Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Tempestività della contestazione disciplinare
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Impugnativa di licenziamento e termine di decadenza
Giusta causa di licenziamento
Immutabilità della contestazione disciplinare

T empestività della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 5 luglio 2016, n. 13675

Pres. Venuti; Rel. Lorito; P.M. Finocchi Ghersi; Ric P.I. S.p.a.; Controric. G.E.C.

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento disciplinare - Tempestività dell'esercizio dell'azione disciplinare - Denuncia penale del dipendente da parte del datore - Attesa degli esiti del procedimento penale - Non necessità - Illegittimità del licenziamento - Sussiste

In tema di licenziamento disciplinare, ove sussista un rilevante intervallo temporale tra i fatti contestati e l'esercizio del potere disciplinare, la tempestività di tale esercizio deve essere valutata in relazione al tempo necessario per acquisire conoscenza della riferibilità del fatto al lavoratore medesimo senza che possa assumere autonomo ed autosufficiente rilievo la denunzia dei fatti in sede penale o la pendenza del procedimento penale, considerata l'autonomia tra i due procedimenti, l'inapplicabilità, al procedimento disciplinare, del principio di non colpevolezza, stabilito dall'art. 27 Cost. soltanto in relazione al potere punitivo pubblico, e la circostanza che l'eventuale accertamento dell'irrilevanza penale del fatto non determina di per sé l'assenza di analogo disvalore in sede disciplinare.

Nota

La Corte di Appello di Trieste rigettava l'appello della Società e confermava la sentenza del Tribunale di Gorizia che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato all'esito di un procedimento disciplinare per violazione del principio di tempestività ed immediatezza.

Secondo la Corte territoriale la Società aveva avuto conoscenza dei fatti (risalenti al 2004 e consistiti nella prolungata assenza dal lavoro giustificata dalla produzione di documentazione sanitaria apparentemente falsa), sin dal 2007, epoca di rinvio a giudizio della lavoratrice per il reato di falsità ideologica e truffa. Insiste la Corte che sin da quel momento la Società avrebbe potuto contestare alla dipendente i fatti indicati dall'autorità giudiziaria penale, riservandosi l'irrogazione della sanzione all'esito della definizione del procedimento penale (avvenuto nel 2009). Per la Corte il tempo trascorso fra la cognizione dei fatti e la loro contestazione (avvenuta solo nel 2009), risultava eccessivo e tale da ledere il diritto di difesa della dipendente.

Avverso la sentenza della Corte di Appello la Società ha proposto ricorso per Cassazione contestando alla Corte territoriale di aver equiparato la conoscenza dei capi di imputazione alla conoscenza dei fatti. Secondo la Società unicamente all'esito degli accertamenti svolti in sede penale, si sarebbe potuta acquisire cognizione della effettiva falsità dei certificati medici, per cui il principio di immediatezza della contestazione sarebbe stato rispettato avendo la Società reagito con tempestività alla scoperta dei fatti illeciti della dipendente accertati nella sentenza di condanna emessa dal giudice penale.

La Cassazione ha rigettato il ricorso chiarendo preliminarmente che l'esigenza dell'osservanza della regola della buona fede non consente al datore di lavoro di procrastinare la contestazione di un fatto disciplinarmente rilevante così rendendo difficile la difesa del dipendente per l'esigenza del rispetto dei principi di certezza del diritto e di tutela del lavoratore nell'ambito del procedimento disciplinare.

Secondo la Cassazione, nel valutare l'immediatezza della contestazione per l'intimazione del licenziamento disciplinare, occorre tener conto degli interessi del datore di lavoro a non avviare procedimenti senza aver acquisito i dati essenziali della vicenda e del lavoratore a vedersi contestati i fatti in un ragionevole lasso di tempo dalla loro commissione; con la conseguenza che l'aver presentato denuncia di un lavoratore per un fatto penalmente rilevante connesso con la prestazione di lavoro, non deve consentire al datore di attendere gli esiti del procedimento penale prima di procedere alla contestazione dell'addebito, dovendosi valutare la tempestività di tale contestazione in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore appaiono ragionevolmente sussistenti.

