Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Subordinazione e inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale
Licenziamento per giusta causa
Licenziamento per giusta causa e preavviso
Licenziamento per svolgimento di attività lavorativa durante l'assenza per malattia
Licenziamento e possibilità di repêchage

Quando è esclusa la subordinazione

Cass. Sez. Lav. 5 ottobre 2016, n. 19923

Pres. Bronzini; Rel. Spena; P.M. Celentano; Ric. M.E.; Contr. L. s.r.l.

Autonomia e subordinazione - Inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale - Utilizzo di beni aziendali - Indici della subordinazione - Non sufficienti

Ai fini dell'accertamento della natura subordinata di un rapporto di lavoro, l'inserimento del lavoratore nella organizzazione aziendale e l'utilizzo di beni aziendali, non hanno carattere decisivo in quanto sono elementi tipici anche dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. Conseguentemente, in assenza della prova dell'indice caratteristico della subordinazione - ovvero la sottoposizione del lavoratore al potere gerarchico e conformativo della prestazione del datore di lavoro - gli indici sussidiari possono assumere valenza soltanto se univoci.

Nota

Nel caso sottoposto all'esame della Suprema Corte, un lavoratore si era rivolto al Tribunale del lavoro di Vercelli, sostenendo di aver prestato la sua attività in favore di una società edile, formalmente con contratto di lavoro autonomo, ma di fatto in regime di lavoro dipendente, con mansioni di organizzazione e gestione di cantieri e, conseguentemente, chiedeva l'accertamento della natura subordinata del rapporto, oltre che la condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive.

Il Tribunale rigettava la domanda e la sentenza veniva confermata dalla Corte di appello di Torino, la quale affermava che dal complesso delle deposizioni testimoniali non risultavano provati gli elementi tipici della subordinazione, quali la imposizione di un orario di lavoro, la sottoposizione a precise direttive da parte dei responsabili della società, la corresponsione di un compenso fisso. E' pur vero che dall'istruttoria erano emersi l'inserimento nella organizzazione aziendale, l'utilizzo di locali e strumenti aziendali, la dotazione di biglietti da visita della società convenuta, ma tali elementi non erano, secondo la Corte di merito, da soli sufficienti a provare la subordinazione.

Avverso tale decisione il lavoratore propone ricorso per cassazione lamentando la violazione degli artt. 2094 e 2222 c.c., in quanto a parere del ricorrente la Corte di appello aveva errato nel ritenere che la durata ultradecennale del rapporto, la natura delle mansioni, particolarmente qualificate dal punto di vista tecnico, l'inserimento nella organizzazione aziendale non fossero elementi idonei a provare la subordinazione del rapporto di lavoro.

La Cassazione respinge il ricorso, rilevando che l'inserimento nella organizzazione aziendale e l'utilizzo di beni aziendali sono elementi tipici anche dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, di natura autonoma. In assenza della prova dell'indice caratteristico della subordinazione - ovvero la sottoposizione del lavoratore al potere gerarchico e conformativo della prestazione del datore di lavoro - gli indici sussidiari possono assumere valenza soltanto se univoci. La Corte di merito, secondo i giudici di legittimità, aveva correttamente evidenziato che, a fronte di alcuni elementi tipici della subordinazione - quali l'inserimento nella organizzazione aziendale e l'utilizzo di beni aziendali - ne erano emersi altri, come la mancata imposizione di un orario di lavoro, la emissione di fatture anche nei confronti di imprese terze e l'assenza di un compenso fisso, sintomatici, invece, della autonomia della collaborazione. 

 

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 20 settembre 2016, n. 18404

Pres. Nobile; Rel. Manna; P.M. Giacalone; Ric. P.E.; Controric. V. S.p.A.

Licenziamento disciplinare - Proporzionalità della sanzione - Criteri di giudizio - Fattispecie: diffamazione dei superiori con e-mail anonima - Giusta causa - Sussistenza

