Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Sicurezza del lavoro, la responsabilità del datore ex art. 20187 c.c.

Interesse al distacco del lavoratore e gruppo di imprese

Malattia, licenziamento per superamento del comporto

Assoluzione in sede penale e effetti nel giudizio civile

Licenziamento disciplinare e tutela del diritto di difesa del lavoratore

Sicurezza del lavoro, la responsabilità del datore ex art. 20187 c.c.

Cass. Sez. Lav. 26 aprile 2016, n. 8237

Pres. Venuti; Rel. Berrino; Ric. M. S.a.s.; Controric. G.M.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Danno alla salute del lavoratore - Responsabilità contrattuale del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. - Configurabilità - Condizioni - Onere probatorio del lavoratore danneggiato - Oggetto - Dimostrazione dell'avvenuta violazione di regole contrattuali o legali o della mancata adozione di misure di prevenzione.

In tema di responsabilità del datore di lavoro per violazione delle disposizioni dell'art. 2087 c.c., la parte che subisce l'inadempimento non deve dimostrare la colpa dell'altra parte - dato che ai sensi dell'art. 1218 c.c. è il debitore-datore di lavoro che deve provare che l'impossibilità della prestazione o la non esatta esecuzione della stessa o comunque il pregiudizio che colpisce la controparte derivano da causa a lui non imputabile - ma è comunque soggetta all'onere di allegare e dimostrare l'esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che l'asserito debitore ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che, nell'esercizio dell'impresa, debbono essere adottate per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte delinea i presupposti della responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c.

Segnatamente, nel caso di specie, un dipendente agiva in giudizio per il risarcimento di danni biologici e morali asseritamente subiti a seguito di un infortunio sul lavoro, consistito nella caduta da un'impalcatura autoreggente di due piani in occasione di una scossa tellurica, lamentando una "latenza del controllo datoriale sul comportamento del lavoratore ed un difetto di vigilanza nell'aver consentito lo svolgimento di attività lavorativa senza aver predisposto un opportuno riparo al rischio di caduta".

In particolare, il ricorrente si doleva della violazione da parte del datore della norma di cui all'art. 2087 c.c. "in combinato disposto con l'art. 10 del D.P.R. n. 164/1956 in ordine alla necessità dell'utilizzazione di cintura di sicurezza debitamente agganciata, qualora non sia possibile disporre di impalcati di protezione o parapetti", nonché della violazione dell'art. 17 del medesimo D.P.R., in base al quale il montaggio e lo smontaggio delle opere provvisionali devono essere eseguiti sotto la diretta sorveglianza di un preposto ai lavori. Il Giudice di prime cure rigettava il ricorso. La decisione veniva, quindi, riformata dalla Corte d'Appello, che accoglieva la domanda risarcitoria del lavoratore, rilevando che dall'istruttoria era emerso che i pregiudizi erano derivati dalla caduta del dipendente dalla struttura autoreggente approntata dal datore e che il richiamo del prestatore alla responsabilità datoriale per la violazione delle suddette norme "era significativo della mancanza di operatività del sistema frenante della cintura di sicurezza, la qual cosa presupponeva una latenza del controllo datoriale sul comportamento del medesimo dipendente". Inoltre, la Corte territoriale osservava che l'imprevedibilità della scossa tellurica non aveva reciso ogni nesso di adeguata causalità tra l'evento dannoso e l'omessa predisposizione della tutela antinfortunistica, tanto che in fase di realizzazione la struttura non aveva fatto registrare alcun cedimento a causa del sisma e che gli altri operai interessati alla sua costruzione erano riusciti a guadagnare utilmente la fuga. Quindi - argomentavano i Giudici di merito - "anche nell'ipotesi in cui il lavoratore avesse omesso di agganciare la cintura di sicurezza o se ne fosse incautamente liberato, residuava un difetto di vigilanza della datrice di lavoro nell'aver consentito lo svolgimento dell'attività lavorativa del dipendente senza aver previamente rimediato la difficoltà o disposto la provvisoria sospensione del lavoro in attesa di porre riparo al rischio di caduta in base al principio generale di cui al richiamato art. 2087 c.c.".

Il datore di lavoro proponeva ricorso per Cassazione, lamentando che la Corte di merito non avesse considerato che il lavoratore non aveva fornito la prova della pericolosità del posto di lavoro e del nesso causale tra la stessa e l'evento dannoso patito, limitandosi ad evidenziare che il datore non aveva dimostrato di aver posto in essere tutto quanto era possibile per evitare l'evento.