Con riferimento al caso di specie, secondo la Corte, la Società aveva avuto piena contezza dei capi di imputazione contestati al più tardi al momento del rinvio a giudizio (avvenuto nel 2007) e avrebbe dovuto contestare alla dipendente i fatti indicati dalla autorità giudiziaria penale eventualmente riservandosi l'irrogazione della sanzione all'esito della definizione del processo penale.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 8 luglio 2016, n. 14021

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; P.M. Matera; Ric. G.T.M. s.p.a.; intimato A.M.;

Licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo - Mansioni fungibili - Criteri di correttezza e buona fede nella scelta di lavoratori - Applicazione - Criteri di selezione ex art. 5 L. 223/91 - Standard idoneo a rispettare l'art. 1175 c.c. - Mancato rispetto - Conseguenze - Tutela risarcitoria ex art. 18, comma 5 St. Lav.

Nel caso di licenziamento per ragioni inerenti l'attività produttiva e l'organizzazione del lavoro, ai sensi della L. 604 del 1966, art. 3, quando il giustificato motivo oggettivo si identifica nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, non sono utilizzabili nè il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere in quanto non più necessaria, nè il criterio della impossibilità di repechage (in quanto tutte le posizioni lavorative sono equivalenti e tutti i lavoratori sono potenzialmente licenziabili). Non è, tuttavia, vero che la scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare sia per il datore di lavoro totalmente libera: essa, infatti, risulta, limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di correttezza cui deve essere informato, ex artt. 1175 e 1375 c.c., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi anche il recesso di una di esse.

Nota

La Corte d'Appello di Cagliari ha respinto il reclamo proposto dalla società avverso la sentenza dichiarativa dell'illegittimità di un licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, confermativa della decisione emessa in fase sommaria, con la quale il Tribunale ha condannato la società alla reintegrazione del dipendente ed al pagamento delle retribuzioni dal recesso alla reintegra. In particolare i giudici del merito hanno ritenuto ingiustificato il licenziamento perché la società non ha operato le scelte del personale da licenziare alla stregua dei criteri indicati dall'art. 5 L. 223/91 in materia di licenziamenti collettivi che, a loro dire, in caso di mansioni fungibili, vanno applicati analogicamente nel recesso individuale per giustificato motivo oggettivo.

Avverso tale decisione la società ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi ed il lavoratore è rimasto intimato.

La Suprema Corte pur rigettando il primo motivo per motivi prettamente processuali coglie l'occasione per ribadire il principio di cui alla massima, già affermato in numerosi precedenti (Cass. 11 giugno 2004, n. 11124; Cass. 6 settembre 2003, n. 13058; Cass. 21 dicembre 2001, n. 16144). Osserva la Corte che, nei casi di mansioni fungibili, premessa la necessità di rispettare i parametri di cui all'art. 1175 c.c, la giurisprudenza si è posta il problema di individuare, in concreto, i criteri obiettivi che consentano di ritenere la scelta conforme ai dettami di correttezza e buona fede ed ha ritenuto che possa farsi riferimento, pur nella diversità dei rispettivi regimi, ai criteri che la L. n. 223 del 1991, art. 5, ha dettato per i licenziamenti collettivi per l'ipotesi in cui l'accordo sindacale ivi previsto non abbia indicato criteri di scelta diversi e, conseguentemente, prendere in considerazione in via analogica i criteri dei carichi di famiglia e dell'anzianità. Data, infatti, la situazione di totale fungibilità tra i dipendenti non assumono, invece, rilievo le esigenze tecnico-produttive e organizzative. La Cassazione ricorda, inoltre, che in specifico precedente in termini ha già chiarito che il ricorso ai criteri di scelta si giustifica non tanto sul piano dell'analogia, ma piuttosto essi rappresentano uno standard idoneo a consentire al datore di lavoro di esercitare il suo potere selettivo unilaterale in coerenza con gli interessi del lavoratore e con quelli aziendali. (Cass. 26 giugno 2002, n. 6667).