In tema di sanzioni disciplinari nell'ambito del rapporto di lavoro, il giudice di merito investito del giudizio circa la legittimità di un provvedimento disciplinare deve necessariamente valutare la sussistenza o meno del rapporto di proporzionalità tra l'infrazione del lavoratore e la sanzione irrogatagli, a tal fine tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive della condotta del lavoratore, quali il danno arrecato, l'intensità del dolo o il grado della colpa, i precedenti disciplinari, nonchè di tutti gli altri elementi idonei a consentire l'adeguamento della disposizione normativa di cui all'art. 2119 c.c., richiamato dall'art. 1 della L. 15 luglio 1966, n. 604, alla fattispecie concreta (Nella specie, la Suprema Corte, in applicazione del suddetto principio, ha confermato la decisione del giudice di merito, che, ha dichiarato la legittimità del licenziamento disciplinare intimato ad un lavoratore per aver lo stesso inviato una e-mail, in forma anonima, ai colleghi dal contenuto diffamatorio nei confronti dei suoi superiori gerarchici, laddove non sia stata offerta la prova che tale condotta costituisca una reazione alla circostanza che gli stessi abbiano discriminato le sue abitudini sessuali, e, dunque, senza che possa configurarsi l'esimente dello stato d'ira invocato dal dipendente).

Nota

La Corte d'Appello rigettava il reclamo proposto da un lavoratore avverso la sentenza di primo grado che aveva dichiarato la legittimità del licenziamento disciplinare intimatogli, per aver lo stesso inviato una e-mail, in forma anonima, ai suoi colleghi dal contenuto diffamatorio nei confronti di due dirigenti aziendali.

Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, denunciando, principalmente, violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c., vista l'irrilevanza come giusta causa di licenziamento del fatto contestato, nonché violazione e falsa applicazione dell'art. 599 c.p., per avere la gravata pronuncia escluso l'esimente dell'aver agito nello stato d'ira determinato dall'altrui fatto ingiusto (consistente nelle voci diffamatorie diffuse ai suoi danni, all'interno dell'azienda, dai dirigenti che, a loro volta, si erano sentiti diffamati dalla e-mail del ricorrente).

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, sulla scorta dei seguenti principi: a) la gravità della condotta va accertata prima in astratto (verificando la sussumibilità della stessa nelle previsioni pattizie e/o nella nozione legale di giusta causa o di giustificato motivo), e poi in concreto (tenendo conto delle circostanze soggettive e oggettive che l'hanno caratterizzata); b) la gravità (in concreto) dell'infrazione va valutata sotto il profilo oggettivo e soggettivo (tenendo presente, ad esempio di fattori, quali: il danno arrecato, l'intensità del dolo o il grado della colpa, i precedenti disciplinari, etc.) e deve essere tale da ledere il vincolo fiduciario e la futura affidabilità del dipendente a rendere la prestazione dedotta in contratto (cfr. ex plurimis Cass. 17/07/2015, n. 15058; Cass. 13/02/2012, n. 2013).

Ebbene, la Suprema Corte ha confermato la pronuncia con la quale la Corte territoriale, coerentemente con i principi sopra esposti, ha dichiarato legittimo il licenziamento disciplinare irrogato, e ciò in quanto la condotta in oggetto: 1) è stata correttamente inquadrata (in astratto) come giusta causa di licenziamento, in quanto integrante una diffamazione nei confronti di superiori dell'odierno ricorrente (sulla idoneità di condotte diffamatorie ad integrare, giusta causa di licenziamento, cfr. ex plurimis Cass. 21/04/2006, n. 9395; Cass. 24/05/2001, n. 7091); 2) comunque, riveste carattere di gravità tale da ledere il vincolo fiduciario, in ragione del coefficiente doloso e delle modalità usate (scritto anonimo e creazione di un falso mittente) per diffondere il messaggio di posta elettronica giudicato diffamatorio.

In ordine, infine, all'invocata esimente di cui all'art. 599, c. 2, c.p., la Corte di legittimità ha ritenuto la censura non accoglibile per l'assorbente rilievo che l'ingiusta condotta che il lavoratore rimprovera ai dirigenti aziendali (id est: l'aver diffuso voci diffamatorie ai suoi danni all'interno dell'azienda) è risultata non provata. 

 

Licenziamento per giusta causa e preavviso

Cass. Sez. Lav. 21 settembre 2016, n. 18508

Pres. Nobile; Rel. Lorito; P.M. Giacalone; Ric. Z.G.; Contr. P.L. s.p.a.

