Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Intimazione di un secondo licenziamento
Licenziamento per cessazione di appalto

Licenziamento e repêchage in mansioni inferiori
Licenziamento disciplinare
Licenziamento del dirigente

Intimazione di un secondo licenziamento

Cass. Sez. Lav. 23 agosto 2016, n. 17247

Pres. Di Cerbo; Rel. Balestrieri; P.M. Fresa; Ric. V.E.; Contr. A.S.S. s.c.;

Licenziamento individuale - Intimazione di un secondo licenziamento - Fondato su nuova causa o motivo - Ammissibilità - Condizione di efficacia - Invalidità o inefficacia del primo licenziamento - Sussiste

Il datore di lavoro, qualora abbia già intimato al lavoratore un licenziamento per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un secondo licenziamento, fondato su una diversa causa o motivo, restando quest'ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto al primo e dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo nel caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il precedente.

Nota

Un lavoratore si era rivolto al Tribunale del lavoro di Latina chiedendo che fosse dichiarata l'illegittimità del licenziamento disciplinare intimatogli dal proprio datore di lavoro e che quest'ultimo venisse condannato al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate. Il dipendente deduceva la sopravvenuta inefficacia dell'atto di recesso in conseguenza di un successivo licenziamento intimatogli per superamento del periodo di comporto. Sia il Tribunale che la Corte di appello di Roma respingevano la domanda.

Il lavoratore propone ricorso per cassazione, sostenendo che un secondo licenziamento, ove irrogato prima dell'annullamento del precedente, sarebbe privo di effetti, in quanto interverrebbe su un rapporto non più esistente.

La Cassazione respinge il ricorso rilevando che, secondo il più recente e condiviso orientamento dei giudici di legittimità, il licenziamento illegittimo intimato al lavoratore, al quale sia applicabile la tutela reale, non è idoneo, allorquando venga impugnato, ad estinguere il rapporto di lavoro, determinando solamente una interruzione, di fatto, del rapporto, senza incidere sulla sua continuità e permanenza (cfr. Cass. del 6 dicembre 2013, n. 27390; Cass. del 20 gennaio 2011, n. 1244). Con la conseguenza che, ove venga intimato un secondo licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, fondato su fatti diversi da quelli posti a fondamento del primo recesso, i relativi effetti si produrranno solo nel caso in cui il precedente venga dichiarato illegittimo. Dunque, il datore di lavoro, quando abbia intimato al lavoratore un licenziamento per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un secondo licenziamento, fondato su una diversa causa o motivo, che sarà destinato ad operare solo in caso di annullamento di quello precedente.

Tale interpretazione, secondo la Suprema Corte, si ricava anche dall'esame dell'art. 18, comma 1, L. 300/1970 - nel testo introdotto dalla L. 108/1990 -, il quale prevede che, in caso di annullamento del recesso disposto dal giudice per mancanza di giusta causa o giustificato motivo, scattino in favore del lavoratore una serie di conseguenze a lui favorevoli (reintegrazione nel posto di lavoro, pagamento di un'indennità pari alla retribuzione che sarebbe maturata tra il licenziamento e la reintegrazione, versamento dei contributi previdenziali per il medesimo periodo) che postulano che il rapporto sia continuato, sia pure solamente de iure. Pertanto, prosegue la Cassazione, non può negarsi che l'annullamento abbia natura costitutiva e gli effetti si producano ex tunc, tuttavia lo stesso interviene in una situazione in cui il rapporto non è stato interrotto dal licenziamento.

La continuità e la permanenza del rapporto rende quindi ammissibile l'irrogazione di un secondo licenziamento, che produrrà i suoi effetti solo nell'ipotesi in cui il precedente venga dichiarato illegittimo.

Licenziamento per cessazione di appalto

Cass. Sez. Lav. 10 agosto 2016, n. 16897

Pres. Di Cerbo; Rel. Ghinoy; Ric. G.F.; Controric.S.T.A.V. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Licenziamento per giustificato motivo oggettivo per cessazione di appalto - Criteri di individuazione del soggetto (o dei soggetti) da licenziare - Necessaria applicazione dei criteri di scelta di cui all'art. 5 L. 223/1991 - Esclusione - Principi di correttezza e buona fede - Operatività - Fondamento

