Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento ritorsivo

Infortunio sul lavoro e impresa appaltatrice

Diritto di precedenza nelle assunzioni ed esecuzione in forma specifica

Contratto a tempo determinato e compenso incentivante

Sicurezza sul lavoro e temporanea sospensione della prestazione lavorativa

Licenziamento ritorsivo

Cass. Sez. Lav. 3 dicembre 2015, n. 24648

Pres. Roselli; Rel. Tria; P.M. Matera; Ric. E.F.; Controric. G. S.r.l.;

Licenziamento - Licenziamento ritorsivo - Nozione - Fattispecie - Motivo ritorsivo determinante - Conseguenze - Nullità del licenziamento

E' ritorsivo il licenziamento che costituisce l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l'unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito la prova, anche con presunzioni. (Nella specie, il licenziamento intimato è stato ritenuto ritorsivo, e quindi nullo, in quanto costituiva l'ingiusta e arbitraria reazione di alcuni soggetti, che si erano sentiti accusati di infedeltà patrimoniale e criticati nel loro operato come vertici della società, in una relazione che il lavoratore aveva scritto su richiesta di un componente del consiglio di amministrazione, senza diffonderne il contenuto).

Nota

La sentenza in commento ha ad oggetto un licenziamento ritenuto nullo dal Giudice di prime cure, in quanto ritorsivo, mentre il Giudice di appello, in parziale riforma della decisione di primo grado, escludendo il predetto carattere ritorsivo, ne aveva dichiarato l'illegittimità, in quanto privo di giusta causa, con condanna del datore di lavoro al pagamento della sola indennità risarcitoria di cui all'art. 8 della Legge n. 604 del 1966, stante l'insussistenza del requisito dimensionale per la tutela reale di cui all'art. 18 della Legge n. 300 del 1970, oltre al risarcimento del danno per le modalità ingiuriose di adozione del licenziamento stesso.

In particolare, la Corte territoriale ha ritenuto che il licenziamento in oggetto non fosse configurabile come discriminatorio o per rappresaglia. Infatti, secondo la Corte d'Appello adita, per licenziamento ritorsivo o discriminatorio deve intendersi il licenziamento intimato arbitrariamente per comportamenti legittimi del lavoratore e non oggetto di contestazione, mentre nel caso di specie il datore di lavoro aveva intimato il provvedimento espulsivo addebitando al dipendente un comportamento specifico di sostanziale infedeltà, concretizzatosi nell'aver predisposto e consegnato ad uno dei consiglieri di amministrazione della società, su sua richiesta, una relazione contenente accuse di infedeltà patrimoniale e critiche all'operato dei vertici della società, ritenute, ai fini del licenziamento, false e gravemente denigratorie; la gravità del fatto addebitato, ovvero il contenuto della relazione suddetta, aveva quindi motivato il recesso datoriale dal rapporto di lavoro, che non poteva perciò ritenersi ritorsivo.

Escluso il carattere ritorsivo, secondo la Corte di merito nel caso di specie non era ravvisabile la giusta causa di licenziamento, in quanto il contenuto denigratorio della relazione era molto limitato (molte parti, infatti, rientravano nell'esercizio del diritto di critica, mentre i passaggi più negativi erano generici e privi di riferimenti a nomi precisi) e, da una valutazione complessiva dello scritto, emergeva la preoccupazione del lavoratore, con responsabilità direttive, di trovarsi esposto a prassi che lo mettevano in imbarazzo di fronte ai fornitori o che ponevano in cattiva luce il gruppo aziendale. Inoltre, lo scritto in questione eÌ stato consegnato in via riservata ad un membro del consiglio di amministrazione, alla cui esclusiva iniziativa eÌ imputabile la successiva divulgazione.