Nell'accogliere il secondo motivo di ricorso la Suprema Corte precisa poi che i giudici del gravame hanno errato laddove hanno sussunto il licenziamento ritenuto illegittimo per violazione dei criteri di correttezza e buona fede nell'alveo delle ipotesi residuali cui il novellato art. 18 St. lav. riconnette la tutela reintegratoria. In tal caso, infatti, precisa la Cassazione, non possono ritenersi "manifestamente insussistenti" le ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa che hanno indotto la società a ridurre il personale sopprimendo una posizione di lavoro. Al contrario l'effettività di tale esigenze rappresenta la premessa mentre la violazione attiene solo all'individuazione del lavoratore tra quelli che svolgevano mansioni fungibili, "ipotesi non riconducibile a quella peculiare che postula un connotato di particolare evidenza nell'insussistenza del fatto posto a fondamento del recesso, bensì a quella di portata generale per la quale è sufficiente che non ricorrano gli estremi del giustificato motivo oggettivo" con conseguente applicazione della tutela indennitaria prevista dal comma 5 dell'art. 18 St. lav. Né, precisa, infine, la Cassazione, osta a tale conclusione il fatto che la L.223/91 - nel testo novellato - preveda per la violazione dei criteri di scelta la tutela reintegratoria, trattandosi di disciplina rivolta alla diversa fattispecie dei licenziamenti collettivi che, infatti, come chiarito, non si applica in via analogica, bensì solo come standard idoneo al rispetto dell'art. 1175 c.c.

La sentenza viene, pertanto, cassata con rinvio in ordine a tale ultimo aspetto inerente le conseguenze della illegittimità del recesso.

Impugnativa di licenziamento e termine di decadenza

Cass. Sez. Lav. 14 luglio 2016, n. 14378

Pres. Nobile; Rel. Bronzini; P.M. Servello; Ric. D.M.; Controric. C. S.p.A.;

Licenziamento - Decadenza - Deposito del ricorso giudiziale oltre il termine di 270 giorni - Sussiste

Ai sensi del secondo comma dell'art. 6, legge n. 604/1966, così come modificato dall'art. 32 della legge n. 183 del 2010, il termine di 270 giorni per l'impugnativa giudiziale del licenziamento decorre dal giorno in cui il licenziamento è stato concretamente impugnato, e non invece dalla scadenza del termine di 60 giorni previsto per l'impugnativa stragiudiziale del recesso.

Nota

La Corte di appello di Bologna rigettava il reclamo proposto avverso il provvedimento del Tribunale di Rimini, che aveva ritenuto maturata la decadenza ex art. 6, legge n. 604/1966, poiché il ricorso giudiziale, avente ad oggetto l'impugnativa del licenziamento, era stato depositato in cancelleria oltre il termine di 270 giorni.

La Corte di appello osservava che il termine per la proposizione del ricorso giudiziale decorreva dal giorno in cui il licenziamento era stato impugnato, e non dallo spirare del termine di decadenza di 60 giorni decorrenti dalla ricezione della comunicazione di recesso.

Con specifico riferimento al caso in esame, la Corte territoriale osservava che l'impugnativa stragiudiziale del licenziamento era avvenuta in data 5 gennaio 2012 ad opera del solo difensore, e che tale impugnativa era stata ratificata dal lavoratore il successivo 9 gennaio 2012, con effetti retroattivi. Ritenendo valida ed efficace l'impugnativa formulata il 5 gennaio 2012, la Corte di appello dichiarava l'intervenuta decadenza, considerato che il ricorso giudiziale era stato depositato oltre il termine di 270 giorni decorrenti dalla predetta data.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore, fondato su tre motivi.

In primo luogo, il lavoratore sosteneva che il licenziamento doveva ritenersi impugnato solo con la raccomandata del 9 gennaio 2012, in quanto il precedente fax del 5 gennaio 2012 era firmato dal solo difensore, che era peraltro privo del relativo mandato. Il lavoratore sosteneva, inoltre, di non aver inteso ratificare il precedente fax del 5 gennaio a firma del difensore.

