Contenzioso

Rassegna della Cassazione

Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Infortunio sul lavoro, responsabilità del datore e nesso causale

Controllo del lavoratore

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Forma del contratto a termine

Impugnazione del licenziamento

Infortunio sul lavoro, responsabilità del datore e nesso causale

Cass. Sez. Lav. 13 maggio 2016, n. 9899

Pres. Venuti; Rel. Berrino; Ric. B.N.L.; Controric. P.A.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Danno alla salute del lavoratore - Responsabilità contrattuale del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. - Configurabilità - Nesso di causalità fra attività lavorativa ed evento - Criterio della equivalenza delle cause - Applicabilità.

In materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali, trova applicazione la regola contenuta nell'art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, salvo che il nesso eziologico sia interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l'evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte esamina l'elemento del nesso eziologico quale presupposto di configurabilità della responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c.

Segnatamente, nel caso di specie, un dipendente - dopo aver promosso con successo un procedimento cautelare per la reintegrazione nelle mansioni d'assunzione - agiva in giudizio per il risarcimento di danni biologici asseritamente subîti a seguito di una lamentata "emarginazione lavorativa".

I Giudici del merito accertavano la responsabilità datoriale sull'assunto che - come documentato dalla relazione del consulente tecnico d'ufficio - l'"isolamento" in cui era stato posto il lavoratore aveva "negativamente influito" sul suo stato psichico, comportando, sia pure a livello di concausa efficiente, l'"aggravamento della malattia determinata da crisi d'ansia dalla quale il dipendente era affetto". Tale situazione - soggiungeva la Corte di merito - aveva, addirittura, indotto il dipendente a sospendere una terapia medicinale, con aggravamento dello stato psichico, reso ancor più incerto dall'illegittimo comportamento datoriale. A comprova di ciò - concludeva la Corte territoriale - la società, "senza obiettive e documentate esigenze organizzative", aveva provveduto solo tardivamente ad una diversa sistemazione del proprio dipendente consona all'esito del provvedimento cautelare, sicché il "complesso delle circostanze rendeva evidente la violazione dell'art. 2087 cod. civ.".

Avverso tale decisione veniva proposto ricorso per cassazione, col quale il datore lamentava il vizio di omessa, insufficiente e contradditoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in quanto la Corte di merito avrebbe escluso che la sospensione della terapia medica da parte del lavoratore fosse di per sé idonea a determinare l'insorgenza del pregiudizio lamentato.

La Suprema Corte respinge la doglianza, argomentando, anzitutto, che la Corte d'Appello - conformemente a quanto ritenuto dal consulente di prime cure - aveva correttamente statuito che il comprovato stato di isolamento aveva comportato, sia pure a livello di concausa, l'aggravamento della malattia diagnosticata al dipendente. Sicché, i Giudici di legittimità convengono che tale situazione lavorativa aveva contribuito a causare o, comunque, ad aggravare l'evento, e che, pertanto, non può non prevalere - ai fini dell'accertamento della responsabilità del datore di lavoro - il principio di equivalenza delle concause lavorative nella produzione dell'evento dannoso in base alla norma di cui all'art. 41 c.p., applicabile anche alla materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, atteso che, per insegnamento costante del Supremo Collegio, in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali, deve trovare applicazione la regola contenuta nell'art. 41 cod. pen., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, salvo che il nesso eziologico sia interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l'evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni.

 

 

Controllo del lavoratore

Cass. Sez. Lav. 17 maggio 2016, n. 10069

Pres. Nobile; Rel. Manna; P.M. Mastroberardino; Ric. S.I. s.r.l.; Contr. S.M.;

Licenziamento disciplinare - Tempestività della contestazione - Carattere fiduciario del rapporto di lavoro - Affidamento del datore di lavoro sul corretto adempimento del lavoratore - Obbligo di controllo continuo e/o assiduo del lavoratore - Insussistenza

Il datore di lavoro ha il potere, ma non l'obbligo, di controllare in modo continuo e assiduo i propri dipendenti contestando loro immediatamente qualsiasi infrazione al fine di evitarne un possibile aggravamento: un obbligo siffatto, non previsto da alcuna norma di legge né desumibile dai principi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., negherebbe in radice il carattere fiduciario del rapporto di lavoro subordinato, che implica che il datore di lavoro normalmente conti sulla correttezza del proprio dipendente, ossia che faccia affidamento sul fatto che egli rispetti i propri doveri anche in assenza di assidui controlli. Alla luce di ciò, la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore di lavoro avrebbe potuto accorgersi dell'infrazione ove avesse esercitato assidui controlli sull'operato del proprio dipendente, ma in relazione al momento in cui ne abbia acquisito piena conoscenza.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte cassa con rinvio una sentenza della Corte d'Appello di L'Aquila con cui era stato annullato un licenziamento per giusta causa sul duplice rilievo della particolare tenuità del dolo che aveva caratterizzato l'azione posta a base del procedimento disciplinare e della ritenuta tardività della contestazione d'addebito.