La Suprema Corte respinge il ricorso, rammentando, anzitutto, che in tema di responsabilità del datore di lavoro per violazione delle disposizioni dell'art. 2087 c.c., la parte che subisce l'inadempimento non deve dimostrare la colpa dell'altra parte - dato che ai sensi dell'art. 1218 c.c. è il datore di lavoro che deve provare che l'impossibilità della prestazione o la non esatta esecuzione della stessa o comunque il pregiudizio che colpisce la controparte derivano da causa a lui non imputabile - ma è comunque soggetta all'onere di allegare e dimostrare l'esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che l'asserito debitore ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che, nell'esercizio dell'impresa, debbono essere adottate per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Soggiungendo, altresì, che, ai fini dell'accertamento della responsabilità del datore di lavoro, ex art. 2087 c.c. - la quale non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva - al lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, incombe l'onere di provare l'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro ed il nesso causale fra questi due elementi, gravando invece sul datore di lavoro, una volta che il lavoratore abbia provato le suddette circostanze, l'onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e, tra queste, di aver vigilato circa l'effettivo uso degli strumenti di cautela forniti al dipendente, non potendo il datore medesimo essere totalmente esonerato da responsabilità in forza dell'eventuale concorso di colpa del lavoratore, se non quando la condotta di quest'ultimo, in quanto del tutto imprevedibile rispetto al procedimento lavorativo "tipico" ed alle direttive ricevute, rappresenti essa stessa la causa esclusiva dell'evento.

La Suprema Corte - applicando i predetti principi alle circostanze in fatto emerse dall'istruttoria e così accogliendo gli addebiti di omessa adozione e di omesso controllo delle misure di sicurezza imputati al datore di lavoro - conclude che "spettava a quest'ultimo fornire la prova liberatoria", la quale, tuttavia, "non è stata fornita, avendo la Corte d'Appello accertato, al contrario, con giudizio di fatto non sindacabile in sede di legittimità, un difetto di vigilanza e di controllo datoriale in occasione dell'infortunio".




Interesse al distacco del lavoratore e gruppo di imprese

Cass. Sez. Lav. 21 aprile 2016, n. 8068

Pres. Di Cerbo; Rel. Negri Della Torre; P.M. Sanlorenzo; Ric. B.M.; Contr. C.d.C.C.d.R. s.p.a.;

Rapporto di lavoro - Distacco - Gruppo di imprese - Interesse del distaccante alla realizzazione di comuni strutture organizzative e produttive - Sussiste

Pur nel contesto di una distinta soggettività giuridica, ciascuna componente del gruppo di imprese è titolare dell'interesse a concorrere, anche mediante il distacco di propri dipendenti, alla realizzazione di comuni strutture produttive e organizzative, che si pongano in un rapporto di coerenza con gli obiettivi di efficienza e funzionalità del gruppo stesso e con il dato unificante di una convergenza di interessi economici, anche intesa come progetto di riduzione attuale o potenziale dei costi di gestione.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione esprime un principio molto interessante in tema di distacco dei lavoratori: fattispecie per la cui legittimità è necessario che sussista un concreto interesse dell'impresa distaccante.

Nel caso di specie, i giudici confermano la sentenza di appello con cui era stato rinvenuto tale interesse - apprezzandolo nella sua effettività - anche nel caso di distacco dei lavoratori di un'azienda, facente parte di un gruppo di imprese, presso un'altra azienda, incaricata di svolgere attività amministrative in favore di tutte le imprese del gruppo.

Sul punto, la Cassazione afferma che "pur nel contesto di una distinta soggettività giuridica, ciascuna componente del gruppo di imprese è titolare dell'interesse a concorrere, anche mediante il distacco di propri dipendenti, alla realizzazione di comuni strutture produttive e organizzative, che si pongano in un rapporto di coerenza con gli obiettivi di efficienza e funzionalità del gruppo stesso e con il dato unificante di una convergenza di interessi economici, anche intesa come progetto di riduzione attuale o potenziale dei costi di gestione".

Fondamento di tale ricostruzione è la considerazione secondo cui "l'interesse del soggetto distaccante non può essere separato da quello del raggruppamento di cui il soggetto stesso è parte economicamente integrata e risulta anzi direttamente connesso e funzionale all'integrazione di quest'ultimo".

Inoltre, di particolare interesse (anche per possibili implicazioni future che potrebbe comportare) è il passaggio con cui i giudici spiegano l'iter logico posto a base della menzionata conclusione.