Licenziamento per giusta causa - Illegittimità - Applicazione della sola sanzione indennitaria ex art. 18, 5° comma, l. 300/1970 - Risoluzione del rapporto - Diritto del lavoratore all'indennità sostitutiva del preavviso ex art. 2118, 2° comma, c.c. - Sussiste

La tutela "indennitaria risarcitoria" sancita dall'art. 18, comma 5, l. 300/1970, come modificato dalla l. 92/2012 (c.d. legge Fornero), non esclude il diritto del lavoratore a percepire anche l'indennità di preavviso in caso di licenziamento dichiarato illegittimo.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione esprime un principio molto importante in materia di licenziamento per giusta causa, occupandosi, in particolare, del caso in cui il Giudice, pur ravvisando l'illegittimità del recesso datoriale, non ritenga di applicare la sanzione reintegratoria, bensì soltanto quella indennitaria.

Come è noto, la l. 92/2012 - meglio nota come "legge Fornero" - ha profondamente innovato l'impianto dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori (l. 300/1970), sostituendo, alla monolitica sanzione reintegratoria (cui si accompagnava il pagamento di tutte le retribuzioni medio tempore maturate, con un minimo di 5), un articolato ventaglio di sanzioni, graduato in base alla "gravità" del vizio presentato dal licenziamento. Più nel dettaglio, rileva che nei casi di licenziamento disciplinare (vale a dire, intimati per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo) la reintegrazione è prevista soltanto nelle ipotesi in cui il Giudice ravvisi l'insussistenza del fatto contestato al lavoratore (e, dunque, posto a base del licenziamento), ovvero che lo stesso fatto è punito, a norma del contratto collettivo applicato, con una sanzione "conservativa" (art. 18, 4° comma, l. 300/1970). Fuori da queste ipotesi, e quindi in corrispondenza di tutti gli altri vizi che un licenziamento può presentare, il legislatore esclude che all'illegittimità scaturente da siffatto vizio possa conseguire la reintegrazione, prevedendo invece che il Giudice dichiari risolto il rapporto di lavoro e condanni il datore unicamente al pagamento di un'indennità risarcitoria omnicomprensiva di importo compreso tra 12 e 24 mensilità e determinato sulla base di svariati parametri (art. 18, 5° comma, l. 300/1970).

Nella vicenda posta all'esame della Cassazione vi è stata l'applicazione di tale ultima norma, in quanto i giudici del merito, pur avendo ravvisato l'illegittimità del licenziamento per giusta causa irrogato dal datore di lavoro, avevano accertato che tale illegittimità non derivava dalle ipotesi tipiche a cui la legge riconnette la reintegrazione (insussistenza del fatto contestato ovvero punibilità dello stesso con sanzione conservativa) e che, dunque, doveva applicarsi la mera sanzione indennitaria prevista dal 5° comma dell'art. 18 St. lav.

Il problema ulteriore che si è posto ai giudici della Corte, giunti a questo punto, è se dall'accertata illegittimità del licenziamento per giusta causa - e, quindi, dall'insussistenza dei presupposti per il recesso c.d. "straordinario" - scaturisse il diritto del lavoratore a percepire l'indennità sostitutiva del preavviso, prevista dall'art. 2118, comma 2, c.c., per tutti i casi di recesso (c.d. "ordinario") in cui sia mancato il preavviso della parte recedente all'altra. Tutto ciò anche - o forse soprattutto - in considerazione del tenore letterale del predetto art. 18, comma 5°, che parla di "indennità risarcitoria omnicomprensiva".

La risposta che la Cassazione fornisce a tale interrogativo è positiva e viene argomentata sulla base della ratio dell'istituto del preavviso, previsto in favore di entrambe le parti del rapporto di lavoro, e volto alla tutela di quella che subisce il recesso, con la finalità di consentire a quest'ultima "di fronteggiare la situazione di improvvisa perdita della situazione occupazionale".

Di conseguenza, a parere della Corte, una volta venuta meno la legittimità del licenziamento per giusta causa, e a prescindere dal risarcimento conseguente a tale pronuncia, il lavoratore consegue anche il diritto all'indennità sostitutiva del preavviso, dal momento che il recesso datoriale "esce" dall'area della straordinarietà (art. 2119 c.c.), per entrare, viceversa, nell'ambito del regime ordinario (art. 2118 c.c.), caratterizzato dall'obbligatorietà del preavviso. 