Il caso riguardava alcune richieste di rimborso carburante "gonfiate" da parte di un dipendente, nel tentativo di ottenere una somma più alta del dovuto.

Sul punto del dolo, la Cassazione annulla la sentenza di merito, in quanto quest'ultima, per giungere alle conclusioni relative alla tenuità dell'elemento soggettivo, era incorsa in "congetture", anziché in presunzioni semplici: le prime, infatti, discostandosi totalmente da una valutazione fondata sul c.d. id quod plerumque accidit, esulano dallo strumento di cui all'art. 2729 c.c. e pertanto, come ribadito dalla Corte, non possono costituire fonti del convincimento del giudice.

Ancor più interessanti sono le argomentazioni usate sul punto della tempestività. Anche qui la Cassazione ha ribaltato la sentenza d'appello affermando che il "parametro" della tempestività della contestazione disciplinare non può essere costituito da un dato prettamente temporale, che presupporrebbe la necessità di un controllo assiduo e continuo da parte del datore di lavoro sull'operato del lavoratore. Ed infatti, afferma la Corte che, in ragione del rapporto fiduciario che lega le parti del contratto di lavoro, il datore di lavoro conta sull'adempimento corretto (e spontaneo) del lavoratore: dunque, anche in assenza di controllo. Aggiungono i giudici che non v'è alcuna norma da cui possa desumersi un obbligo a carico del datore di lavoro di esercitare un controllo (tantomeno costante e/o continuo) sull'operato del proprio dipendente, escludendo altresì che tale obbligo possa scaturire dai doveri di correttezza e buona fede a cui sono tenute le parti nell'esecuzione del contratto (artt. 1175 e 1375 c.c.): in sostanza, gravare di tale onere il datore di lavoro significherebbe negare la natura fiduciaria del rapporto di lavoro.

In ragione di ciò, la Corte ritiene che la tempestività della contestazione disciplinare vada valutata, caso per caso, in relazione al momento in cui il datore di lavoro abbia acquisito piena conoscenza dell'illecito disciplinare commesso dal dipendente e non certo in relazione al momento in cui il primo avrebbe potuto accorgersi dell'infrazione ove avesse esercitato assidui controlli sull'operato del secondo: controlli siffatti che, è bene ribadirlo, il datore di lavoro non è in alcun modo tenuto ad effettuare.



 

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 6 aprile 2016, n. 6692

Pres. Di Cerbo; Rel. Cavallaro; Ric. H. S.p.A.; Controric. L.R.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Accordo di congelamento degli istituti economici al fine di salvaguardare l'assetto occupazionale - Sussistenza di un divieto implicito di intimare licenziamenti - Esclusione

In presenza di un accordo aziendale per il congelamento di alcuni istituti retributivi che miri alla salvaguardia dei livelli occupazionali che non contenga nella sua parte precettiva alcuna espressa rinuncia alla facoltà di licenziare non si può ricavare dall'enunciazione delle finalità che avevano presieduto alla sua stipulazione la necessità di un mutamento sopravvenuto della situazione economica quale presupposto indefettibile per poter intimare un licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo: altro è l'enunciazione dello scopo per il quale un certo accordo viene stipulato e altro invece l'effettivo suo conseguimento, che - specie quando una delle parti stipulanti sia un imprenditore - risente inevitabilmente dell'andamento nel tempo delle complesse variabili capaci di influenzare la domanda di merci e i conseguenti flussi di competenza e di cassa.

Nota

La Corte d'Appello di Torino, in totale riforma della sentenza di primo grado, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato al lavoratore, condannando la società datrice di lavoro alla reintegra dello stesso.

In precedenza la società aveva stipulato un accordo aziendale con cui era stato pattuito, al fine di salvaguardare i livelli occupazionali minacciati dall'apertura di una procedura di mobilità, il congelamento di determinati istituti economici. Secondo l'interpretazione della Corte territoriale tale accordo, proprio in ragione delle finalità per le quali era stato concluso (salvaguardia dell'occupazione), impediva alla società di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo in mancanza di sopravvenienze negative così marcate da vanificare l'equilibrio costi-benefici raggiunto con l'accordo. In mancanza di prova in merito, il fatto posto alla base del recesso era stato ritenuto manifestamente insussistente dalla Corte e, conseguentemente, il licenziamento illegittimo.