La Corte fa riferimento alla disciplina del distacco in presenza di "rete di impresa": fattispecie introdotta di recente dal d.l. 76/2013 (convertito, con modificazioni, dalla l. 99/2013). Qui, il legislatore fa sorgere l'interesse dell'impresa distaccante (nell'ambito della rete di impresa) in via "automatica": vale a dire, in considerazione della mera partecipazione dell'impresa alla predetta rete. Posto che secondo la S.C. trattasi di una presunzione assoluta, ciò che viene ritenuto "significativo" è la connessione operata dalla legge tra la (mera) esistenza della rete e la sussistenza dell'interesse del distaccante: quindi, il far discendere il secondo dalla semplice constatazione della presenza di un contratto con cui "più imprenditori, perseguendo scopi comuni in termini di innovazione e competitività, stabiliscono rapporti di collaborazione nell'esercizio delle loro imprese".

Ebbene, a parere della Corte, quantomeno in relazione a tale ultimo punto, il contratto di rete di imprese genererebbe una situazione di fatto pienamente assimilabile a quella del gruppo di imprese, consentendo di istituire uno stretto parallelismo tra le due fattispecie: a cominciare, come si è visto, dall'individuazione dell'interesse dell'impresa distaccante.




Malattia, licenziamento per superamento del comporto

Cass. Sez. Lav. 14 aprile 2016, n. 7433

Pres. Macioce; Rel. Balestrieri; P.M. Celeste; Ric. F.A. s.r.l.; Controric. F.G..

Superamento del periodo di comporto - Richiesta di ferie - Rifiuto immotivato del datore di lavoro - Licenziamento - Illegittimità

Il lavoratore ha la facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto. Grava, quindi, sul datore di lavoro, cui è generalmente riservato il diritto di scelta del tempo delle ferie, di dimostrare - ove sia stato investito di tale richiesta - di aver tenuto conto, nell'assumere la relativa decisione, del rilevante e fondamentale interesse del lavoratore ad evitare in tal modo la possibile perdita del posto di lavoro per scadenza del periodo di comporto.

Nota

La fattispecie, sottoposta al vaglio della Suprema Corte, attiene al licenziamento irrogato ad un lavoratore per superamento del periodo di comporto. Il lavoratore in questione, in prossimità dello scadere del termine, aveva chiesto (ed ottenuto) un periodo di aspettativa. Una volta decorso tale ulteriore periodo, la società non aveva accolto la richiesta di ferie, pure avanzata dal lavoratore, e aveva comminato il licenziamento.

Il Tribunale di Caltagirone dichiarava illegittimo il licenziamento - con conseguente condanna della società resistente all'immediata reintegra del ricorrente nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno pari alle retribuzioni medio tempore maturate - ritenendo che la richiesta di aspettativa aveva sospeso il periodo di comporto. Non affrontava, invece, la questione del diritto alle ferie, ritenendola assorbita.

La Corte d'Appello di Catania, nel rigettare l'appello proposto dalla società, adduceva, come ragione dell'illegittimità del licenziamento, il fatto che la società non avesse accolto - senza alcuna valida ragione - la richiesta di ferie presentata dal lavoratore prima dello scadere del periodo di aspettativa.

Avverso tale sentenza la società proponeva ricorso per Cassazione articolato in plurimi motivi. In particolare, la società ricorrente denunciava la violazione degli artt. 2109 e 2110 c.c., nonché della normativa contrattual-collettiva applicabile, per avere la Corte territoriale affermato che la società - una volta decorso, oltre al periodo di comporto, anche quello di aspettativa - non doveva licenziare il lavoratore, in quanto avrebbe dovuto, in assenza di valide ragioni ostative, concedere anche le ferie richieste dal lavoratore. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, richiamandosi all'orientamento giurisprudenziale (cfr. ex plurimis Cass. 07/06/2013, n. 14471, Cass. 03/03/2009, n. 5078; Cass. 15/12/2008, n. 29317) secondo cui è illegittimo il licenziamento per superamento del periodo di comporto, allorchè il lavoratore abbia tempestivamente richiesto al datore di lavoro di fruire, in luogo dell'assenza per malattia, di un periodo di ferie maturate e non godute (al fine di sospendere il decorso del termine di comporto), ricevendone immotivato diniego. La Corte di illegittimità, ha, infatti, ribadito che, nel bilanciamento dei contrapposti interessi (da un lato, l'interesse del lavoratore alla prosecuzione del rapporto e, dall'altro, quello dell'azienda all'ordinato svolgimento dell'attività d'impresa), prevale quello del lavoratore, con la conseguenza che: a) il lavoratore ha la facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, al fine di sospendere il decorso del periodo di comporto; b) il datore di lavoro, investito di tale richiesta, deve, in ossequio ai canoni di correttezza e buona fede - pur in assenza di qualsivoglia norma che imponesse l'accoglimento della richiesta di ferie - dimostrare di aver tenuto conto, nell'assumere la relativa decisione, del rilevante e fondamentale interesse del lavoratore ad evitare la perdita del posto di lavoro per scadenza del periodo di comporto, motivando adeguatamente il proprio eventuale diniego.

