Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Adibizione a mansioni inferiori e licenziamento

Licenziamento per giusta causa/1

Licenziamento per giusta causa/2

Termini di impugnazione del licenziamento

Oneri probatori differenti per il datore a seconda delle misure di sicurezza violate

Adibizione a mansioni inferiori e licenziamento

Cass. Sez. Lav. 19 novembre 2015, n. 23698

Pres. Rel. Napoletano; P.M. Celeste; Ric. B. S.p.A.; Controric. B.G.

Lavoro subordinato - Scelte imprenditoriali comportanti processi di ristrutturazione aziendale - Adibizione del lavoratore a mansioni inferiori - Contrasto con l'art. 2103 c.c. - Insussistenza - Sindacabilità da parte del giudice - Limiti - Rispetto della libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost. – Necessità

La disposizione dell'art. 2103 c.c. sulla regolamentazione delle mansioni del lavoratore e sul divieto del declassamento di dette mansioni, va interpretata alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un' organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, con la conseguenza che, nei casi di sopravvenute e legittime scelte imprenditoriali, comportanti, tra l'altro, interventi di ristrutturazione aziendale, l'adibizione del lavoratore a mansioni diverse, ed anche inferiori, a quelle precedentemente svolte senza modifica del livello retributivo, non si pone in contrasto con il dettato codicistico, se essa rappresenti l'unica alternativa praticabile in luogo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Tuttavia, il sindacato del giudice del merito non può spingersi sino ad imporre al datore di lavoro una scelta organizzativa, tale da incidere sulle decisioni organizzative del datore di lavoro che appartengono sempre alla sua sfera di libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost..

Nota

La Corte d'Appello di Brescia, confermando la sentenza di primo grado, accoglieva la domanda di accertamento della illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo proposta da un lavoratore. A fondamento del decisum, la Corte territoriale rilevava che la società, a fronte della soppressione, a seguito di riorganizzazione aziendale, del posto di lavoro occupato dal lavoratore, non aveva allo stesso offerto il reimpiego in mansioni inferiori, relative ad un posto resosi vacante, poco prima del licenziamento de quo.

Avverso tale sentenza la società proponeva ricorso per cassazione con plurimi motivi. In particolare, con il quarto motivo di ricorso, la ricorrente, asserendo violazione e/o falsa applicazione degli artt. 41 Cost., 2103, 1375 e 1175 c.c., criticava la sentenza impugnata per aver la Corte di merito imposto al datore di lavoro scelte imprenditoriali che l'avrebbero obbligata a modificare il proprio assetto organizzativo.

La Suprema Corte ha accolto siffatto motivo di ricorso e cassato la sentenza, decidendo la causa nel merito e rigettando l'impugnativa del licenziamento proposta dal lavoratore.

La Corte, in primis, ha inteso dar continuità all'orientamento, ormai consolidato in sede di legittimità, secondo cui (cfr. ex plurimis Cass. 22/05/2014, n. 11395; Cass. 05/04/2007, n. 8596) la disposizione dell'art. 2103 c.c. va interpretata alla stregua della regola del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un'organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, con la conseguenza che nei casi di sopravvenute e legittime scelte imprenditoriali (quali esternalizzazione di servizi e/o processi di riconversione o ristrutturazione aziendali), l'adibizione del lavoratore a mansioni diverse, ed anche inferiori, a quelle precedentemente svolte, a parità di retribuzione, non si pone in contrasto con il dettato codicistico, se essa rappresenta l'unica alternativa praticabile in luogo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La Corte ha, altresì, evidenziato come tale interpretazione dell'art. 2103 c.c. fosse la più coerente con la "ratio" sottesa ai numerosi interventi in materia del legislatore (quali, quello riguardante le lavoratrici madri, ai sensi dell'art. 7, c. 5, D.Lgs. 26/03/2001, n. 151; quello relativo ai lavoratori divenuti inabili durante il rapporto lavorativo, ai sensi dell'art. 1, c. 7, L. n. 68/1999; quello riguardante gli accordi sindacali cd. "di demansionamento", previsti, nell'ambito delle procedure di licenziamento collettivo, dall'art. 4, c. 11, L. n. 223/1991; ed, infine, quello di cui alla recente riformulazione dell'art. 2103 c.c. ex art. 55, D.Lgs. 20/02/2015 di attuazione del Jobs Act, il cui secondo comma prevede la possibilità di assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori "in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali".