Contro tale decisione la società datrice di lavoro proponeva ricorso per Cassazione articolato in vari motivi denunciando, tra l'altro, violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e seguenti per avere la Corte territoriale interpretato l'accordo aziendale nel senso che il sacrificio economico imposto ai lavoratori richiedesse necessariamente, quale contropartita a carico della società, la rinuncia alla possibilità di intimare anche dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo in assenza di prova di sopravvenienze così marcate da vulnerare l'equilibrio raggiunto con l'accordo stesso.

La Cassazione ha ritenuto fondato tale motivo (con assorbimento degli ulteriori motivi di impugnazione) e cassato la sentenza con rinvio alla Corte d'Appello in diversa composizione. Secondo la Cassazione, infatti, la Corte territoriale ha attribuito alle espressioni adoperate dai contraenti nell'accordo aziendale una portata più ampia di quella scaturente dalle circostanze di fatto che avevano caratterizzato la contrattazione e la formazione del consenso in relazione all'accordo. Quest'ultimo, infatti, non contiene alcuna esplicita rinuncia da parte della società alla facoltà di licenziare. Secondo la suprema Corte, quindi, la Corte territoriale "non poteva ricavare dall'enunciazione delle finalità che avevano presieduto alla sua stipulazione la necessità di un mutamento sopravvenuto della situazione economica quale presupposto indefettibile per poter intimare un licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo: semplicemente perché altro è l'enunciazione dello scopo per il quale un certo accordo viene stipulato e altro invece l'effettivo suo conseguimento, che - specie quando una delle parti stipulanti sia un imprenditore - risente inevitabilmente dell'andamento nel tempo delle complesse variabili capaci di influenzare la domanda di merci e i conseguenti flussi di competenza e di cassa".

Conseguentemente "al fine di valutare la legittimità o illegittimità del licenziamento in questione, la Corte territoriale avrebbe dovuto comunque accertare se ne sussistessero i presupposti di legge, invece di assumere la mera stipulazione dell'accordo come sintomatica della loro insussistenza".

 

 

Forma del contratto a termine

Cass. Sez. Lav. 16 maggio 2016, n. 10009

Pres. Napoletano; Rel. Lorito; P.M. Celentano; Ric. M.P.; Controric. e ricorr. incident. F.B. S.p.A..

Contratto a tempo determinato - Causale - Sostituzione di un dipendente assente con diritto alla conservazione del posto ex art. 1 D.Lgs. n. 368/2001 - Apposizione di un termine per relationem (riferimento al rientro in servizio del lavoratore sostituito) - Legittimità

L'assunzione di un lavoratore allo scopo di sostituire temporaneamente un dipendente assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro - effettuata ai sensi dell'art. 1 del D.Lgs. n. 368/2001 - può avvenire con la fissazione di un termine finale al rapporto, o anche con l'indicazione di un termine "per relationem", con riferimento al ritorno in servizio del lavoratore sostituito.

Nota

La fattispecie, sottoposta al vaglio della Suprema Corte, attiene ad un contratto a termine, stipulato, ai sensi dell'art. 1, D.Lgs. n. 368/2001, in sostituzione di una lavoratrice assente con diritto alla conservazione del posto. Nel contratto non erano indicate né le ragioni dell'assenza della lavoratrice né un termine finale, ma lo stesso prevedeva che il rapporto avrebbe avuto scadenza il giorno precedente al termine della assenza della lavoratrice e, comunque, nel caso di risoluzione, per qualunque motivo, del rapporto di lavoro della predetta. Nel contratto si precisava, altresì, che l'attività di sostituzione sarebbe continuata anche in caso di protrazione dell'assenza della lavoratrice sostituita per una causa diversa, che prevedesse ugualmente il suo diritto alla conservazione del posto. Ebbene, nel caso in esame, il rapporto di lavoro del lavoratore a termine era proseguito ben oltre la data originariamente comunicatagli dall'azienda (coincidente con il rientro dalla maternità della lavoratrice sostituita), atteso che quest'ultima aveva continuato ad assentarsi, senza soluzione di continuità, cumulando periodi di permessi e ferie. Il lavoratore adiva il Tribunale di Reggio Calabria, chiedendo: accertarsi la nullità della clausola di apposizione del termine e, per l'effetto, ordinarsi la riammissione in servizio, con condanna della società al pagamento di un'indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto maturata dal giorno della cessazione del rapporto sino alla reintegra, nonché della maggiorazione prevista dall'art. 5, D.Lgs. n. 368/2001. Il giudice di primo grado dichiarava la nullità del termine apposto al contratto inter partes e condannava la società a riassumere il ricorrente nel posto di lavoro in precedenza occupato, nonchè al pagamento dell'indennità prevista ex art. 32 L. 183/2010. La Corte territoriale riformava la pronuncia del Tribunale, respingendo le domande proposte dal lavoratore in primo grado e condannando lo stesso alla restituzione degli importi erogatigli dalla società in esecuzione delle sentenze emesse dal primo giudice.