Corretta (oltre che coerente con i suesposti principi) è stata, dunque, ritenuta la pronuncia della Corte territoriale, per aver la stessa accertato che, nel caso in esame, il datore di lavoro non aveva in alcun modo dedotto (né tanto meno provato), la sussistenza di ragioni organizzative ostative alla concessione delle ferie.




Assoluzione in sede penale e effetti nel giudizio civile

Cass. Sez. Lav. 18 aprile 2016, n. 7686

Pres. Macioce; Rel. Balestrieri; P.M. Celeste; Ric. P.C. e G.G.; Contr. Fallimento BSK s.r.l.;

Giudicato penale di assoluzione - Effetto preclusivo nel giudizio civile - Condizioni - Accertamento in sede penale dell'insussistenza del fatto o della partecipazione dell'imputato.

Nel rapporto tra giudizio penale e giudizio civile, ai sensi degli artt. 652 e 654 c.p.p., il giudicato penale di assoluzione ha effetto preclusivo nel giudizio civile solo ove contenga un effettivo e specifico accertamento circa l'insussistenza del fatto o della partecipazione dell'imputato e non anche nell'ipotesi in cui l'assoluzione sia determinata dall'accertamento dell'insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l'attribuibilità di esso all'imputato.

Nota

Nel caso sottoposto all'esame della Suprema Corte, due lavoratori, dipendenti con mansioni di guardie giurate, si erano rivolti al Tribunale del lavoro di Nocera Inferiore affinché venisse dichiarata l'illegittimità dei licenziamenti loro intimati.

Il Tribunale rigettava le domande e la pronuncia veniva confermata dalla Corte di appello di Salerno, la quale rilevava che i fatti contestati, consistenti nella sottrazione di euro 10.500,00 da un plico di banconote ritirato dai due dipendenti presso un supermercato, erano risultati comprovati - pur in assenza della pronuncia di una sentenza penale di condanna - a seguito degli accertamenti compiuti nel giudizio civile, dal quale era, tra l'altro, emersa la significativa circostanza del rinvenimento, all'interno dell'abitazione dei due dipendenti, di rilevanti somme di denaro.

La Suprema Corte, cui i lavoratori si erano rivolti per la riforma della sentenza, cassava la pronuncia della Corte di appello di Salerno, rinviando alla Corte di appello di Napoli per un ulteriore accertamento anche alla luce della sentenza di assoluzione penale.

La Corte di appello di Napoli, riesaminati i fatti, rigettava le domande dei due lavoratori.

Avverso tale decisione i dipendenti hanno proposto un nuovo ricorso per cassazione denunciando la violazione di legge, ex art. 2909 c.c. e art. 654 c.p.p., con riferimento al giudicato di assoluzione, per non aver commesso il fatto, contenuto nella sentenza irrevocabile pronunciata dal Tribunale penale di Napoli.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso, rilevando che, nel rapporto tra giudizio penale e giudizio civile, ai sensi degli artt. 652 e 654 c.p.p., il giudicato penale di assoluzione ha effetto preclusivo nel giudizio civile solo ove contenga un effettivo e specifico accertamento circa l'insussistenza del fatto o della partecipazione dell'imputato e non anche nell'ipotesi in cui l'assoluzione sia determinata dall'accertamento dell'insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l'attribuibilità di esso all'imputato e cioè quando l'assoluzione sia stata pronunciata a norma dell'art. 530, secondo comma, c.p.p., essendo in tal caso necessario procedere ad un autonomo accertamento dei fatti (cfr. Cass. dell'11 febbraio 2011, n. 3376).

Si è anche chiarito che, in caso di intervenuta costituzione di parte civile, l'efficacia vincolante della sentenza penale nel processo civile riguarda esclusivamente l'accertamento (positivo o negativo) in ordine ai fatti oggetto di quel giudizio, con la conseguenza che, una volta che il suddetto accertamento non sia reso possibile per insufficienza probatoria, la sentenza penale di assoluzione derivante dalla dubbia sussistenza di uno degli elementi (materiale o psicologico) integratori del fatto, non è vincolante (cfr. Cass. del 13 settembre 2012, n. 15353).