 

Licenziamento per svolgimento di attività lavorativa durante l'assenza per malattia

Cass. Sez. Lav. 28 settembre 2016, n. 19187

Pres. Mammone; Rel. Berrino; Ric. S.D.; Controric. P.I. S.p.A.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Licenziamento per svolgimento di attività lavorativa durante l'assenza per malattia o infortunio - Legittimità - Requisiti - Effettiva ripresa del lavoro - Irrilevanza - Possibilità di pregiudicare la guarigione secondo un giudizio ex ante - Rilevanza

La valutazione del giudice di merito in ordine all'incidenza del lavoro sulla guarigione ha per oggetto il comportamento del dipendente nel momento in cui egli, pur essendo malato e (per tale causa) assente dal lavoro cui è contrattualmente obbligato, svolge per conto di terzi un'attività che può recare pregiudizio al futuro tempestivo svolgimento di tale lavoro; in tal modo, la predetta valutazione è costituita da un giudizio ex ante, e ha per oggetto la potenzialità del pregiudizio. Ai fini di questa potenzialità, la tempestiva ripresa del lavoro resta irrilevante. Lo svolgimento, da parte del dipendente assente per malattia, di altra attività lavorativa che, valutata in relazione alla natura dell'infermità e delle mansioni svolte, può pregiudicare o ritardare la guarigione ed il rientro in servizio, costituisce violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede, che giustifica il recesso del datore di lavoro.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Licenziamento per svolgimento di attività lavorativa durante l'assenza per malattia o infortunio - Compatibilità dell'attività svolta con la malattia - Onere della prova a carico del dipendente - Sussistenza

L'onere di provare la compatibilità dell'attività svolta con le proprie condizioni di salute, ed in particolare con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa - e conseguentemente l'inidoneità di tale attività a pregiudicare il recupero delle normali energie lavorative - grava sul dipendente che, durante l'assenza per malattia, sia stato sorpreso a svolgere attività lavorativa a favore di terzi.

Nota

La decisione in esame ha ad oggetto la possibilità di svolgere attività lavorative nel corso del periodo di assenza dal lavoro per malattia o infortunio. Nel caso di specie il lavoratore, dipendente con mansione di portalettere, aveva svolto in svariate occasioni attività di disk-jockey nel corso di un periodo di assenza dal lavoro per infortunio. In considerazione di ciò la società datrice di lavoro lo licenziava.

Il lavoratore impugnava il licenziamento ed otteneva in primo grado la dichiarazione di illegittimità del recesso datoriale con conseguente diritto alla reintegra e al risarcimento del danno. La Corte d'Appello di Genova, a seguito di impugnazione della società datrice di lavoro, riformava la sentenza del Tribunale di prime cure e dichiarava legittimo il licenziamento ritenendo il comportamento del lavoratore contrario ad una specifica disposizione del CCNL applicato (che vietava al dipendente assente per infortunio o malattia lo svolgimento di attività lavorativa) oltre che ai principi di buona fede, diligenza e fedeltà.

Contro tale decisione ricorreva in Cassazione il lavoratore sostenendo, tra l'altro e per quanto qui interessa, che la sua attività di disk-jockey era stata meramente amatoriale e che la stessa non aveva in alcun modo pregiudicato o ritardato la guarigione.

La Suprema Corte ha ritenuto infondati i motivi di impugnazione proposti dal lavoratore e rigettato il ricorso. La Corte di Cassazione, infatti, pur affermando che non esiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto di svolgimento di attività lavorativa durante la malattia, ha enunciato nel corso della motivazione il principio per cui "la valutazione del giudice di merito, in ordine all'incidenza del lavoro sulla guarigione, ha per oggetto il comportamento del dipendente nel momento in cui egli, pur essendo malato e (per tale causa) assente dal lavoro cui è contrattualmente obbligato, svolge per conto di terzi un'attività che può recare pregiudizio al futuro tempestivo svolgimento di tale lavoro; in tal modo, la predetta valutazione è costituita da un giudizio ex ante, ed ha per oggetto la potenzialità del pregiudizio. Ai fini di questa potenzialità, la tempestiva ripresa del lavoro resta irrilevante. Lo svolgimento, da parte del dipendente assente per malattia, di altra attività lavorativa che, valutata in relazione alla natura dell'infermità e delle mansioni svolte, può pregiudicare o ritardare la guarigione ed il rientro in servizio, costituisce violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede, che giustifica il recesso del datore di lavoro".

Sulla base di quanto sopra la Suprema Corte, ritenendo che la Corte d'Appello avesse fatto corretta applicazione del principio di cui sopra, ha respinto le doglianze del lavoratore. La Corte, infatti, ha ribadito l'irrilevanza del fatto che l'attività posta in essere in costanza di malattia o infortunio ritardi effettivamente la guarigione o la ripresa del servizio, essendo rilevante ai fini della valutazione del comportamento del lavoratore determinare, secondo un giudizio prognostico, se lo stesso abbia posto in essere attività tali da poter potenzialmente ritardare o compromettere la guarigione stessa. Tale comportamento è, sempre secondo la Corte, contrario agli obblighi gravanti sul lavoratore in virtù del rapporto di lavoro e tale da poter giustificare il licenziamento.