La Corte di merito poneva a fondamento del proprio decisum i seguenti rilievi: a) il sufficiente grado di specificità della causale apposta al contratto, in quanto indicata "per relationem"; b) la legittimità della protrazione del rapporto anche dopo la scadenza originaria, posto che le parti avevano sancito che il rapporto si sarebbe concluso solo all'esito della cessazione, senza soluzione di continuità, delle assenze delle dipendente sostituita. Avverso tale sentenza il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione. La Suprema Corte, dopo aver effettuato un approfondito excursus normativo e giurisprudenziale in materia di contratto a termine, ha rigettato il ricorso, sulla scorta dei seguenti principi: 1) l'apposizione di un termine al contratto di lavoro, stipulato ai sensi dell'art. 1, D.Lgs. n. 368/2001 per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, impone al datore di lavoro l'onere di indicare, in modo circostanziato e puntuale - al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonché l'immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto - le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e/o le ragioni che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro la prestazione a tempo determinato, nonché il nesso causale tra le suddette circostanze e/o ragioni e l'utilizzazione del lavoratore assunto a termine (cfr. ex plurimis Cass. 27/04/2010 n. 10033; Cass. 12/01/2015, n. 208); 2) nel caso di assunzione a termine per ragioni di carattere sostitutivo, è legittima la apposizione di un termine mediante indicazione, anziché di una data determinata, di un evento futuro certus an ma incertus quando (principio espresso da Cass. 23/01/1998 n. 625 e ribadito da Cass. 11/07/1998 n. 6784, sia pure con riferimento alla ben più rigida disciplina della l. n. 230/1962); 3) parimenti è legittima la prosecuzione del rapporto a termine (stipulato sempre per ragioni di carattere sostitutivo), in caso di mutamento del titolo dell'assenza, senza che ciò determini la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato (Cass. 23/01/1998, n. 625).

Partendo da tali premesse, la Suprema Corte ha affermato la piena legittimità, nelle ipotesi di assunzioni per ragioni di carattere sostitutivo, del termine apposto per relationem, con riferimento al ritorno in servizio del lavoratore sostituito (cd. termine mobile), con la precisazione che tale ultimo principio - già espresso in relazione ad una tipologia contrattuale disciplinata ratione temporis dalla L. n. 230/1962 (v. Cass. 07/08/2003, n. 11921) - è ancora più pregnante in relazione alla disciplina di cui al D.Lgs. 368/2001, con la quale, in recepimento della Direttiva CE relativa all'Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato, si sono ampliate le ragioni legittimanti l'assunzione a termine, con superamento della tassatività delle ipotesi previste dalla pregressa (ormai abrogata) normativa legale.

Corretta è stata, dunque, ritenuta la sentenza della Corte di merito che, coerentemente ai principi sopra esposti: a) ha ritenuto sufficientemente specifica la causale sostitutiva dedotta in contratto, contenendo la stessa l'indicazione: del nome del lavoratore sostituito; della durata solo temporanea della prestazione (mediante l'apposizione di un termine per relationem); delle esigenze sottese alla stipula del contratto ed, infine, dell'utilizzazione del lavoratore nell'ambito delle medesime ragioni indicate (id est: nesso causale); b) ha affermato la legittimità della prosecuzione del rapporto di lavoro a termine dopo la iniziale comunicazione della scadenza del termine (in ragione del protrarsi delle assenze della lavoratrice), coerentemente ai dettami della clausola contrattuale.