La Suprema Corte ha, all'uopo, chiarito che, a fronte delle suddette modifiche organizzative, non è necessario un patto di demansionamento ovvero una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o coeva al licenziamento. E', infatti, "onere" del datore, in attuazione dei principi di correttezza e buona fede caratterizzanti il rapporto di lavoro, prospettare (ed offrire) al lavoratore la possibilità di una assegnazione a mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale.

Tuttavia, la Suprema Corte ha ritenuto di non poter avallare la pronuncia della Corte territoriale, nella parte in cui afferma che la società avrebbe potuto adottare una "soluzione transitoria" sino al licenziamento, assegnando il lavoratore (poi licenziato) al posto (compatibile con il suo bagaglio professionale) precedentemente resosi vacante; ciò in quanto il rispetto dei doveri di correttezza e buona fede non può spingersi sino ad imporre al datore di lavoro una scelta organizzativa, quale quella suggerita dalla Corte del merito, tale da incidere sulle decisioni organizzative del datore di lavoro che appartengono sempre alla sua sfera di libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost..




Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 21 ottobre 2015, n. 21438

Pres. Roselli; Rel. Roselli; P.M. Giacalone; Ric. C.S.; Contr. L. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Per giusta causa - Dipendente assente per infortunio - Svolgimento contestuale di altra attività lavorativa - Giusta causa di recesso - Configurabilità – Fondamento

L'esercizio, durante il periodo di assenza dal lavoro per malattia o per infortunio, di attività, lavorative o no, tali da poter porre in pericolo, anche senza concreto ed effettivo pregiudizio, la guarigione entro il tempo di assenza giustificata, integra un inadempimento dell'obbligo derivante dal contratto di lavoro e precisamente la violazione dei doveri generali di correttezza e di buona fede e degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, di gravità tale da giustificare il licenziamento, anche in difetto di previsione del contratto collettivo o del codice disciplinare.

Nota

La sentenza in commento trae origine da una sentenza della Corte d'Appello di Lecce che, in parziale riforma della decisione di primo grado, rigettava la domanda proposta da un lavoratore volta a far dichiarare l'illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli.

La Corte rilevava che la giusta causa del licenziamento era consistita nell'avere il dipendente lavorato su un terreno di sua proprietà, arando col trattore e coltivando altresì alberi di agrumi, mentre era assente dal suo posto di lavoro in azienda a causa di un infortunio che aveva causato la rottura della base della falange intermedia del secondo dito della mano sinistra. Il lavoratore, in particolare, si era recato sul fondo alla guida di un'autovettura, pur con un'ingessatura nel polso sinistro. Secondo la Corte d'Appello, l'attività svolta nel periodo destinato al riposo, anche se non aveva prodotto danno, era stata tuttavia idonea ad aggravare lo stato di salute e a ritardare la guarigione, e ciò con un "altissimo grado di probabilità", trattandosi della funzionalità di una mano.

Il lavoratore proponeva quindi ricorso per Cassazione, affermando la liceità del comportamento del dipendente che, pur assente dall'azienda per malattia, eserciti un'attività lavorativa presso terzi o comunque altrove, o anche un'attività extralavorativa. Secondo l'assunto del ricorrente, nella specie, rimossa una stecca ortopedica necessaria a sanare la frattura causata dall'infortunio, egli ben poté esercitare un lavoro compatibile con la malattia sofferta.

La Cassazione ha rigettato il ricorso uniformandosi a un proprio precedente orientamento, secondo il quale l'esercizio, durante il periodo di assenza dal lavoro per malattia o per infortunio, di attività, lavorative o no, tali da poter porre in pericolo, anche senza concreto ed effettivo pregiudizio, la guarigione entro il tempo di assenza giustificata, integra un inadempimento dell'obbligo derivante dal contratto di lavoro e precisamente la violazione dei doveri generali di correttezza e di buona fede e degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, di gravità tale da giustificare il licenziamento, anche in difetto di previsione del contratto collettivo o del codice disciplinare.




Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 28 ottobre 2015, n. 22025

Pres. Amoroso; Rel. Balestrieri; P.M. Matera; Ric. B.M.P.D.S.; Contr. V.P.A.;

Licenziamento per giusta causa - Procedimento disciplinare ex art. 7 l. 300/1970 - Giustifiche scritte del dipendente - Richiesta di audizione personale e di esame documentazione posta a base della contestazione - Malattia del lavoratore - Mancata effettuazione audizione - Illegittimità

Sebbene l'art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, non preveda un obbligo per il datore di lavoro di mettere spontaneamente a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazione, la documentazione su cui essa si basa, egli è però tenuto, in base ai principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, ad offrire in consultazione i documenti aziendali all'incolpato che ne faccia richiesta, laddove l'esame degli stessi sia necessario per predisporre un'adeguata difesa.

Nota

Con la pronuncia in epigrafe la Corte di Cassazione si occupa di un caso di licenziamento per giusta causa, naturalmente irrogato all'esito di un procedimento disciplinare, a cui si applica, ratione temporis, la formulazione dell'art. 18 l. 300/1970 vigente prima delle modifiche introdotte dalla l. 92/2012 (c.d. legge Fornero). E' bene chiarire sin d'ora che il giudizio non attiene alla fondatezza del licenziamento, bensì a violazioni procedurali in cui, a giudizio della Corte, è incorso il datore di lavoro, determinando (in ragione della disciplina allora vigente) l'invalidità dell'atto di recesso.

In sintesi, alla contestazione disciplinare della Società erano seguite giustificazioni scritte del dipendente, con espressa richiesta di audizione personale; invero, dalla sentenza non si evince con chiarezza se il dipendente avesse richiesto altresì di consultare la documentazione richiamata nella contestazione, ma è accertato che tale consultazione si poneva come atto necessario al fine di poter esaminare compiutamente l'addebito disciplinare. A seguito di tale richiesta, ma prima dell'audizione, il lavoratore si ammalava per un periodo estremamente lungo (circa 300 giorni) e la Società, ritenendo tale comportamento dilatorio, procedeva egualmente all'irrogazione della sanzione espulsiva.

La Cassazione conferma la sentenza d'appello che aveva ritenuto viziato il licenziamento sulla base dell'assunto secondo cui "sebbene l'art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, non preveda un obbligo per il datore di lavoro di mettere spontaneamente a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazione, la documentazione su cui essa si basa, egli è però tenuto, in base ai principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, ad offrire in consultazione i documenti aziendali all'incolpato che ne faccia richiesta, laddove l'esame degli stessi sia necessario per predisporre un'adeguata difesa" (Cass. 13 febbraio 2013, n. 6337). Ed in particolare, osserva la Corte, le giustificazioni rese dal dipendente non potevano costituire un effettivo e completo esercizio del diritto di difesa, dal momento che la consultazione della documentazione posta a base della corposa contestazione disciplinare costituiva atto necessario ed indefettibile a tale scopo.

In ragione di ciò, la Cassazione ritiene scorretto il comportamento della Società datrice che, avendo ricevuto giustifiche scritte corredate da richiesta di audizione personale da parte del dipendente - tuttavia, subito dopo, ammalatosi per un periodo estremamente lungo -, aveva reputato sufficienti, ai fini dell'esercizio di difesa, le giustifiche scritte presentate e, quindi, superfluo attendere la guarigione del lavoratore, procedendo alla chiusura del procedimento disciplinare (ed alla conseguente irrogazione della sanzione espulsiva) senza aver previamente espletato l'audizione del lavoratore.



Termini di impugnazione del licenziamento

Cass. Sez. Lav. 5 novembre 2015 n. 22627

Pres. Stile; Rel. Tricomi; Ric. D.C.C.; Controric. I.E.O. S.r.l.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Decadenza - Termini di impugnazione del licenziamento di cui all'art. 6 della L. n. 604/1966 (come modificato dall'art. 32 della L. n. 183 del 2010) - Applicabilità ai dirigenti

I termini di decadenza e di inefficacia dell'impugnazione del licenziamento di cui all'art. 6 della l. n. 604 del 1966, come modificato dall'art. 32 della l. n. 183 del 2010, devono trovare applicazione quando si deduce l'invalidità del recesso datoriale, come nella specie prospettandone la nullità in quanto discriminatorio, senza che assuma rilievo la categoria legale di appartenenza del lavoratore e, quindi, anche nei confronti del dirigente.

