasi interamente al di fuori dalla sede aziendale.

Nota

La pronuncia in commento muove da una fattispecie di mancato assoggettamento contributivo da parte del datore di lavoro di somme erogate a titolo di indennità di trasferta. In particolare, nel caso di specie ad alcuni operatori di vendita erano state erogate dal datore di lavoro varie somme a titolo indennitario, senza il versamento della relativa contribuzione previdenziale. Tali somme si riferivano alle prestazioni svolte dai predetti operatori nei giorni di consegna e vendita dei prodotti aziendali al di fuori del territorio del Comune presso il quale si trovava la loro sede di lavoro.

La Corte di merito, a fronte di una prestazione lavorativa consistente nell'effettuazione quotidiana e potenzialmente per tutta la giornata lavorativa di giri programmati e giornalieri all'esterno dell'unità locale di assegnazione con uso di apposito automezzo, inquadrava l'attività dei suddetti lavoratori nella categoria dei c.d. "trasfertisti", con la conseguenza che il datore di lavoro non poteva esimersi dal versamento degli oneri retributivi e contributivi previsti per tale istituto.

Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione, confermando quanto statuito dalla Corte territoriale, afferma che la nozione di trasferta eÌ caratterizzata dal trasferimento del lavoratore in un luogo diverso da quello abituale per svolgere l'attività lavorativa, nonché dalla temporaneità del mutamento del luogo di lavoro, dalla necessità che la prestazione lavorativa sia effettuata in esecuzione di un ordine di servizio del datore di lavoro e dall'irrilevanza del consenso del lavoratore.

Nell'ambito della fattispecie della trasferta sono considerati "trasfertisti abituali" i lavoratori subordinati destinati a svolgere sistematicamente e professionalmente la propria attività quasi interamente al di fuori dalla sede aziendale (Cass. 20 dicembre 2005, n. 28162; Cass. 11 dicembre 2013 n. 27643; Cass. 21 agosto 2013, n. 19359; nonché Cass. 4873/13; Cass. 1583/10; Cass. 15767/00).

A fronte della riconducibilità delle posizioni dei lavoratori di cui alla fattispecie oggetto della sentenza in esame nell'ambito dei c.d. trasfertisti abituali, andava dunque riconosciuto a detti lavoratori il corrispondente trattamento retributivo, con conseguente assoggettamento contributivo delle somme corrisposte.

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