Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento ritorsivo e onere della prova
Legittimità del licenziamento per soppressione della posizione
Licenziamento per scarso rendimento tra giustificato motivo oggettivo o soggettivo
Nozione di mobbing
Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Licenziamento ritorsivo e onere della prova

Cass. Sez. Lav. 15 novembre 2016, n. 23286

Pres. Venuti; Rel. Manna; P.M. Sanlorenzo; Ric. R.M.; Controric. G.D.

Licenziamento ritorsivo - Molestie sessuali - Onere della prova - Applicabilità del regime probatorio presuntivo previsto dall'art. 40 d.lgs. n. 198/2006 - Sussiste

La generale equiparazione fra discriminazioni di genere e molestie sessuali sancita, oltre che dall'art. 26 comma 2 del d.lgs. n. 198/2006, anche dall'art. 2 comma 1, lett. d) della direttiva 2000/78/CE, comporta la doverosa applicazione alle seconde del medesimo regime probatorio presuntivo previsto per le discriminazioni di genere dall'art. 40 del succitato d.lgs., con la conseguenza che ove risultino fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incombe alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio di parità di trattamento.

Nota

Il Tribunale di Pistoia dichiarava nullo il licenziamento intimato dal datore di lavoro ad una propria dipendente perché discriminatorio e determinato da motivo illecito determinante, consistito nella ritorsione dovuta al rifiuto della lavoratrice di sottostare a molestie sessuali.

Conseguentemente, il giudice di prime cure ordinava la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro, con condanna della parte datoriale al risarcimento dei danni ed al pagamento delle differenze retributive.

Analoghe statuizioni erano adottate - fatta eccezione per quelle concernenti il provvedimento di licenziamento -, in favore di altra dipendente della medesima società, dimessasi per sottrarsi alle molestie sessuali del datore di lavoro.

Con la sentenza di primo grado la parte datoriale veniva, altresì, condannata al risarcimento dei danni in favore dell'Ufficio della Consigliera di Parità della Regione Toscana, anch'esso parte nel predetto giudizio.

A seguito di gravame proposto dalla parte datoriale, la Corte di Appello di Firenze confermava la sentenza di primo grado.

Avverso la sentenza di appello proponeva ricorso il datore di lavoro, affidandosi a quattro motivi.

In particolare, l'istante denunciando la violazione e falsa applicazione degli artt. 26 e 40 del d.lgs. n. 198/2006, censurava la sentenza impugnata nella parte in cui aveva ritenuto che alle molestie sessuali di cui all'art. 26 del predetto d. lgs., si applicasse il regime probatorio presuntivo previsto dal citato art. 40.

Al riguardo, veniva obiettato in ricorso che l'equiparazione tra molestie sessuali e discriminazioni, espressamente prevista in via generale dall'art. 26 del d.lgs. n. 198/2006, non comportasse anche l'applicazione alle prime del particolare regime presuntivo previsto per le seconde dal succitato art. 40.

La Corte di Cassazione rigettava il ricorso.

Innanzitutto, la Suprema Corte ha rilevato che qualsiasi giudizio di diversità/uguaglianza fra due gruppi di persone, in rapporto ad un determinato standard di misura, è pur sempre un giudizio ternario in cui il tertium comparationis è dato dal (diverso od uguale) trattamento ricevuto dai due gruppi.

Nel caso delle molestie sessuali, invece, il tertium comparationis, pur non mancando del tutto, è costituito da un trattamento differenziale negativo - ossia il non aver i lavoratori maschi patito molestie sessuali -, che ha una valenza presuntiva logicamente minore.

Ciononostante, la Suprema Corte ha chiarito che la strutturale ed ontologica differenza intercorrente tra le discriminazioni di genere e le molestie sessuali per la mancanza nelle seconde del trattamento differenziale, nel senso appena esposto, non può inficiare la doverosa applicazione, anche al caso di specie, della regola probatoria di cui all'art. 40 del succitato d.lgs. n. 198/2006, in virtù delle considerazioni che seguono.

In primo luogo, secondo quanto sostenuto dalla Suprema Corte, in tal senso milita la collocazione della generale equiparazione fra discriminazioni di genere e molestie sessuali, sancita nel summenzionato art. 26, comma 2 del d.lgs. n. 198/2006, che precede la disposizione contenuta nel successivo art. 40, concernente la ripartizione dell'onere probatorio in sede giudiziaria, senza che a tale riguardo il legislatore abbia ritenuto di dover ridimensionare o diversamente puntualizzare la precedente equiparazione.

In secondo luogo, la Suprema Corte ha richiamato a conforto della propria tesi la sentenza 17.7.08, C-303/06 (caso Coleman), con la quale la Corte di Giustizia, pronunciandosi in relazione ad un'ipotesi di discriminazione a causa di disabilità, dopo aver rilevato che le molestie, in generale, sono una forma di discriminazione già ai sensi dell'art. 2, n. 1 della direttiva 2000/78/CE, ha statuito l'applicabilità alle molestie del medesimo regime probatorio previsto per le discriminazioni. Nel senso che, ove risultino fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incombe alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del divieto di discriminazione.