Nota

La lavoratrice, dipendente con qualifica dirigenziale, veniva licenziata per giustificato motivo oggettivo a seguito dell'esperimento, da parte del datore di lavoro, della procedura di cui all'art. 7 L. 604/1966. Tale procedura veniva iniziata, in data primo luglio 2013, con invio alla DTL competente della comunicazione di intenzione al licenziamento prescritta dalla norma, cui seguiva, tre giorni dopo, l'impugnazione di tale comunicazione da parte della lavoratrice. Il successivo 25 luglio, a seguito della conclusione con esito negativo della procedura di conciliazione dinnanzi alla DTL, il datore di lavoro comunicava alla lavoratrice il licenziamento. In data 31 dicembre 2013 la lavoratrice proponeva ricorso innanzi al Tribunale di Milano, deducendo il carattere discriminatorio e ritorsivo del licenziamento, benché irrogato per giustificato motivo oggettivo.

Investiti dell'esame della questione, tanto il Tribunale di Milano quanto la Corte d'Appello, ritenevano fondata l'eccezione di decadenza formulata dal datore di lavoro, non essendo intervenuta l'impugnazione del licenziamento entro il termine di 60 giorni. Veniva, infatti, ritenuta irrilevante in tal senso l'impugnazione della comunicazione d'intenzione al licenziamento inviata alla DTL, in quanto intervenuta precedentemente al licenziamento stesso.

In particolare, nell'argomentare la sua decisione, la Corte d'Appello confermava che il termine decadenziale di 60 giorni previsto per l'impugnazione del licenziamento doveva, in virtù dell'art. 32, comma 2, L. 183/2010, ritenersi esteso a tutti i casi di invalidità dello stesso.

La lavoratrice proponeva ricorso in Cassazione avverso tale decisione sulla base di svariati motivi. In particolare la stessa sosteneva la non applicabilità ai dirigenti del termine decadenziale di cui sopra, in virtù del disposto dell'art. 10 della L. 604/1966, secondo il quale le norme della medesima legge si applicano nei confronti dei lavoratori che rivestano la qualifica di impiegato o operaio.

In aggiunta, la lavoratrice deduceva che - anche nell'ipotesi in cui tale termine fosse ritenuto applicabile anche ai dirigenti - l'impugnazione della comunicazione alla DTL di intenzione al licenziamento avrebbe dovuto essere considerata quale impugnazione del licenziamento stesso poiché il contenuto della lettera di licenziamento era confermativo della prima comunicazione.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

Quanto al primo aspetto ha confermato l'argomentazione della Corte d'Appello, sostenendo che l'art 32, comma 2, L. 183/2010, nello stabilire il termine di decadenza di 60 giorni per l'impugnazione del licenziamento e di 180 giorni per la proposizione del ricorso giurisdizionale, ha stabilito che "le disposizioni di cui alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 6, come modificato dal comma 1, del presente articolo, si applicano anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento".

Conseguentemente, "i suddetti termini di decadenza e di inefficacia dell'impugnazione, dunque, devono trovare applicazione quando si deduce l'invalidità del licenziamento, come nella specie prospettandone la nullità in quanto discriminatorio, non assumendo rilievo la categoria legale di appartenenza del lavoratore". La ratio della norma, infatti, sarebbe quella di garantire la speditezza dei processi attraverso la previsione di termini di decadenza e inefficacia in precedenza non previsti.

Quanto al secondo profilo la Suprema Corte ha ritenuto corretta l'analisi operata dalle Corti territoriali, per le quali l'impugnazione della comunicazione d'intenzione al licenziamento non poteva essere intesa quale impugnazione del recesso. Alla prima comunicazione, infatti, non necessariamente segue la lettera di recesso, con la conseguenza che resta irrilevante a tali fini anche un'eventuale identità dei contenuti.