Ad ogni buon conto, il lavoratore sosteneva che il termine di 270 giorni, per il deposito del ricorso giudiziale in cancelleria, decorreva dalla scadenza del termine di 60 giorni dalla comunicazione del recesso, e non dal momento in cui il recesso era stato concretamente impugnato.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

La Suprema Corte ha, innanzitutto, rilevato che, alla stregua del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di licenziamento individuale, l'impugnativa che, secondo il disposto di cui all'art. 6, della legge n. 604 del 1966, deve essere proposta dal lavoratore entro il termine di 60 giorni dalla ricezione della comunicazione dell'atto di recesso del datore di lavoro, costituisce un atto negoziale dispositivo e formale, che può essere posto in essere unicamente dal lavoratore medesimo, da un suo rappresentante, munito di specifica procura scritta, o da un terzo - ancorchè avvocato o procuratore legale, sprovvisto di procura -, il cui operato venga successivamente ratificato dal lavoratore. Sempre che tale ratifica rivesta la forma scritta e, come l'impugnativa, sia comunicata o notificata al datore di lavoro prima della scadenza del suddetto termine di decadenza (in tal senso, cfr. Cass. 23 aprile 2014, n. 9182).

Applicando tali principi al caso in oggetto, la Suprema Corte ha ritenuto che non potesse dubitarsi che con l'atto di impugnativa del 9 gennaio 2012 il lavoratore avesse inteso ratificare quello del 5 gennaio, tenuto conto che tali comunicazioni avevano un identico tenore e che nella lettera del 9 gennaio, a firma anche del lavoratore "per adesione e conferma", figurava la locuzione "anticipata via fax e pec"; ragion per cui la lettera a firma del difensore, inviata quattro giorni prima, non poteva che considerarsi come un'anticipazione della volontà del lavoratore di impugnare il licenziamento. Pertanto, correttamente la Corte territoriale aveva ritenuto che il licenziamento fosse stato impugnato sin dal 5 gennaio 2012, attesi gli indubitabili effetti retroattivi che discendevano dalla ratifica dell'operato del difensore da parte del lavoratore.

La Suprema Corte ha, altresì, chiarito che correttamente la Corte territoriale aveva fatto decorrere il termine di 270 giorni per il deposito del ricorso giudiziale dalla data in cui era stato concretamente impugnato il recesso (5 gennaio 2012), piuttosto che dalla data in cui era spirato il termine di decadenza di 60 giorni, previsto per l'impugnativa stragiudiziale del recesso.

A tale riguardo, la Suprema Corte ha osservato che, alla stregua del chiaro tenore letterale del secondo comma, del novellato art. 6, legge n. 604 del 1966, appare evidente che il termine di 270 giorni, previsto per il deposito del ricorso giudiziale di impugnativa del licenziamento nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro, non può che decorrere dal momento in cui il licenziamento è stato concretamente impugnato, non essendovi ragione di sorta per collegare tale termine a quello di decadenza in astratto applicabile, e non al momento in cui il datore di lavoro è stato investito della decisione dell'impugnazione del recesso.

Giusta causa di licenziamento

Cass. Sez. Lav. 13 luglio 2016, n. 14305

Pres. Napoletano; Rel. Ghinoy; P.M. Celentano; Ric. M. S.p.A.; Controric. I.G.C.;

Produzione in giudizio di documenti aziendali riservati - Divulgazione e violazione dell'art. 2105 cod. civ. - Non sussiste - Giusta causa di licenziamento - Non sussiste - Conseguenza - Illegittimità licenziamento

Il lavoratore che produca, in una controversia di lavoro intentata nei confronti del datore di lavoro, copia di atti aziendali che riguardino direttamente la sua posizione lavorativa, non viene meno ai doveri di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c., tenuto conto che l'applicazione corretta della normativa processuale in materia è idonea a impedire una vera e propria divulgazione della documentazione aziendale e che, in ogni caso, al diritto di difesa in giudizio deve riconoscersi prevalenza rispetto alle eventuali esigenze di segretezza dell'azienda.

Occorre, separare la questione della produzione in giudizio di documenti aziendali, nella quale rileva la prevalenza del diritto di difesa e la conseguente possibilità per il giudice di esaminare la documentazione prodotta dal lavoratore, da quella relativa alle modalità di acquisizione della documentazione, questione che potrebbero in astratto integrare la giusta causa di licenziamento per violazione dell'obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c., con valutazione da effettuarsi nel caso concreto, tenendo anche conto della possibilità di ravvisare, nell'esercizio del diritto di difesa, una scriminante della condotta posta in essere dal lavoratore.