 

 

Impugnazione del licenziamento

Cass. Sez. Lav. 19 maggio 2016, n. 10343

Pres. Di Cerbo; Rel. Berrino; P.M. Sanlorenzo; Ric. I.C.G. S.p.A.; Contr. T.F.;

Licenziamento - Individuale e collettivo - Impugnativa entro il termine di sessanta giorni - Necessità - Mancata impugnazione nei termini e proposizione dell'azione risarcitoria - Inammissibilità

Il mancato rispetto dei termini di decadenza e prescrizione, in tema di impugnativa del licenziamento, preclude l'accertamento giudiziale dell'illegittimità del recesso e la tutela risarcitoria, sia quella prevista dalle leggi speciali che quella di diritto comune, venendo a mancare il necessario presupposto.

Nota

La Corte di appello di Napoli, confermando la decisione del Tribunale, aveva dichiarato la illegittimità del licenziamento intimato da un datore di lavoro ad un proprio dipendente, condannando il primo alla reintegra del lavoratore ed a corrispondergli le retribuzioni medio tempore maturate.

La Corte di merito, nel respingere il gravame, evidenziava che era infondata l'eccezione di prescrizione sollevata dalla società, trattandosi di licenziamento collettivo inefficace per violazione dell'obbligo di esame congiunto delle parti e nullo per mancanza dei presupposti oggettivi, per cui l'azione tesa a far valere la nullità aveva natura dichiarativa e, come tale, imprescrittibile.

Avverso tale pronuncia il datore di lavoro propone ricorso per cassazione denunciando la violazione degli artt. 1442 c.c. e 4 e 5 della L. 223/1991, evidenziando che l'impugnativa del lavoratore era stata proposta solo dopo cinque anni dalla comunicazione, allorquando era già maturata la prescrizione quinquennale ex art. 1442 c.c.

La Corte di cassazione accoglie il ricorso osservando che, come già evidenziato dalla medesima sezione che aveva modificato il proprio precedente orientamento, l'ordinamento prevede per la risoluzione del rapporto di lavoro una disciplina speciale - diversa da quella ordinaria - che introduce un termine breve di decadenza (sessanta giorni) per l'impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore (art. 6, comma 1, L. 604/1966 e art. 5, comma 3, L. 223/1991) all'evidente fine di dare certezza ai rapporti giuridici. Con la conseguenza che, se il lavoratore non ha impugnato nel termine di decadenza l'atto di recesso, gli è precluso il diritto di far accertare in sede giudiziale la illegittimità dello stesso e di conseguire il risarcimento del danno, nella misura prevista dalle leggi speciali (art. 8, L. 604/1966 e art. 18, L. 300/1970). Peraltro, se tale onere non viene assolto dal lavoratore, il giudice non può valutare la illegittimità del licenziamento neppure per ricollegare al recesso conseguenze risarcitorie di diritto comune.

Né il sistema delle preclusioni è diverso qualora si controverta, come nel caso in esame, in tema di vizi del procedimento del licenziamento collettivo, in quanto, come già chiarito dalla Cassazione: "la decadenza dall'impugnativa del licenziamento, individuale o collettivo, preclude l'accertamento giudiziale dell'illegittimità del recesso e la tutela risarcitoria di diritto comune, venendo a mancare il necessario presupposto, sia sul piano contrattuale, in quanto l'inadempimento del datore di lavoro consista nel recesso illegittimo in base alla disciplina speciale, sia sul piano extracontrattuale, ove il comportamento illecito dello stesso datore consista, in sostanza, proprio e soltanto nell'illegittimità del recesso" (cfr. Cass. del 4 maggio 2009, n. 10235).

Quanto, infine, alla correlata questione del regime prescrizionale applicabile, la Cassazione afferma che in tema di impugnativa del licenziamento, una volta che, a mezzo di atto stragiudiziale, sia stata evitata la decadenza prevista dall'art. 6, L. 604/1966, la successiva azione di annullamento del licenziamento - secondo la disciplina applicabile ratione temporis - deve essere proposta nel termine di prescrizione quinquennale di cui all'art. 1442 c.c. che decorre dal giorno della ricezione dell'intimazione. Pertanto, escluso il caso dell'azione volta a far dichiarare l'inesistenza del recesso per difetto della forma scritta richiesta ad substantiam - che, come tale, è inidoneo a risolvere il rapporto di lavoro da considerarsi giuridicamente in atto -, in tutte le altre ipotesi il licenziamento deve essere impugnato entro i termini, di decadenza e prescrizione, previsti dalla legge.

Nel caso in esame, osserva la Suprema Corte, il lavoratore, licenziato in data 15 maggio 1997, aveva impugnato il recesso il 26 settembre 2003, vale a dire quando era già maturato il termine di prescrizione quinquennale per l'esercizio dell'azione di annullamento, ragione per cui la sua domanda deve essere necessariamente respinta.

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