Oneri probatori differenti per il datore a seconda delle misure di sicurezza violate

Cass. Sez. Lav. 5 novembre 2015, n. 22615

Pres. Amoroso; Rel. Berrino; P.M. Servello; Ric. R. S.p.A.; Contr. M.A.;

Malattia professionale - Violazione di specifiche misure di sicurezza - Violazione del generico obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. - Oneri probatori differenti per il datore di lavoro.

In tema di danno alla salute del lavoratore, gli oneri probatori spettanti al datore di lavoro ed al lavoratore sono diversamente modulati nel contenuto a seconda che le misure di sicurezza omesse siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte altrettanto vincolante), oppure debbano essere ricavate dall'art. 2087 c.c., che impone l'osservanza del generico obbligo di sicurezza: nel primo caso, riferibile alle misure c.d. "nominate", la prova liberatoria che grava sul datore di lavoro consiste nel riscontro della insussistenza dell'inadempimento e del nesso eziologico tra quest'ultimo ed il danno; nel secondo caso, relativo a misure di sicurezza c.d. "innominate", si impone, di regola, al datore di lavoro l'onere di provare l'adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino imposti dalla legge (o da altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli "standards" di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe.

Nota

La Corte di appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale del lavoro di Bergamo, accoglieva la domanda avanzata da una lavoratrice, ritenendo sussistente la responsabilità del datore di lavoro nella causazione della malattia professionale della propria dipendente e condannandolo al risarcimento del danno. A parere della corte di merito, all'esito dell'istruttoria, era emerso che la colpa datoriale era da ravvisare nella tardiva adozione di quegli accorgimenti che, se impiegati per tempo, avrebbero attenuato la pesantezza delle mansioni e rimosso la causa della accertata patologia agli arti superiori della lavoratrice.

Avverso tale sentenza l'azienda propone ricorso per cassazione denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2697 c.c., in quanto lamenta che sarebbe stato onere della lavoratrice dimostrare che l'omissione imputata al datore di lavoro, era la causa della patologia, configurandosi altrimenti un'ipotesi di responsabilità oggettiva.

La Suprema Corte respinge il ricorso, rilevando che, in via generale, in tema di responsabilità del datore di lavoro per violazione dell'art. 2087 c.c., la parte che subisce l'inadempimento non deve dimostrare la colpa dell'altra parte, dato che ai sensi dell'art. 1218 c.c., è il debitore-datore di lavoro che deve provare che l'impossibilità della prestazione o la non esatta esecuzione della stessa o comunque il pregiudizio che colpisce la controparte, derivano da causa a lui non imputabile (cfr. Cass. dell'11 aprile 2013, n. 8855).

A tale riguardo, prosegue la Corte, si è anche precisato che in tema di danno alla salute del lavoratore, gli oneri probatori spettanti al datore di lavoro ed al lavoratore sono diversamente modulati nel contenuto a seconda che le misure di sicurezza omesse siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte altrettanto vincolante), oppure debbano essere ricavate dall'art. 2087 c.c., che impone l'osservanza del generico obbligo di sicurezza: nel primo caso, riferibile alle misure c.d. "nominate", la prova liberatoria che grava sul datore di lavoro consiste nel riscontro della insussistenza dell'inadempimento e del nesso eziologico tra quest'ultimo ed il danno; nel secondo caso, relativo a misure di sicurezza c.d. "innominate", la prova liberatoria a carico del datore di lavoro è correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle misure di sicurezza, imponendosi, di regola, al datore di lavoro l'onere di provare l'adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino imposti dalla legge (o da altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli "standards" di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe (cfr. Cass. del 2 luglio 2014, n. 15082).

Nel caso in esame, afferma la Cassazione, versandosi nella seconda ipotesi, vale a dire in tema di responsabilità ex art. 2087 c.c., la corte di merito è correttamente pervenuta alla conclusione che la colpa datoriale fosse da ravvisare proprio nella tardiva adozione di quegli accorgimenti (quali l'automazione e l'uso del muletto) che avrebbero alleviato il peso delle mansioni svolte dalla lavoratrice, con l'ulteriore precisazione che, tale situazione era sufficiente - in presenza del nesso causale tra le mansioni svolte e la patologia sofferta - ad integrare la colpa contrattuale.

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