Nell'ipotesi di licenziamento individuale plurimo per giustificato motivo oggettivo opera la disciplina dettata per tale tipologia di recesso, e non quella prevista per i licenziamenti collettivi che impone tra l'altro applicazione dei criteri di scelta previsti dall'art. 5 della L. n. 223 del 1991. Nell'individuazione del soggetto (o dei soggetti) da licenziare, il datore di lavoro deve comunque operare in coerenza con i principi di correttezza e buona fede, cui deve essere informato, ai sensi dell'art. 1175 cod. civ., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio ed il riferimento ai suddetti criteri, pur non costituendo un obbligo, costituisce uno standard particolarmente idoneo a tenere conto degli interessi del lavoratore e di quello aziendale. Quando poi, come nel caso di specie, siano licenziati tutti i lavoratori addetti all'appalto, si introduce un elemento di oggettivazione della scelta, coerente con il richiamato precetto normativo.

Nota

La decisione in esame ha ad oggetto il licenziamento individuale di un dipendente con mansioni di autista intimato per giustificato motivo oggettivo consistente nella cessazione dell'appalto cui il lavoratore era addetto.

A causa della cessazione dell'appalto di cui sopra, infatti, la società aveva licenziato tutti i lavoratori addetti allo stesso.

In prima battuta il Tribunale di Milano dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore sostenendo, tra l'altro, che il lavoratore da licenziare avrebbe dovuto essere individuato sulla base dei criteri posti dall'art. 5 della L. 223/1991 per i licenziamenti collettivi e condannando la società al pagamento di una somma a titolo di risarcimento del danno.

Successivamente, in sede di reclamo, la Corte d'Appello sovvertiva la decisione del Giudice di prime cure ritenendo, diversamente da quest'ultimo, che non fosse obbligatorio applicare i criteri di scelta di cui all'art. 5 alle fattispecie di licenziamento individuale plurimo.

Su tali basi la Corte condannava il lavoratore alla restituzione della somma di cui sopra, oltre interessi.

Il lavoratore impugnava per Cassazione tale decisione sulla base di vari motivi tra i quali, per quanto qui interessa, la erronea interpretazione dell'art. 1175 c.c. in relazione all'art. 5 L. 223/1991, la violazione dei criteri di scelta e l'omessa motivazione. In sostanza il lavoratore sosteneva che "la scelta avrebbe dovuto essere operata sull'intera compagine aziendale degli autisti (lavoratori aventi funzioni fungibili con le sue) e che in tale ambito avrebbe dovuto svolgersi la comparazione, in applicazione dei criteri di scelta previsti dall'art. 5 della L. 223/1991".

Tale censura, così come tutte le altre doglianze, è stata ritenuta infondata dalla Suprema Corte e il ricorso è stato rigettato.

La Cassazione, infatti, ha confermato quanto sostenuto dalla Corte d'Appello ribadendo che in caso di licenziamenti individuali plurimi si applica la disciplina propria del licenziamento individuale e non quella prevista per i licenziamenti collettivi. Conseguentemente, in tali casi il datore di lavoro sarà tenuto ad individuare i lavoratori da licenziare secondo criteri oggettivi ed in applicazione dei principi di buona fede e correttezza, mentre non sarà obbligato ad applicare i criteri di scelta legali previsti dall'art. 5 della citata legge.

Secondo la Suprema Corte, infatti, pur essendo i criteri legali di cui sopra "uno standard particolarmente idoneo a tenere conto dell'interesse del lavoratore e di quello aziendale", il datore può operare l'individuazione secondo altri criteri che siano coerenti con i principi citati, come accade - appunto - nel caso in cui vengano licenziati tutti i lavoratori assegnati ad un determinato appalto a causa della sua cessazione.

Tale ultimo criterio di individuazione dei lavoratori da licenziare, infatti, è stato ritenuto nel caso di specie "un elemento di oggettivazione della scelta", rispettoso dei principi di correttezza e buona fede.

Licenziamento e repêchage in mansioni inferiori

Cass. Sez. Lav. 12 agosto 2016, n. 17091

Pres. Di Cerbo; Rel. Esposito; P.M. Matera; Ric. S.S.; Controric. M. S.p.A..

