Contenzioso

Attività per conto proprio sul luogo di lavoro, non sempre scatta il licenziamento

di Massimiliano Biolchini e Serena Fantinelli

Lo svolgimento di attività per conto proprio sul luogo di lavoro non giustifica sempre il licenziamento. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, che con la sentenza n. 8326 del 26 aprile scorso ha accolto il ricorso del lavoratore e ha cassato la precedente decisione dei giudici d'appello che avevano disposto la conversione del licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo oggettivo.


Il caso riguardava un dipendente a cui era stato contestato di avere, durante l'orario di lavoro, eseguito attività per conto proprio, allontanandosi dalla propria postazione senza alcun permesso e utilizzando attrezzature sulle quali non era stato preventivamente addestrato: comportamenti per i quali era stato licenziato per giusta causa.


In sede di gravame, i giudici dell'appello avevano convertito il provvedimento espulsivo in licenziamento per giustificato motivo oggettivo, riconoscendo nella condotta una violazione del dovere fondamentale del lavoratore di mettere a disposizione del datore di lavoro, durante l'orario di lavoro, le energie lavorative, ma qualificando il fatto come un caso d'insubordinazione e di “appropriazione indebita del tempo di lavoro retribuito e dei beni aziendali”, che pur essendo idoneo a giustificare il licenziamento non poteva comunque dirsi così grave da rendere impossibile la prosecuzione del rapporto.


Investita della questione, la Cassazione ha stabilito che: “in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all'illecito commesso […] si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso […], sicché l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria dei rapporto”.


La Corte, quindi, ha affermato il principio secondo il quale, pur in presenza di condotte e comportamenti astrattamente lesivi dei doveri fondamentali del dipendente, il loro mero verificarsi non è di per sé sufficiente a giustificare il licenziamento, dovendo comunque e sempre procedersi ad una accurata valutazione della sussistenza del “notevole inadempimento”, tenendo conto “delle peculiarità della singola fattispecie e, pertanto, del complesso di circostanze che concretamente la definiscono” (nel caso di specie il giudice d'appello avrebbe dovuto considerare, tra l'altro, circostanze quali la durata del contestato abbandono del posto di lavoro, i tempi e le modalità dell'attività privata, la natura degli attrezzi utilizzati e l'entità del rischio collegato ad un utilizzo non appropriato degli stessi).
Spetterà ai giudici del rinvio l'ultima parola sul caso specifico, mentre agli operatori resta la sempre maggiore difficoltà di individuare criteri chiari e certi di misurazione della nozione di “proporzionalità” della sanzione disciplinare, sancita dall'articolo 2106 del codice civile e su cui la giurisprudenza ha già versato fiumi di inchiostro (da ultimo in merito alla applicabilità della tutela reintegratoria ex articolo 18 Statuto novellato dalla Riforma Fornero ai licenziamenti macroscopicamente “sproporzionati” rispetto al fatto materiale contestato).

La sentenza 8326/16 della Corte di cassazione

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©