Tali princìpi, a parere della Cassazione, sono stati correttamente applicati dalla Corte di merito nel caso in esame, avendo questa accertato che la sentenza del Tribunale penale di Napoli non conteneva un chiaro accertamento della mancata commissione del fatto da parte dei ricorrenti, in quanto la pronuncia di assoluzione era basata su contraddizioni dei testi e lacune istruttorie.




Licenziamento disciplinare e tutela del diritto di difesa del lavoratore

Cass. Sez. Lav. 17 marzo 2016, n. 5305

Pres. Roselli; Rel. Torrice; Ric. C.N.; Controric. P.I. S.p.A.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Licenziamento disciplinare - Art. 7 Legge 300/1970 - Diritto alla difesa cd. tecnica nell'ambito del procedimento disciplinare - Esclusione - Eccezione dovuta alla sussistenza di un procedimento penale - Esclusione

Nel sistema delineato dall'art. 7 L 300/1970 il diritto di difesa è ampiamente garantito al lavoratore dalla contestazione dell'addebito, dal diritto che egli ha di essere sentito (comma 2), dalla necessità di attendere cinque giorni - per i provvedimenti più gravi del rimprovero verbale - prima di poter dar corso all'applicazione della sanzione, nonché dalla possibilità di farsi assistere da un rappresentante sindacale. E' stato altresì precisato che detta assistenza esaurisce la tutela di legge, non essendovi nella stessa alcun riferimento alla difesa cosiddetta "tecnica" assicurata da un avvocato, che è normalmente prevista dall'ordinamento solo per il giudizio penale (art. 24 Cost., comma 2) e che può essere riconosciuta o meno al di fuori di tale ipotesi in base a valutazione discrezionale del legislatore. La circostanza che per gli stessi fatti il lavoratore sia per avventura chiamato a rispondere anche in sede di processo penale non consente opzioni interpretative diverse.

Nota

La sentenza in esame ha ad oggetto la tutela del diritto di difesa del lavoratore nell'ambito del procedimento disciplinare regolato dall'art. 7 della L. 300 del 1970. Il lavoratore, impiegato presso la società datrice di lavoro con mansione di portalettere, veniva licenziato all'esito di un procedimento disciplinare per aver gettato in una discarica della corrispondenza. La Corte d'Appello di Milano aveva confermato la sentenza emessa dal giudice di prime cure di rigetto del ricorso, respingendo tra l'altro anche l'eccezione di nullità del licenziamento ai sensi dell'art. 7 L. 300/1970 fondata sul fatto che al lavoratore non era stato concesso di farsi assistere da un legale nel corso dell'audizione orale richiesta per rendere le giustificazioni. La Corte territoriale, infatti, aveva rilevato che le norme di legge e di contratto collettivo che regolano il procedimento disciplinare non prevedono il diritto del lavoratore di farsi assistere da un legale in tale sede. Contro tale decisione il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione articolato in vari motivi tra i quali, per quanto qui interessa, la violazione e falsa applicazione dell'art. 7 L. 300/1970. In particolare, il lavoratore sosteneva che la norma citata non escludesse il diritto di farsi assistere da un avvocato nel corso dell'audizione orale, oltreché dal rappresentante sindacale, e riteneva altresì che la Corte avesse omesso di considerare il fatto che sugli stessi fatti oggetto di contestazione era in corso un procedimento penale ai suoi danni (con la conseguenza che le dichiarazioni rese in sede di giustificazioni avrebbero potuto essere utilizzate nel procedimento penale stesso). La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato tale motivo d'impugnazione e ha rigettato l'intero ricorso. Secondo la Suprema Corte, infatti, "nel sistema delineato dall'art. 7 L. 300/1970 il diritto di difesa è ampiamente garantito al lavoratore dalla contestazione dell'addebito, dal diritto che egli ha di essere sentito (comma 2), dalla necessità di attendere cinque giorni - per i provvedimenti più gravi del rimprovero verbale - prima di poter dar corso all'applicazione della sanzione, nonché dalla possibilità di farsi assistere da un rappresentante sindacale". La Cassazione ha altresì aggiunto che "detta assistenza esaurisce la tutela di legge, non essendovi nella stessa alcun riferimento alla difesa cosiddetta "tecnica" assicurata da un avvocato, che è normalmente prevista dall'ordinamento solo per il giudizio penale (art. 24 Cost., comma 2)" e che "la circostanza che per gli stessi fatti il lavoratore sia per avventura chiamato a rispondere anche in sede di processo penale non consente opzioni interpretative diverse, avuto riguardo alla diversità della struttura del procedimento disciplinare, connotato dall'ambito interprivato, rispetto al procedimento penale per il quale la legge impone l'assistenza tecnica".

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