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Riorganizzazione aziendale - Scelta discrezionale del datore di lavoro - Libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost. - Insindacabilità da parte del giudice - Verifica dell'effettività delle ragioni che giustificano il recesso - Necessità

Il motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva, nel cui ambito rientra anche l'ipotesi di riassetto organizzativo attuato per la più economica gestione dell'impresa, è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost., mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall'imprenditore; ne consegue che non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, sempre che risulti l'effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Obbligo di repechage - Impossibilità di impiegare il lavoratore in mansioni equivalenti - Onere della prova datoriale - Prove presuntive e indiziarie - Ammissibilità - Onere di collaborazione lavoratore - Sussistenza

In capo al datore che intende intimare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo incombe l'onere di provare l'impossibilità di adibire lo stesso lavoratore da licenziare ad altre mansioni nell'ambito dell'organizzazione aziendale. Tale impossibilità, però, deve essere circoscritta alle mansioni equivalenti a quelle svolte dal lavoratore all'interno dell'azienda. L'onere probatorio, interamente a carico del datore di lavoro, può essere assolto anche mediante il ricorso a risultanze di natura presuntiva ed indiziaria. Tuttavia, la prova suindicata non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell'accertamento di un possibile repechage con mansioni diverse e anche inferiori a quelle originariamente svolte, mediante l'allegazione della esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato; a tale allegazione, poi, corrisponde l'onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità del lavoratore nei posti predetti, da intendersi assolto anche mediante la dimostrazione di circostanze indiziarie, come l'assenza di altre assunzioni in relazione alle mansioni del dipendente da licenziare.

Rito Fornero - Impugnazione del licenziamento - Domanda subordinata di pagamento del tfr e dell'indennità di preavviso - Ammissibilità

Il lavoratore che impugni giudizialmente il licenziamento domandando in via principale l'accertamento dell'illegittimità del recesso, con ogni conseguente statuizione, può chiedere contestualmente, in via subordinata e per il caso di rigetto della domanda principale, il pagamento del trattamento di fine rapporto o dell'indennità sostituiva del mancato preavviso, trattandosi di crediti il cui fatto costitutivo è da ravvisare nel licenziamento e, quindi, nella medesima circostanza allegata a fondamento della domanda principale. In relazione alle predette domande, quindi, è ravvisabile la coincidenza dei fatti costituitivi con quelli dedotti nel processo con la conseguenza che l'esame delle stesse non importa un indebito ampliamento del thema decidendum.

Nota

La Corte d'Appello di Napoli rigettava il reclamo proposto da un lavoratore avverso la decisione del giudice di primo grado che, decidendo in sede di opposizione avverso l'ordinanza resa all'esito della fase sommaria, aveva respinto il ricorso con il quale il medesimo aveva chiesto accertarsi l'illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La Corte territoriale fondava la decisione sulla dimostrata sussistenza della dedotta crisi aziendale e la conseguente necessità di riduzione dei costi mediante un processo di riorganizzazione, quest'ultimo ritenuto non sindacabile perché espressione della libertà di iniziativa economica. La Corte di merito riteneva, altresì, assolto l'obbligo di repechage e dichiarava inammissibili le domande, proposte in via subordinata dal lavoratore, al fine di ottenere la corresponsione del trattamento di fine rapporto e dell'indennità per mancato preavviso.

Avverso tale sentenza, il lavoratore proponeva ricorso per cassazione con plurimi motivi, incentrati,

principalmente sul presunto omesso controllo, da parte della Corte d'Appello, circa la reale sussistenza delle esigenze tecnico-economiche dedotte dal datore di lavoro e sull'affermato, dalla Corte di merito, assolvimento dell'obbligo di repechage da parte dell'azienda. Con riferimento, in particolare, a tale ultimo aspetto, il lavoratore si duoleva che non risultava dimostrato che fosse mai stata prospettata al medesimo un'utilizzazione in mansioni inferiori e che i giudici del merito avevano erroneamente limitato l'oggetto della prova della impossibilità del repechage alle assunzioni di due lavoratori, le sole oggetto di allegazione da parte della società, dovendo, piuttosto, il datore di lavoro dimostrare di non aver effettuato alcuna nuova assunzione in qualifica analoga a quella del lavoratore licenziato per un congruo periodo di tempo successivo al recesso.