In ragione delle considerazioni sopra richiamate, il Giudice di secondo grado ha quindi escluso la sussistenza della giusta causa di licenziamento nel caso di specie, giudicando illegittimo il licenziamento intimato. Il datore di lavoro veniva altresì condannato al risarcimento del danno per le modalità ingiuriose del licenziamento, riconducibili alla missiva inviata a duecento destinatari con i quali la società era in contatto, onde segnalare di inviare la posta elettronica non più al lavoratore, ma al nuovo referente designato, trattandosi di una anomala comunicazione anticipatoria della imminente risoluzione del rapporto, che ha ingenerato stupore e curiosità nei destinatari, con conseguente danno all'onore ed alla dignità del lavoratore licenziato.

La Corte di Cassazione, in riforma della sentenza della Corte territoriale, afferma che nel caso di specie si configura a tutti gli effetti un licenziamento ritorsivo.

Infatti, il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta - assimilabile a quello discriminatorio - costituisce l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l'unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni (cfr. Cass. 8 agosto 2011, n. 17087). Il divieto di licenziamento discriminatorio - sancito dalla L. n. 604 del 1966, art. 4, dalla L. n. 300 del 1970, art. 15, e dalla L. n. 108 del 1990, art. 3, - eÌ suscettibile di interpretazione estensiva, sicché l'area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, che costituisce cioè l'ingiusta e arbitraria reazione, quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essenzialmente quindi di natura vendicativa, essendo necessario, in tali casi, dimostrare, anche per presunzioni, che il recesso sia stato motivato esclusivamente dall'intento ritorsivo (Cass. 18 marzo 2011, n. 6282, in senso analogo: Cass. 27 febbraio 2015, n. 3986).

Peraltro, come osservato dalla Suprema Corte, laddove vengano in considerazione eventuali profili discriminatori o ritorsivi nel comportamento datoriale, il giudice non può fare a meno di effettuarne la valutazione sia in base all'art. 3 Cost., sia in considerazione della giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, in particolare nei rapporti di lavoro, nonché di quanto previsto dai D.Lgs. n. 215 e D.Lgs. n. 216 del 2003 in tema di onere probatorio.

In ragione di quanto precede, secondo la Corte di Cassazione, il Giudice di appello ha errato nel non riconoscere la sussistenza di un licenziamento ritorsivo nel caso di specie, dando a tale licenziamento una definizione non conforme ai principi dell'ordinamento, pur dopo avere evidenziato la presenza, nella specie, di tutti gli elementi propri della ritorsione. Infatti, il recesso de quo è risultato essere l'ingiusta e arbitraria reazione di alcuni soggetti che si sono sentiti accusati di infedeltà patrimoniale e criticati nel loro operato come vertici della società, in una relazione che il lavoratore aveva scritto su richiesta di un componente del consiglio di amministrazione, senza diffonderne il contenuto; il carattere vendicativo del licenziamento eÌ dimostrato, secondo la Corte di Cassazione, dalla coincidenza tra i suddetti soggetti e coloro che hanno irrogato il licenziamento, oltretutto con modalità ingiuriose come aveva riconosciuto la stessa Corte d'appello adita.

In conclusione, con la sentenza in commento la Suprema Corte dichiara nullo il licenziamento de quo, in quanto ritorsivo, con condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore, oltre al risarcimento del danno.




Infortunio sul lavoro e impresa appaltatrice

Cass. Sez. Lav. 12 gennaio 2016, n. 287

Pres. Macioce; Rel. Amendola; P.M. Servello; Ric. F.U.D.U.C. S.n.c.; Controric. I.N.A.I.L.; Intim. A.J.D.;

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Infortunio sul lavoro - Dipendente d'impresa appaltatrice - Responsabilità del committente – Configurabilità

In tema di infortunio sul lavoro, il committente, nella cui disponibilità permane l'ambiente di lavoro, ha l'obbligo di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità e la salute dei lavoratori, ancorché dipendenti dall'impresa appaltatrice, consistenti nell'informazione adeguata dei singoli lavoratori e non solo dell'appaltatrice, nella predisposizione di tutte le misure necessarie al raggiungimento dello scopo, nella cooperazione con l'appaltatrice per l'attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all'attività appaltata, tanto più se caratterizzata dall'uso di macchinari pericolosi.

