Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Demansionamento e rifiuto di eseguire la prestazione

Licenziamento per giusta causa e tempestività

Divieto di intermediazione di manodopera

Licenziamento disciplinare

Trasferimento e licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Demansionamento e rifiuto di eseguire la prestazione

Assegnazione a mansioni non rispondenti alla qualifica di appartenenza - Rifiuto di eseguire la prestazione - Licenziamento - Legittimità

Il lavoratore adibito a mansioni non rispondenti alla qualifica può chiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell'ambito della qualifica di appartenenza, ma non può rifiutarsi aprioristicamente, senza avallo giudiziario, di eseguire la prestazione richiestagli, essendo egli tenuto a osservare le disposizioni per l'esecuzione del lavoro impartite dall'imprenditore ai sensi degli artt. 2086 e 2104 cod. civ., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall'art. 41 Cost., e potendo egli invocare l'art. 1460 cod. civ. solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro, a meno che l'inadempimento di quest'ultimo sia tanto grave da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore medesimo.

Cass. Sez. Lav. 5 maggio 2016, n. 9060

Pres. Amoroso; Rel. Bronzini; P.M. Fresa; Ric. A.G.; Controric. C. di C. "V.D.S. S.R.L."

NOTA

La Corte di appello di Catanzaro confermava la decisione del giudice di primo grado che aveva rigettato la domanda proposta dalla lavoratrice diretta a dichiarare, previo accertamento dell'ingiusto demansionamento subito, l'illegittimità del licenziamento per giustificato motivo soggettivo irrogato da parte del datore di lavoro per aver ella opposto il proprio rifiuto allo svolgimento delle mansioni di pulizia delle scale e dei reparti.

La Corte territoriale osservava che tale rifiuto doveva ritenersi ingiustificato tenuto conto che, come era emerso nel corso del giudizio, la qualifica di "infermiera" (corrispondente alla categoria B del CCNL applicabile) era stata attribuita alla lavoratrice a soli fini economici e che, di fatto, la stessa non aveva svolto le relative mansioni bensì aveva comunque svolto mansioni di pulizia anche prima dell'ordine di servizio rifiutato, essendo stata inserita nei turni degli "ausiliari", come da lei stessa ammesso. Avverso tale pronuncia proponeva ricorso la lavoratrice fondato su due motivi. In particolare, la lavoratrice, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 2103 c.c., nonché dei contratti collettivi nazionali di lavoro, sosteneva che non poteva considerarsi accettabile la tesi sostenuta dalla datrice di lavoro secondo cui sarebbero scindibili il trattamento retributivo e le mansioni svolte e che, pertanto, essendo la stessa inquadrata nel livello B aveva diritto ad essere adibita a mansioni compatibili con l'inquadramento posseduto tra le quali non sarebbero rientrati i compiti di pulizia. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La Corte di Cassazione ha innanzitutto osservato che il thema decidendum della controversia non consiste nell'accertamento se l'inquadramento spettante alla ricorrente fosse compatibile con l'affidamento delle mansioni di pulizia, ma nel diverso accertamento teso a verificare se le mansioni richieste comportassero un vulnus così grave ed irreparabile alla professionalità della lavoratrice tale da legittimare il rifiuto della stessa a svolgere la prestazione senza neppure potere aspettare un accertamento giudiziario. A tale proposito, la Suprema Corte ha osservato che secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il lavoratore adibito a mansioni non rispondenti alla qualifica posseduta può chiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell'ambito della qualifica di appartenenza, ma non può rifiutarsi aprioristicamente, senza avallo giudiziario, di eseguire la prestazione richiestagli, essendo egli tenuto a osservare le disposizioni per l'esecuzione del lavoro impartite dall'imprenditore ai sensi degli artt. 2086 e 2104 cod. civ., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall'art. 41 Cost.. Ed infatti, come è stato ulteriormente chiarito dalla Suprema Corte, il lavoratore può invocare l'art. 1460 cod. civ. solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro, a meno che l'inadempimento di quest'ultimo sia tanto grave da incidere in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore medesimo (Cass. 20 luglio 2012, n. 12696). Facendo applicazione di tali principi al caso in esame la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte territoriale, con motivazione congrua e logicamente coerente, oltre che ancorata a dati obiettivamente emergenti dagli atti processuali, avesse correttamente escluso l'esistenza di un inadempimento così grave da incidere sulle "esigenze vitali del lavoratore" tenuto conto che, come era emerso nel corso del giudizio, la lavoratrice già svolgeva un'attività consimile essendo stata inclusa nei relativi turni di servizio degli "ausiliari" anche prima dell'ordine di servizio rifiutato, e considerato inoltre che l'inquadramento nel livello B le era stato riconosciuto a soli fini economici.