La Corte di legittimità ha ritenuto infondate le predette censure, avendo la Corte territoriale fatto corretta applicazione dei ben noti principi in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che si possono così sintetizzare: a) compete al giudice - che non può invece sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. - il controllo in ordine all'effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, che può anche consistere in ragioni inerenti all'attività produttiva, tra le quali rientra anche l'ipotesi di riassetto organizzativo per una più economica gestione dell'impresa; b) il datore di lavoro ha l'onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte (tale impossibilità riguarda solo le mansioni equivalenti e non si estende anche alle mansioni inferiori); c) tale prova, tuttavia, non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell'accertamento di un possibile repechage, mediante l'allegazione dell'esistenza di altri posti di lavoro (anche inferiori) nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato, e conseguendo a tale allegazione l'onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità nei posti predetti; d) l'onere per il datore di dimostrare l'impossibilità di utilizzo del lavoratore in mansioni inferiori sorge solo a seguito dell'allegazione di controparte.

Quanto al primo profilo di doglianza, la Suprema Corte ha osservato che la Corte di merito, con ragionamento coerente, fondato sul materiale probatorio acquisito (bilanci sociali e prova per testi), ha ritenuto provata l'effettività delle ragioni poste a fondamento del licenziamento.

Con riferimento, poi all'onere del repechage la Corte di legittimità ha respinto le censure sollevate dal lavoratore, avendo osservato che: 1. con riferimento alle mansioni equivalenti, correttamente il giudice d'appello ha ritenuto congrua un'indagine, circa la non effettuazione di nuove assunzioni, che prenda in considerazione un lasso temporale di nove mesi, tenuto conto anche della celerità che caratterizza la procedura regolata mediante il nuovo rito speciale; 2. con riguardo all'utilizzo del lavoratore in mansioni inferiori, correttamente la Corte di merito ha osservato che il datore di lavoro non ha dimostrato l'impossibilità di utilizzo del lavoratore in mansioni inferiori, non avendo quest'ultimo posto in essere quella collaborazione nell'accertamento di un possibile repechage, richiesto dalla giurisprudenza maggioritaria, mediante l'allegazione della esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente collocato.

Con altro motivo di ricorso, il ricorrente deduceva altresì violazione dell'art. 1, c. 48, L. n. 92/2012, per aver la Corte d'Appello confermato la statuizione del giudice di prime cure che aveva dichiarato inammissibile la domanda, formulata in via subordinata, di pagamento dell'indennità di mancato preavviso e del trattamento di fine rapporto. La Corte di legittimità ha accolto il motivo, cassando con rinvio la sentenza della Corte d'Appello napoletana, sulla scorta di un'interpretazione estensiva della norma ma pur sempre rispettosa della sua ratio (id est: garantire una tutela reintegratoria sollecita ed evitare che il thema decidendum, circoscritto al nucleo della controversia assoggettata al rito speciale, si allarghi con l'introduzione di nuovi temi d'indagine, tali da ritardare il processo).

Ed invero, la Suprema Corte ha osservato che le domande proposte in via subordinata dal lavoratore, riguardanti le pretese al trattamento di fine rapporto e all'indennità di preavviso, traggono fondamento dai medesimi fatti costitutivi (e impeditivi) posti a base della contrapposta deduzione delle parti riguardo alla sussistenza del giustificato motivo di recesso e che, comunque, l'esame delle stesse non importa un indebito ampliamento del thema decidendum.

Tale interpretazione - ha rilevato ulteriormente la Corte di legittimità - risulta coerente con i seguenti principi: il "giusto processo" (art. 111 cost. e art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo); l' "effettività della tutela giurisdizionale" (affermato da Corte Cost. n. 77 del 2007, secondo cui il rispetto della disciplina processuale non deve sacrificare il diritto delle parti ad ottenere una risposta in ordine al bene della vita oggetto della loro contesa) e il divieto di abuso processuale mediante l'esercizio frazionato di pretese creditorie che trovino titolo nella cessazione del rapporto di lavoro (Cass. 01/03/2016, n. 4016).

Pertanto, conclude la Corte, tra tutte le possibili soluzioni interpretative dell'art. 1, c. 48, L. n. 92/2012, deve privilegiarsi quella che, coerentemente con una esegesi letterale e sistematica, nonché con i principi sopra esposti, eviti il frazionamento dei processi e le pronunce di mero rito, consentendo che un'unica vicenda estintiva del rapporto dia luogo a un unico processo, senza eccessivo aggravio di attività e ritardo per il soggetto che agisce in giudizio.

Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 18 agosto 2016, n. 17166

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; P.M. Fresa; Ric. T.D.; Controric. S. S.P.A.;

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Sanzioni disciplinari - Procedimento di contestazione - Difese del lavoratore - Giustificazioni scritte presentate nei termini di cui all'art. 7, quinto comma, legge n. 300 del 1970 - Contestuale richiesta di audizione - Obbligo del datore di lavoro di sentire oralmente il dipendente - Sussistenza

Il datore di lavoro che intenda adottare una sanzione disciplinare nei confronti del dipendente non può omettere l'audizione del lavoratore incolpato che ne abbia fatto espressa ed inequivocabile richiesta contestualmente alla comunicazione - nel termine di cui all'art. 7, quinto comma, della legge 20 maggio 1970 n. 300 - di giustificazioni scritte, anche se queste appaiano già di per sé ampie ed esaustive.

Nota

Un dipendente di una società automobilistica con mansioni di operaio addetto alla catena di montaggio impugnava il licenziamento intimatogli per giusta causa nell'aprile 2013, dopo essere stato arrestato per detenzione e spaccio di ingenti quantità di eroina e adiva il Tribunale al fine di far accertare l'invalidità del provvedimento espulsivo.

Sia il giudice di prime cure che la Corte d'Appello di l'Aquila dichiaravano legittimo il licenziamento considerate le circostanze fattuali documentalmente provate.

Nello specifico, innanzitutto veniva rilevato come i comportamenti ascritti al lavoratore non fossero stati dallo stesso contestati nella lettera di giustificazioni resa alla Società ma esclusivamente sminuiti di rilevanza, sul presupposto della loro estraneità al rapporto di lavoro; né secondo i giudici del merito poteva ritenersi violato il diritto di audizione, avanzato dal lavoratore a sua difesa oltre alle giustificazioni scritte, per aver tale richiesta una finalità meramente dilatoria.

Avverso tale sentenza il dipendente ricorreva in Cassazione; la Società resisteva con controricorso.

Tra i vari motivi di ricorso, il ricorrente lamentava la violazione del suo diritto di difesa per non essere stato sentito oralmente ai sensi dell'art. 7, comma 2, S.L., nonostante avesse fatto espressa richiesta; invocava, poi, la violazione ed errata applicazione delle norme di contratto collettivo per non risultare l'ipotesi contestata tra quelle legittimanti il licenziamento nonché di legge sostenendo che il comportamento extralavorativo del dipendente fosse irrilevante ai fini della lesione del vincolo fiduciario e che pertanto vi fosse stato un errore di sussunzione del fatto nell'ipotesi normativa di cui all'art. 2119 c.c.

Al riguardo, la Corte di Cassazione ha innanzitutto ribadito il principio per cui l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli "standards", conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale. Ciò detto ha rilevato come nel caso in esame il lavoratore non avesse identificato i parametri integrativi del precetto normativo violati dai giudici del merito, limitandosi ad indicare una serie di fatti non correttamente valutati dalla Corte d'Appello ed insindacabili in sede di legittimità.

Ha poi ricordato che il concetto di giusta causa non si limita al grave inadempimento tale da giustificare la risoluzione immediata del rapporto ma si estende, come nel caso di specie, anche a condotte extralavorative che possono nondimeno risultare in concreto idonee a giustificare la risoluzione immediata del rapporto.

Passando invece all'esame del motivo con cui il lavoratore denunciava la violazione ed errata applicazione dell'art. 7 S.L., la Suprema Corte ha ritenuto il motivo fondato essendo insindacabile dal datore di lavoro la richiesta di audizione espressamente garantita da una norma di legge e funzionale a consentire la piena rispondenza del giudizio disciplinare al principio del contraddittorio fra le parti e quindi alla piena realizzazione del diritto di difesa del lavoratore. Conseguentemente ha ribadito il principio secondo cui il datore di lavoro che intenda adottare una sanzione disciplinare nei confronti del dipendente non può omettere l'audizione del lavoratore incolpato che ne abbia fatto espressa ed inequivocabile richiesta contestualmente alla comunicazione - nel termine di cui all'art. 7, quinto comma, della legge 20 maggio 1970 n. 300 - di giustificazioni scritte, anche se queste appaiano già di per sé ampie ed esaustive.

Sul punto, la Corte accogliendo tale motivo e rigettando tutti gli altri, ha cassato la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello per il riconoscimento al lavoratore, ai sensi dall'art. 18, comma 6 S.L., dell'indennità risarcitoria da determinarsi tra un minimo di sei ed un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, in relazione alla gravità della violazione procedurale commessa dalla Società.