Nota

Il caso di specie riguarda un'ipotesi di infortunio sul lavoro (mortale) subito da un dipendente durante lo svolgimento della propria attività lavorativa di taglio di alberi. In relazione a tale infortunio, l'I.N.A.I.L., che aveva erogato le prestazioni previste per legge in favore dei familiari superstiti, aveva convenuto avanti il Tribunale di Bolzano il datore di lavoro al fine di esercitare azione di regresso nei confronti di quest'ultimo. Su richiesta della società datrice di lavoro, il contraddittorio veniva esteso anche alla società che le aveva subappaltato l'attività di taglio di alberi, nello svolgimento della quale il dipendente aveva perso la vita. Il ricorso dell'I.N.A.I.L. veniva respinto dal Tribunale di Bolzano.

Successivamente, la Corte d'Appello di Trento - Sezione distaccata di Bolzano, riformando integralmente la decisione di primo grado, dichiarava la concorrente responsabilità delle due società (subappaltante e subappaltatrice) per l'infortunio sul lavoro oggetto di causa, condannandole in solido al risarcimento nei confronti del l'I.N.A.I.L.. Nello specifico, la Corte territoriale aveva ritenuto la concorrente responsabilità della società subappaltante richiamando l'art. 7, co. 2, del D.Lgs. n. 626/1994, allora vigente, che faceva obbligo ad appaltante ed appaltatore di "coopera[re] all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione dei rischi sul lavoro incidenti sull'attività lavorativa oggetto dell'appalto" e "coordina[re] gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi... informandosi reciprocamente" (oggi analoga disposizione è contenuta nell'art. 26 del D.Lgs. n. 81/2008).

Ricorreva per cassazione avverso tale sentenza la società subappaltante, sostenendo che, essendo la società subappaltatrice la sola datrice di lavoro del dipendente deceduto, esclusivamente a quest'ultima poteva riferirsi l'adempimento dell'obbligo di sicurezza. La società ricorrente argomentava inoltre che, avendo provveduto a nominare un soggetto (per l'appunto, la società subappaltatrice) dotato di autonomia organizzativa nonché delle capacità tecniche necessarie per espletare l'attività oggetto del contratto di sub-appalto, andava riconosciuta la responsabilità esclusiva di tale soggetto nella causazione dell'evento lesivo.

La Corte di Cassazione ha ritenuto tale motivo infondato e condiviso la ratio decidendi della sentenza di secondo grado, argomentando che rientra negli obblighi del committente, nella cui disponibilità e controllo permane l'ambiente di lavoro, quello di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la salute dei prestatori di lavoro, ancorché dipendenti dall'impresa appaltatrice, non limitandosi ad informare adeguatamente quest'ultima, ma informando altresì i singoli lavoratori, predisponendo i mezzi idonei al raggiungimento dello scopo per tutti e per ciascuno di essi, e cooperando con l'appaltatrice per l'attuazione delle misure di prevenzione e protezione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro, sia all'attività appaltata (Cass. n. 21694/2011), risultando del tutto irrilevante il dato soggettivo dei rapporti giuridici tra i vari datori di lavoro (Cass. n. 45/2009). Per tale motivo, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso




Diritto di precedenza nelle assunzioni ed esecuzione in forma specifica

Cass. Sez. Lav. 22 dicembre 2015, n. 25787

Pres. Stile; Rel. Napoletano; P.M. Mastroberardino; Ric. F.C.; Controric. P.C.M.A. S.p.A.; T.A.M. S.r.l.; S.A.T.A. S.p.A.; F.C.A.I. S.p.A. e L.C.I. S.r.l. C.G.

Diritto di precedenza per assunzioni in società collegate - Accordo sindacale -Indeterminatezza degli elementi del contratto di lavoro - Ineseguibilità in forma specifica dell'obbligo a contrarre

Il diritto di precedenza nelle future assunzioni è insuscettibile di esecuzione in forma specifica quando nell'accordo sindacale, che prevede tale diritto, non sono determinati gli elementi essenziali per procedere alla conclusione del contratto di lavoro.