Con la medesima decisione la Suprema Corte ha anche avuto modo di precisare che "l'onere di provare la compatibilità dell'attività svolta con le proprie condizioni di salute, ed in particolare con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa - e conseguentemente l'inidoneità di tale attività a pregiudicare il recupero delle normali energie lavorative - grava sul dipendente che, durante l'assenza per malattia, sia stato sorpreso a svolgere attività lavorativa a favore di terzi". 

 

Licenziamento e possibilità di repêchage

Cass. Sez. Lav. 11 ottobre 2016, n. 20436

Pres. Di Cerbo; Rel. Lorito; Ric. D.R.; Controric. K. S.r.l.

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Giustificato motivo oggettivo - Oneri di allegazione e prova del datore - Contenuto - Possibilità di repêchage - Inclusione

In materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repêchage del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba alcun onere di allegazione dei posti assegnabili.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte definisce i criteri di riparto dell'onere di allegazione e di prova dell'impossibilità di repêchage del dipendente licenziato.

Nella specie, un lavoratore era stato licenziato per giustificato motivo oggettivo, integrato dalla soppressione del suo posto di lavoro connessa ad un riassetto organizzativo "culminato nell'affidamento ad un soggetto esterno dell'attività" cui era addetto il ricorrente.

I Giudici del merito rigettavano l'impugnativa del lavoratore, ritenendo, da un lato, sussistente una valida motivazione di recesso e, dall'altro, non assolto da parte del dipendente l'onere di allegazione di "un possibile ricollocamento nell'assetto organizzativo aziendale".

Il dipendente proponeva, quindi, ricorso per Cassazione, lamentando che la Corte territoriale avrebbe sostanzialmente ribaltato a carico del lavoratore un onere probatorio che, invece, avrebbe dovuto gravare per intero sul datore di lavoro, il quale avrebbe dovuto dimostrare di non avere nuovi assunti o di averli destinati a mansioni incompatibili con quelle espletate dal lavoratore licenziato, di cui avrebbe dovuto altresì comprovare l'impossibilità di ricollocazione in altre posizioni lavorative.

La Suprema Corte accoglie il ricorso, ricordando, anzitutto, che la dimostrazione della effettività delle ragioni sottese al provvedimento espulsivo non è sufficiente da sola ad integrare gli estremi del giustificato motivo oggettivo, essendo necessaria la prova della inutilizzabilità del lavoratore in altre posizioni equivalenti, potendo l'onere in questione ricondursi al generale principio della buona fede, che impone a ciascun contraente di soddisfare i propri interessi nel modo meno pregiudizievole per la controparte.

Segnatamente, la Cassazione - discostandosi da un suo precedente orientamento (recentemente, Cass. 12 agosto 2016, n. 17091 e Cass. 6 ottobre 2015, n. 19923) - afferma che, ai sensi dell'art. 5, L. 15 luglio 1966, n. 604, l'onere di allegazione e l'onere probatorio incombono sulla medesima parte, quella datoriale, nel senso che chi ha l'onere di provare un fatto primario ha altresì l'onere della relativa compiuta allegazione. In siffatta prospettiva - soggiunge il Supremo Collegio - va rimarcato come la tesi che configura a carico del lavoratore l'onere di segnalare una sua possibilità di riallocazione nell'ambito dell'assetto organizzativo aziendale non appare coerente con la lettera e la ratio che sorregge l'art. 5 cit., secondo cui l'onere della prova circa l'impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza è posto a carico della parte datoriale, con esclusione di ogni incombenza, anche solo in via mediata, a carico del lavoratore. Ciò tenuto anche conto della più recente linea evolutiva della giurisprudenza in tema di onere della prova che va accentuando il principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento dell'effettiva possibilità per l'una o per l'altra parte di offrirla: difatti - conclude la Cassazione - mentre il lavoratore non ha accesso (o non ne ha di completo) al quadro complessivo della situazione aziendale per verificare dove e come potrebbe essere riallocato, il datore di lavoro ne dispone agevolmente, sicché è anche più vicino alla concreta possibilità della relativa allegazione e prova.

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