Licenziamento del dirigente

Cass. Sez. Lav. 3 agosto 2016, n. 16218

Pres. Venuti; Rel. Lorito; P.M. Fresa; Ric. C.E.C.; Contr. F.D.P.L.A.C.;

Licenziamento del dirigente - Giustificatezza - Riorganizzazione aziendale - Necessità di riduzione costi - Sussiste

La "giustificatezza" non deve necessariamente coincidere con l'impossibilità della continuazione del rapporto di lavoro e con una situazione di grave crisi aziendale tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa tale prosecuzione. Ed infatti posto che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con quello di iniziativa economica, garantita dall'art. 41 Cost., che verrebbe realmente negata ove si impedisse all'imprenditore, a fronte di razionali e non arbitrarie ristrutturazioni aziendali, di scegliere discrezionalmente le persone idonee a collaborare con lui ai più alti livelli della gestione dell'impresa.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione si occupa del licenziamento di un dirigente di una fondazione, il cui apporto patrimoniale è prevalentemente pubblico, motivato con l'adozione di un nuovo statuto, che imponeva di improntare ad una procedura differente la nomina del direttore, nonché con una drastica riduzione degli apporti patrimoniali: circostanza, quest'ultima, che determinava un eccessivo impatto dei costi sostenuti per il compenso del dirigente sul totale delle risorse ormai disponibili.

Come è noto, per i dirigenti - ad eccezione dei casi di licenziamento nullo ovvero viziato da motivo illecito determinante - vige ancora il regime della libera recedibilità, non applicandosi a costoro la l. 604/1966. Eppure, per via contrattual-collettiva si è creata una sorta di "rete di protezione", costituita dalla nozione di "giustificatezza": concetto ben più ampio del giustificato motivo richiesto dalla disciplina limitativa dei licenziamenti e a più riprese interpretata dalla giurisprudenza di legittimità. Il difetto di tale requisito, pur non potendo incidere sulla validità del licenziamento (che rimane efficace in virtù della libera recedibilità prevista dalla legge), porta tuttavia ad un risultato di non secondario rilievo: attribuisce al dirigente licenziato ingiustificatamente il diritto all'indennità supplementare prevista dal contratto collettivo, spesso di importo significativo.

La Cassazione ha rigettato il ricorso del dirigente, richiamando i propri numerosi precedenti in materia di "giustificatezza", ed in particolare affermando che tale nozione "non deve necessariamente coincidere con l'impossibilità della continuazione del rapporto di lavoro e con una situazione di grave crisi aziendale tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa tale prosecuzione. Ed infatti posto che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con quello di iniziativa economica, garantita dall'art. 41 Cost., che verrebbe realmente negata ove si impedisse all'imprenditore, a fronte di razionali e non arbitrarie ristrutturazioni aziendali, di scegliere discrezionalmente le persone idonee a collaborare con lui ai più alti livelli della gestione dell'impresa". Allargando il discorso ad un piano più generale, la Corte aggiunge altresì che ai fini della sussistenza della predetta giustificatezza, può "rilevare qualsiasi motivo, purchè esso possa costituire la base per una motivazione coerente e sorretta da motivi apprezzabili sul piano del diritto, a fronte della quale non è necessaria una analitica verifica di specifiche condizioni, ma è sufficiente una valutazione globale che escluda l'arbitrarietà e la pretestuosità del licenziamento in quanto riferito a circostanze idonee ad incidere sul legame di fiducia con il datore, nel cui ambito rientra l'ampiezza dei poteri attribuiti al dirigente".

Trasponendo sulla vicenda oggetto del giudizio quanto sopra riportato, non è difficile comprendere il fondamento logico-giuridico della decisione della Corte, di senso favorevole al datore di lavoro. Ed infatti, sommando il richiamo all'art. 41 Cost., che consente al datore di lavoro di licenziare un dirigente in base a scelte economicamente convenienti - anche se non "necessitate" o addirittura "imposte" dalla situazione contingente -, con la necessità che il licenziamento sia (semplicemente) non pretestuoso e non arbitrario, risulta evidente, nell'ottica della Cassazione, la legittimità di un licenziamento di un dirigente nominato secondo una procedura diversa da quella imposta dal nuovo statuto e a cui, in ogni caso, veniva riconosciuto un trattamento economico incompatibile - o comunque "meno compatibile" - con le nuove e molto più limitate risorse nella disponibilità del datore di lavoro.

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