Nota

Alcune società stipulavano in sede sindacale un accordo che prevedeva, a favore dei lavoratori collocati in C.I.G.S., il diritto di precedenza nelle future assunzioni. Uno dei lavoratori in C.I.G.S. agiva in giudizio nei confronti di tali società per ottenere la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato in esecuzione dell'accordo sindacale.

La Corte d'Appello, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava la domanda del lavoratore, sostenendo che l'obbligo all'assunzione era insuscettibile di esecuzione in forma specifica, in quanto nell'accordo sindacale non erano determinati, né determinabili, gli elementi dei contratti di lavoro che si sarebbero dovuti eseguire. A tal fine, la Corte territoriale non considerava sufficiente il fatto che dall'elenco C.I.G.S., che costituiva parte integrante dell'accordo sindacale, fossero evincibili le mansioni, il livello di appartenenza e l'anzianità dei lavoratori a favore dei quali era stato pattuito il diritto di precedenza nelle future assunzioni, poiché nell'accordo sindacale non vi era alcun impegno ad assumere detti lavoratori alle medesime condizioni riconosciute dal precedente datore di lavoro.

Avverso tale sentenza il lavoratore ricorreva in Cassazione; le società resistevano con controricorso.

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato il ricorso sostanzialmente per profili formali, confermando la decisione di secondo grado che ha ritenuto insuscettibile di esecuzione di forma specifica il diritto di precedenza nelle assunzioni previsto da un accordo sindacale nel quale non siano determinati, né determinabili, gli elementi essenziali per la conclusione del contratto di lavoro.




Contratto a tempo determinato e compenso incentivante

Cass. Sez. Lav. 29 dicembre 2015, n. 26007

Pres. Macioce; Rel. D'Antonio; P.M. Celentano; Ric. C.R.I.; Controric. F.B.;

Contratto a tempo determinato - Compenso incentivante - Spettanza - Principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori a termine - Sussiste

Il mancato riconoscimento ai lavoratori a tempo determinato del compenso incentivante, diretto a remunerare la realizzazione di reali e significativi miglioramenti nei livelli di efficienza/efficacia dell'amministrazione, si pone in contrasto con il principio di non discriminazione tra i lavoratori a tempo indeterminato ed i lavoratori a termine, previsto dall'art. 6 del D.Lgs. n. 368/2001, salvo che la disparità di trattamento non sia giustificata dalla sussistenza di elementi precisi e concreti che contraddistinguano il rapporto di impiego in questione.