Licenziamento per giusta causa e tempestività

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Giusta causa - Principi della immediatezza della contestazione e della tempestività della sanzione - ratio - Carattere relativo - Accertamento di merito - Insindacabilità in cassazione - Fattispecie

In tema di licenziamento per giusta causa, l'immediatezza della comunicazione del provvedimento espulsivo rispetto al momento della mancanza addotta a sua giustificazione, ovvero rispetto a quello della contestazione, si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione il comportamento del lavoratore; peraltro, il requisito dell'immediatezza deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustifichino o meno il ritardo.

Cass. Sez. Lav. 11 maggio 2016, n. 9680

Pres. Napoletano; Rel. Tria; P.M. Celeste; Ric. D. S.r.l.; Controric. C.T.

NOTA

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d'Appello di Milano, che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore, con conseguente condanna della società datrice di lavoro a reintegrare lo stesso. In particolare, la Corte d'Appello aveva ritenuto tardiva la contestazione disciplinare alla base del licenziamento, in quanto effettuata a distanza di quasi quattro mesi dalla condotta del lavoratore, consistente nell'aver utilizzato in modo improprio ed a proprio vantaggio una tessera fedeltà emessa dalla società datrice di lavoro a beneficio dei propri clienti; tale condotta infatti, a detta della Corte, era da qualificare come comportamento di immediata conoscibilità da parte della datrice di lavoro. Ricorre per cassazione la società, deducendo che la sentenza di secondo grado sarebbe erronea poiché in contrasto con il consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità secondo cui l'immediatezza della contestazione va intesa in senso relativo in considerazione della natura del comportamento contestato e del tempo occorrente per l'espletamento delle indagini, poiché nel caso di specie la società aveva dovuto effettuare complesse verifiche che giustificavano il lasso di tempo intercorso tra la condotta del lavoratore e la contestazione disciplinare. La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato, rilevando innanzitutto che l'immediatezza della contestazione disciplinare si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento, ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la condotta del lavoratore.

Inoltre, pur dovendosi intendere il requisito dell'immediatezza in senso relativo - potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore, ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso - resta comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustifichino o meno tale ritardo (cfr. tra le tante: Cass. n. 13955/2014, Cass. n. 20719/2013, Cass. n. 156491/2010).

Ebbene, nella specie la Corte d'Appello, con motivazione esauriente e immune da vizi, nonché conforme alla consolidata giurisprudenza di legittimità, ha affermato che l'utilizzo improprio della tessera fedeltà contestato al lavoratore era da qualificare come comportamento di immediata conoscibilità da parte della società stessa, ritenendo pertanto non giustificato il ritardo di quattro mesi per la relativa contestazione disciplinare. Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.




Divieto di intermediazione di manodopera

Intermediazione di manodopera - Appalto endoaziendale - Requisiti di liceità - Effettiva organizzazione della prestazione - Autonomia del risultato produttivo perseguito dall'appaltatore - Irrilevanza della gestione amministrativa del rapporto

Il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro (art. 1 l. 23 ottobre 1960 n. 1369), in riferimento agli appalti "endoaziendali", caratterizzati dall'affidamento ad un appaltatore esterno di tutte le attività, ancorchè strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, opera tutte le volte in cui l'appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all'appaltatore - datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo.

Cass. Sez. Lav. 9 maggio 2016, n. 9288

Pres. Napoletano; Rel. Berrino; P.M. Celentano; Ric. RAI s.p.a..; Controric. M.F.

NOTA

La fattispecie in esame verte in tema di intermediazione di manodopera ai sensi della L. 1369/60 applicabile ratione temporis.

La Corte d'Appello di Torino ha respinto il gravame proposto dalla società avverso la sentenza di accoglimento della domanda avanzata da un socio lavoratore di una cooperativa volta ad ottenere la dichiarazione dell'intervenuta interposizione di manodopera. In particolare la Corte territoriale ha ritenuto ravvisabile la fattispecie vietata di cui all'art. 1, comma 1, L. 1369/60, avendo accertato nel corso dell'istruttoria che il lavoratore era stato sostanzialmente messo a disposizione della committente, che esercitava in via integrale ed esclusiva i poteri organizzativi direttivi e di controllo, rimanendo in capo all'appaltatrice solo la mera gestione amministrativa del rapporto (ferie, permessi, etc.).

Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per Cassazione, censurando il provvedimento laddove non ha valutato che, nella specie, si trattava di un appalto endoaziendale avente ad oggetto un servizio di durata continuativa, non occasionale ed inserito nel ciclo produttivo della committente, contraddistinto dallo svolgimento di mansioni semplici tali non necessitare alcun ordine specifico. Secondo la società i giudici del gravame non avrebbero, cioè, considerato che la specificità dell'appalto (endoaziendale) comportava che non ogni disposizione impartita dall'appaltante ai dipendenti dell'appaltatore poteva considerarsi espressione del potere direttivo del datore di lavoro, ma solo quelle attinenti alle modalità di svolgimento della prestazione e non, invece, quelle attinenti al risultato del servizio appaltato ed al suo coordinamento con il ciclo produttivo aziendale.

La Suprema Corte rigetta la censura ribadendo il principio di cui alla massima, già affermato in specifici precedenti richiamati in motivazione (Cass. 5 ottobre 2002, n. 14302; Cass. 21 luglio 2006, n. 16788). Rileva la Cassazione che la Corte territoriale, nell'ambito dell'istruttoria - di cui ha riportato i relativi sviluppi - a prescindere dalla sussistenza o meno di una reale struttura imprenditoriale in capo alla cooperativa, aveva accertato che l'effettivo oggetto della fornitura era stata la mera manodopera dell'originario ricorrente, che, di fatto, aveva messo le sue energie lavorative a disposizione della committente, nella cui organizzazione era stabilmente inserito, senza alcun intervento nella direzione della sua prestazione da parte dell'appaltatrice, che si era limitata alla mera gestione amministrativa del rapporto. In tale direzione la Corte territoriale aveva accertato che oggetto dell'appalto non era stata la gestione complessiva del magazzino presso cui operava il ricorrente, bensì solo la "forza lavoro" destinata ad operare alle dipendenze e sotto la direzione della responsabile, che era una dipendente della committente e che provvedeva ad impartirgli quotidianamente le direttive e controllava il lavoro da lui svolto.

Alla luce di tali dati la Cassazione ha ritenuto corretta la decisione dei giudici di merito dichiarativa dell'avvenuta interposizione di manodopera ed ha, conseguentemente, rigettato il ricorso.




Licenziamento disciplinare

Lavoro subordinato - Procedimento disciplinare - Estinzione del rapporto di lavoro - Giusta causa - Immutabilità degli addebiti - Valutazione dei precedenti disciplinari risalenti ad oltre due anni dal licenziamento - Ammissibilità - Limiti - Fattispecie.

Il principio dell'immutabilità dell'addebito disciplinare mosso al lavoratore ai sensi dell'articolo 7 dello statuto lavoratori preclude al datore di lavoro di licenziare per altri motivi, diversi da quelli contestati, ma non vieta di considerare fatti non contestati e situati a distanza anche superiore ai due anni dal recesso, quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti posti a base del licenziamento, al fine della valutazione della complessiva gravità, sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio del datore di lavoro.

Cass. Sez. Lav. 6 maggio 2016, n. 9235

Pres. Napoletano; Rel. Esposito; P.M. Celentano; Ric P.S..; Controric. F. S.p.A.

NOTA

La Corte d'appello di Palermo ha confermato la sentenza del Tribunale territoriale che ha riconosciuto legittimo il licenziamento per giusta causa di un dipendente all'esito di un procedimento disciplinare.

In particolare, il dipendente addetto al servizio di guardia e assistenza dei bacini di carenaggio e incaricato di svolgere la propria prestazione durante l'orario notturno, aveva ingiustificatamente abbandonato la propria postazione di lavoro per recarsi in altro luogo non destinato allo svolgimento di alcuna attività lavorativa, con l'unico obiettivo di pescare con canna telescopica munita di accessori. Il superiore gerarchico che aveva sorpreso il dipendente a pescare durante l'orario di lavoro rinveniva anche una busta di plastica trasparente, contenente del pesce, che lo stesso dipendente al momento del reperimento riconosceva come pescato nella stessa notte.