Nota

Un dipendente citava in giudizio il proprio datore di lavoro per il riconoscimento di mansioni superiori. In tale giudizio, il lavoratore produceva dei documenti aziendali, tra i quali una lettera riservata-personale inviata dal direttore della società ad altra dipendente e dei documenti attinenti ai rapporti tra la società e i propri fornitori, che il dipendente aveva inviato dall'account di posta elettronica aziendale al proprio indirizzo e-mail personale.

In ragione dell'appropriazione e divulgazione di tali documenti riservati da parte del dipendente, la Società gli intimava licenziamento per giusta causa.

La Corte d'Appello di Cagliari, confermando la sentenza di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento, condannando la società alla reintegrazione del dipendente ed al conseguente risarcimento del danno. Ad avviso della Corte territoriale il licenziamento era da ritenersi illegittimo, da un lato, in quanto il codice disciplinare aziendale sanzionava con il licenziamento per giusta causa solamente la violazione dell'obbligo di fedeltà connesso allo svolgimento, per conto proprio o di terzi, di attività in concorrenza. Dall'altro in quanto la produzione in giudizio di documenti aziendali, anche se riservati, non poteva considerarsi divulgazione degli stessi. Riguardo alle modalità con le quali il dipendente era entrato in possesso di tale documentazione, la Corte si limitava a rilevare che l'azienda non aveva provato che vi fosse un divieto di lavorare da casa e di trasmettere documenti aziendali all'indirizzo e-mail privato.

Avverso tale sentenza l'azienda ricorreva in Cassazione; il dipendente resisteva con controricorso.

La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso della società, ha ribadito il principio (già affermato in Cass. 6420/2002 e, da ultimo, in Cass. 25682/2014) secondo cui il lavoratore che produca, in una controversia di lavoro intentata nei confronti del datore di lavoro, copia di documenti aziendali che riguardino direttamente la sua posizione lavorativa, non viene meno ai doveri di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c., tenuto conto che l'applicazione corretta della normativa processuale del rito del lavoro è idonea a impedire una vera e propria divulgazione della documentazione aziendale e che, in ogni caso, al diritto di difesa in giudizio deve riconoscersi prevalenza rispetto alle eventuali esigenze di segretezza dell'azienda, con la conseguente possibilità per il giudice di esaminare la documentazione prodotta dal lavoratore.

La Cassazione ha quindi confermato che la produzione in giudizio di documenti aziendali non costituisce divulgazione degli stessi che possa rilevare.

Da ultimo, è interessante sottolineare come la Suprema Corte abbia distinto la questione della produzione in giudizio di documenti aziendali, da quella relativa alle modalità di acquisizione della documentazione stessa. La Corte, infatti, ha ammesso che l'acquisizione da parte del lavoratore di documentazione aziendale con modalità di per sé riprovevoli, abusive o truffaldine - peraltro non riscontrate nel caso di specie - potrebbe in astratto integrare la giusta causa di licenziamento per violazione dell'obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c. Tale valutazione deve però essere effettuata in concreto, tenendo anche conto della possibilità di ravvisare, nell'esercizio del diritto di difesa, una scriminante della condotta posta in essere dal lavoratore.

Immutabilità della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 4 luglio 2016, n. 13580

Pres. Venuti; Rel. Negri Della Torre; P.M. Matera; Ric. A. S.p.A.; Controric. P.V.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento disciplinare - Atto di contestazione e atto di recesso - Principio di immutabilità della contestazione - Nozione e fondamento - Fattispecie

In tema di licenziamento disciplinare, il principio della immutabilità della contestazione dell'addebito disciplinare mosso al lavoratore ai sensi dell'art. 7 della legge n. 300/1970 attiene alla relazione tra i fatti contestati e quelli che motivano il recesso e non riguarda la qualificazione giuridica degli stessi, in relazione all'indicazione delle norme violate.