Nota

La Corte di Appello di Torino ha confermato la sentenza del tribunale di Alessandria che aveva accolto la domanda proposta dal lavoratore, il quale aveva lavorato alle dipendenze della C.R.I. con contratti a tempo determinato quale autista soccorritore, volta ad ottenere il compenso incentivante corrisposto ai dipendenti a tempo indeterminato. La Corte territoriale argomentava la propria decisione richiamando il principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori a termine di cui all'art. 6 del D.Lgs. n. 368/2001, attuativo della direttiva comunitaria 1990/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato. Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la C.R.I. sulla base di un unico motivo. In particolare, l'Ente ricorrente deduceva che il "compenso incentivante la produttività" in virtù della peculiare natura dell'emolumento in oggetto, diretto a remunerare il conseguimento di migliori risultati dell'Ente ed oggetto di obiettivi fissati su base annuale, programmati a misura delle risorse umane in servizio, era destinato esclusivamente al personale a tempo indeterminato e non anche al personale a tempo determinato. La C.R.I. rilevava, altresì, che i lavoratori a tempo determinato, in ragione della temporaneità dell'impiego dipendente da esigenze di carattere straordinario, non erano coinvolti in tali obiettivi, e che, peraltro, neppure poteva invocarsi nel caso di specie un insussistente principio di parità retributiva nell'ordinamento lavoristico. La Suprema Corte rigettava il ricorso rilevando innanzitutto che la negazione della spettanza del compenso incentivante ai dipendenti a tempo determinato si poneva in contrasto col principio di non discriminazione, e ciò anche in considerazione della specifica disciplina contrattuale collettiva applicabile al caso in esame. Ed infatti, l'art. 6 D.Lgs. n. 368/2001, attuativo della clausola 4, punto 1 dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato oggetto della direttiva 28 giugno 1999/70/Ce, dispone che al prestatore di lavoro con contratto a tempo determinato spetti " ogni altro trattamento in atto nell'impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili in proporzione al periodo lavorativo prestato sempre che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a termine". Nell'interpretazione della giurisprudenza della Corte di giustizia UE la suddetta direttiva e l'accordo quadro ad essa allegato, che si applicano ai contratti e rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi con le amministrazioni e gli altri enti del settore pubblico, esigono che sia esclusa qualsiasi disparità di trattamento tra dipendenti pubblici di ruolo e dipendenti pubblici temporanei comparabili di uno Stato membro, a meno che la disparità di trattamento non sia giustificata da "ragioni oggettive". La nozione di ragioni oggettive richiede che la disparità di trattamento sia giustificata dalla sussistenza di elementi precisi e concreti, che contraddistinguano il rapporto di impiego in questione, al fine di verificare se tale disparità risponda ad una reale necessità, sia idonea a conseguire l'obiettivo perseguito e risulti a tal fine necessaria (Corte giust. UE, 13 settembre 2007, in causa C-307/05). Con specifico riferimento al caso in oggetto, la Suprema Corte ha rilevato che la previsione di "programmi" ed "obiettivi", cui era subordinata la corresponsione dell'incentivo rivendicato, non costituiva di per sé, ed in assenza di specifiche ed esplicitate ragioni, elemento idoneo a far ritenere l'inapplicabilità del compenso in questione ai lavoratori a tempo determinato, tenuto conto, peraltro, che la dedotta straordinarietà delle esigenze poste a fondamento del contratto a termine stipulato non trovava alcun concreto riscontro nella realtà, atteso che le mansioni di autista soccorritore erano pacificamente rientranti tra quelle ordinariamente svolte dal personale assunto a tempo indeterminato e tenuto conto, altresì, della reiterazione per anni dei contratti a termine senza soluzione di continuità. La Suprema Corte rilevava, infine, che neppure dall'esame della invocata normativa contrattuale di settore poteva desumersi alcun elemento di distinzione tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato con riferimento al compenso incentivante in questione. Per le ragioni sin qui esposte la Suprema Corte ha rigettato il ricorso.




Sicurezza sul lavoro e temporanea sospensione della prestazione lavorativa

Cass. Sez. Lav. 19 gennaio 2016, n. 836

Pres. Macioce; Rel. Amendola; P.M. Servello; Ric. F.G.A s.p.a..; Controric. C.L.+ altri;

Tutela delle condizioni di lavoro - Mancata adozione delle misure di sicurezza e violazione dell'art. 2087 c.c. - Eccezione di inadempimento - Rifiuto della prestazione lavorativa - Legittimità - Diritto alla conservazione della retribuzione – Sussistenza

In caso di violazione da parte del datore di lavoro dell'obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. non solo è legittimo, a fronte dell'inadempimento altrui, il rifiuto del lavoratore di eseguire la propria prestazione, ma costui conserva, al contempo, il diritto alla retribuzione in quanto non possono derivargli conseguenze sfavorevoli in ragione della condotta inadempiente del datore.

Nota

Con ricorso al Tribunale di Torino un gruppo di lavoratori ha dedotto: di essere addetti all'assemblaggio di portiere auto, che durante lo svolgimento della prestazione numerose volte si era verificata, nel recente passato, la caduta delle portiere mettendo in pericolo la loro incolumità, che all'ennesimo episodio di caduta si sono rifiutati di continuare ad eseguire la prestazione lamentando il mancato adempimento datoriale agli obblighi in materia di salute e sicurezza, che al termine dell'intervento della squadra di manutenzione - durato circa 1.45 h - hanno regolarmente ripreso la loro attività, che l'azienda ha trattenuto la retribuzione relativa a tale lasso temporale. Tutto ciò premesso hanno chiesto il rimborso di quanto trattenuto, affermando la legittimità della sospensione della prestazione.