Nello statuire, la Corte territoriale riconosceva che il fatto contestato fosse provato e che lo stesso integrasse la fattispecie di "abbandono del posto di lavoro da parte del personale cui sono specificamente affidate mansioni di sorveglianza, custodia (...)" come previsto dal Contratto Collettivo applicato.

Avverso la sentenza della Corte di Appello proponeva ricorso per Cassazione il dipendente sostenendo che i fatti posti alla base del licenziamento non erano idonei a giustificare l'atto di recesso. Secondo P.S. la condotta contestata non configurava un abbandono, ma al più un momentaneo allontanamento dal posto di lavoro non sanzionabile con il licenziamento in considerazione della brevissima durata dell'assenza, della circostanza che il dipendente si trovasse all'interno della zona che normalmente pattugliava, della mancanza di danno per la Società e dell'assenza di precedenti nel biennio anteriore ai fatti contestati. Con riferimento a tale ultimo profilo il dipendente rilevava che la Corte territoriale nel valutare la legittimità del licenziamento aveva erroneamente considerato anche i precedenti disciplinari ultra biennali non oggetto di contestazione.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Da un lato, infatti, la Cassazione dopo essersi pronunciata sulle nozioni di giusta causa di licenziamento e proporzionalità della sanzione, ha ritenuto il fatto addebitato al dipendente idoneo a minare il rapporto fiduciario integrando una giusta causa di recesso.

D'altra parte, in merito alla considerazione dei precedenti disciplinari a distanza ultra biennale, la Cassazione ha ribadito che ai fini del licenziamento disciplinare ben possono essere considerati i fatti non contestati e situati a distanza anche superiore ai due anni dal recesso, quali circostanze confermative della rilevanza degli addebiti posti a fondamento del licenziamento. Secondo la Corte, la considerazione di fatti non contestati risalenti nel tempo rappresenta uno strumento utile per la valutazione della complessiva gravità delle inadempienze del dipendente e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio del datore di lavoro.




Trasferimento e licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Trasferimento - Malattia - Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Accettazione del trasferimento - Necessità - Illegittimità del licenziamento

Ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., il dipendente ha l'obbligo di esplicitare la propria volontà in merito al trasferimento disposto dal datore di lavoro e quest'ultimo, prima di irrogare il licenziamento per soppressione della posizione, ha l'obbligo di verificare che il lavoratore abbia effettivamente rifiutato il trasferimento.
L'invio di un certificato medico successivamente alla comunicazione di trasferimento può essere interpretato, di fatto, come accettazione del trasferimento.

Cass. Sez. Lav. 4 maggio 2016, n. 8882

Pres. Amoroso; Rel. Riverso; P.M. Sanlorenzo; Ric. F.D. S.p.A.; Controric. S.M.

NOTA

Un'impresa farmaceutica comunicava ad un proprio dipendente, adibito alla mansione di informatore scientifico del farmaco nella zona di Ascoli, il trasferimento ad altra zona. Successivamente a tale comunicazione, il dipendente si metteva in malattia. La società, ritenendo che il lavoratore avesse rifiutato il trasferimento, intimava il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in ragione della soppressione del posto di lavoro. La Corte d'Appello di Ancona, in riforma della sentenza del Tribunale di Ascoli Piceno, dichiarava illegittimo il licenziamento (disposto prima dell'entrata in vigore della L. 92/2012, anche nota come Riforma Fornero), condannando il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro, oltre al pagamento della retribuzione globale di fatto dal giorno del recesso a quello di effettiva reintegrazione.

La Corte territoriale, premessa l'inesistenza di un obbligo del dipendente di comunicare al proprio datore di lavoro l'accettazione o meno del disposto trasferimento, considerava l'invio del certificato medico quale accettazione di fatto del trasferimento.

Avverso tale sentenza la società ricorreva in Cassazione; il dipendente resisteva con controricorso.

Il datore di lavoro contestava, sostanzialmente, che l'invio del certificato medico potesse essere interpretato quale accettazione del trasferimento.

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, confermando indirettamente la sentenza di secondo grado.

Nel merito della fattispecie, la Suprema Corte ha incidentalmente affermato che, in applicazione degli obblighi di buona fede e correttezza, il dipendente è tenuto ad esplicitare la propria volontà in merito al trasferimento e che il datore di lavoro, prima di poter irrogare il licenziamento per soppressione della posizione, è obbligato a verificare che il lavoratore abbia effettivamente accettato il trasferimento.

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