Nota

Il caso di specie riguarda un licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore addetto all'ufficio di guardiania della società datrice di lavoro, che, accogliendo un cliente che chiedeva informazioni in merito all'acquisto di un prodotto venduto dall'azienda, invece di indirizzare quest'ultimo al reparto dell'azienda deputato alla distribuzione e vendita del prodotto richiesto, procedeva direttamente alla vendita, facendosi corrispondere e trattenendo il corrispettivo (la somma di Euro 10,00).

La Corte d'Appello di Torino, riformando la sentenza di primo grado del Tribunale di Novara, deduceva che, secondo il principio di immutabilità della contestazione disciplinare, la condotta del lavoratore doveva essere valutata soltanto alla stregua delle infrazioni (i.e. condotte tipizzate) previste dal CCNL applicato al rapporto di lavoro che erano state indicate nella lettera di contestazione disciplinare, senza che potessero rilevare gli ulteriori precetti del CCNL di cui l'azienda aveva lamentato la violazione nella lettera di licenziamento. Inoltre che, sulla base di quanto previsto da tali disposizioni, doveva ritenersi violato il principio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto addebitato, con conseguente illegittimità del licenziamento.

Ricorreva in Cassazione la società, deducendo, tra le altre, la violazione dell'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori per erronea applicazione del principio di immutabilità della contestazione disciplinare, atteso che i fatti materiali posti a giustificazione del recesso non erano mutati tra la contestazione e il licenziamento.

Al riguardo, la Corte di Cassazione ha innanzitutto ribadito il principio per cui, ai fini del rispetto delle garanzie previste dall'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, il contraddittorio sul contenuto dell'addebito mosso al lavoratore può ritenersi violato (con conseguente illegittimità della sanzione, irrogata per causa diversa da quella enunciata nella contestazione) solo quando vi sia stata una sostanziale mutazione del fatto addebitato, inteso con riferimento alle modalità dell'episodio ed al complesso degli elementi di fatto connessi all'azione del dipendente, ossia quando il quadro di riferimento sia talmente diverso da quello posto a fondamento della sanzione da menomare concretamente il diritto di difesa del lavoratore(in tal senso, anche Cass. n. 2935/2013). In sostanza, il principio della immutabilità della contestazione dell'addebito disciplinare attiene alla relazione tra i fatti contestati e quelli che motivano il recesso e, pertanto, non riguarda la qualificazione giuridica dei fatti stessi, in relazione all'indicazione delle norme violate.

Pertanto, in tema di licenziamento disciplinare, il fatto contestato ben può essere ricondotto ad una diversa ipotesi disciplinare (dato che, in tal caso, non si verifica una modifica della contestazione, ma solo un diverso apprezzamento dello stesso fatto), ma l'immutabilità della contestazione preclude al datore di lavoro di far poi valere, a sostegno della legittimità del licenziamento, circostanze nuove rispetto a quelle contestate, tali da implicare una diversa valutazione dell'infrazione eventualmente diversamente tipizzata dal codice disciplinare previsto dalla contrattazione collettiva, dovendosi garantire l'effettivo diritto di difesa che la normativa sul procedimento disciplinare di cui all'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori assicura al lavoratore.

Ebbene, nel caso di specie, l'oggetto della contestazione disciplinare non ha subito, in sede di licenziamento, modificazioni o ampliamenti, posto che, con la lettera di comunicazione del recesso, il datore di lavoro - fermo il dato fattuale già descritto nella formulazione dell'addebito - si è limitato ad affiancare alle ipotesi di infrazione previste dal CCNL (indicate nella contestazione disciplinare), altre ipotesi previste dal medesimo CCNL di riferimento, oltre a confermare la violazione dei doveri generali di diligenza e fedeltà di cui all'art. 2105 c.c., così offrendo, in esito al procedimento disciplinare, una lettura più articolata dell'episodio e del suo disvalore alla stregua delle condotte tipizzate dell'autonomia collettiva.

La Corte ha tuttavia respinto il ricorso del datore di lavoro condividendo le conclusioni cui era pervenuta la Corte di merito circa il fatto che la condotta addebitata non comportasse la violazione della norma del CCNL che sanzionava con il licenziamento solo violazioni di "estrema gravità", presupposto non riscontrabile nel caso in esame.

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