Il Tribunale ha rigettato il ricorso, ritenendo non applicabile l'art. 1460 c.c. in ragione della non gravità dell'inadempimento datoriale. La Corte d'Appello di Torino ha accolto il gravame proposto dai lavoratori e condannato la società a restituire gli importi trattenuti, ritenendo sussistenti tutti i requisiti previsti dall'art. 1460 c.c.. In particolare, la Corte territoriale ha reputato legittimo il rifiuto temporaneo della prestazione valorizzando: che l'episodio della caduta della portiera seguiva molti altri analoghi, che la stessa azienda aveva ammesso che da tale evento potevano derivare gravi danni agli addetti qualora investiti, che la sospensione della prestazione era durata il tempo strettamente necessario per consentire ai manutentori di apportare le misure di sicurezza necessarie a tutelare la loro incolumità. Sulla base di tali valutazioni la Corte ha riformato la decisione di primo grado affermando che, in presenza di un astensione legittima, il principio di corrispettività delle prestazioni impone che non derivi un danno in capo al soggetto che ha subito l'inadempimento datoriale.

Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per cassazione affidato a 5 articolati motivi ed il lavoratori hanno resistito con controricorso.

In sintesi la decisione viene censurata in primis per avere i giudici di appello riconosciuto la permanenza dell'obbligo retributivo pur in assenza di attività lavorativa, il che urterebbe contro il principio di corrispettività del contratto di lavoro.

Nel respingere tale motivo la Suprema Corte afferma il principio di cui alla massima, riportandosi al consolidato orientamento secondo cui la violazione dell'art. 2087 c.c. legittima i lavoratori a non eseguire la prestazione eccependo l'inadempimento altrui (Cass. 7 maggio 2013, n. 10553; Cass. 10 agosto 2012, n. 14375; Cass. 18 maggio 2006, n. 11664; Cass. 9 maggio 2005, n. 9576). Aggiunge la Cassazione che il rilievo costituzionale dei beni protetti dall'art. 2087 c.c. consente, per garantire l'effettività della tutela, non solo azioni volte all'adempimento dell'obbligo di sicurezza od alla cessazione del comportamento lesivo, ovvero a riparare il danno subito, ma anche l'esercizio del potere di autotutela contrattuale rappresentato dall'eccezione di inadempimento rifiutando l'esecuzione della prestazione in ambiente nocivo e/o non protetto. La società censura, poi, la sentenza laddove la Corte territoriale ha affermato la sussistenza della gravità del'inadempimento datoriale, a suo dire mal valutando il quadro istruttorio. La Suprema Corte nel respingere la doglianza precisa che, nei contratti a prestazioni corrispettive, qualora una parte giustifichi il proprio inadempimento con quello della controparte, occorre effettuare una valutazione comparativa del comportamento anche con riguardo ai rapporti di causalità e proporzionalità delle rispettive inadempienze in relazione alla funzione economico-sociale del contratto ed ai diversi obblighi gravanti sulle parti onde stabilire se il rifiuto della prestazione è giustificato dalla condotta inadempiente della controparte. In tale contesto, se l'inadempimento cronologicamente anteriore non è "grave", il rifiuto della controparte di adempiere è contrario al principio di buona fede ed è, quindi, ingiustificato (Cass. 7 novembre 2005, n. 21479; Cass. 11 maggio 1998, n. 4743). La valutazione della gravità dell'inadempimento è, tuttavia, rimesso ai giudici del merito e, secondo la Cassazione, nel caso di specie la Corte territoriale ha fatto una corretta valutazione di tutti gli aspetti sopra indicati con motivazione congrua e logica, pertanto il motivo viene respinto ed il ricorso rigettato.

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