A tale proposito, come ha chiarito la Suprema Corte, a nulla rileva che nella succitata sentenza la Corte di Giustizia si sia pronunciata rispetto ad una fattispecie di molestie ai danni di disabile, trattandosi comunque di un'altra ipotesi nella quale, al pari delle molestie sessuali, il tertium comparationis era integrato da un trattamento differenziale meramente negativo (ovverosia mancanza di analoghe molestie ai danni dei non disabili).

Pertanto, la Suprema Corte ha statuito che la doverosità di una esegesi conforme alla normativa comunitaria, come interpretata dalla Corte di Giustizia, impone di ritenere estesa l'equiparazione delle molestie sessuali alle discriminazioni di genere, anche in ordine alla ripartizione dell'onere probatorio.

Applicando tali principi al caso in esame, la Suprema Corte ha ritenuto che correttamente la Corte territoriale avesse ravvisato la prova presuntiva delle molestie sessuali ai danni delle lavoratrici sulla base di plurime deposizioni che avevano riferito di molestie in loro danno, analoghe a quelle lamentate dalla controricorrenti.

Tali deposizioni sono state corroborate anche dalla prova statistica fornita dall'Ufficio della Consigliera di Parità della Regione Toscana, costituita da un serrato turn over tra le giovani dipendenti assunte dall'odierno ricorrente, che dopo un breve periodo di lavoro si dimettevano senza apparente ragione.

Alla stregua di tale quadro complessivo, la Suprema Corte ha ritenuto che correttamente i giudici di merito avessero ravvisato le condizioni per imporre quell'inversione dell'onere probatorio a carico del datore di lavoro (o comunque l'attenuazione dell'onere gravante su parte attrice; cfr. in tal senso, Cass. 5 giugno 2013, n. 14206), prescritta dall'art. 40 del d.lgs. n. 198/2006 in ipotesi di discriminazione di sesso.

Legittimità del licenziamento per soppressione della posizione

Cass. Sez. Lav. 30 novembre 2016, n. 24458

Pres. Napoletano; Rel. Blasutto; P.M. Matroberardino; Ric M.C.; Controric. B.M.C.

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto di lavoro - Licenziamento - Giustificato motivo oggettivo - Presupposti - Iniziativa economica tutelata dall'articolo 41 della Costituzione - Sindacato del giudice - Nesso causale - Riassetto organizzativo

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva è una scelta riservata all'imprenditore, quale responsabile della corretta gestione dell'azienda anche dal punto di vista economico ed organizzativo. Ne discende che una siffatta scelta, quando risulti effettiva e non simulata o pretestuosa, non è assoggettabile al sindacato del giudice al fine di verificarne la congruità e l'opportunità. La ricorrenza del giusto motivo di licenziamento deve ritenersi sussistente anche nell'ipotesi di riassetto organizzativo dell'azienda, posto in essere dall'imprenditore al fine di una gestione più economica della stessa.

Nota

Una Società aveva licenziato la dipendente, assunta con mansioni di magazziniere, per ridurre il personale al fine di contenere i costi. La Corte di appello di Catanzaro, riformando la sentenza di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento intimato alla dipendente.

Per la Corte di appello, la Società non aveva provato l'esistenza della situazione economica negativa posta a fondamento della soppressione della posizione. Pertanto, insisteva la Corte, non si può ritenere giustificato il licenziamento che, anziché rispondere all'esigenza di una riduzione dei costi a fronte di comprovate situazioni economiche negative, sia solo funzionale al risparmio delle retribuzioni dovute ai dipendenti.

La Società proponeva ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello.

Secondo la Società si trattava di una soppressione effettiva in quanto, nell'ambito di una riorganizzazione interna, da un lato, era emersa la necessità di assumere personale laureato che gestisse i rapporti con la clientela, mentre dall'altro, anche a fronte delle nuove assunzioni, era divenuto troppo oneroso mantenere personale con mansioni di magazziniere. Successivamente al licenziamento, non era stato assunto alcun magazziniere e le mansioni precedentemente svolte dalla dipendente licenziata erano stata attribuite a personale già in forza presso la Società.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso.

Per la Cassazione, infatti, nella nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento deve ricondursi anche l'ipotesi del riassetto organizzativo dell'azienda, attuato per una più economica gestione, motivo questo rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il Giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà economica tutelata dall'art. 41 della Costituzione.

Al Giudice spetta quindi il solo controllo della reale sussistenza del motivo posto alla base del licenziamento addotto dall'imprenditore e il nesso di causalità tra il motivo addotto e il recesso con la conseguenza che non è sindacabile, nei suoi profili di opportunità, la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione della posizione, sempreché non risulti pretestuosa.

Alla luce dei suesposti principi, per la Cassazione la Corte di appello avrebbe errato nel ritenere che la Società non poteva procedere alla soppressione del posto di lavoro al sol fine di realizzare economie di spesa, così ingerendosi indebitamente nel merito delle scelte economiche adottate dalla Società.

Licenziamento per scarso rendimento tra giustificato motivo oggettivo o soggettivo

Cass. Sez. Lav. 22 novembre 2016, n. 23753

Pres. Di Cerbo; Rel. Amendola; Ric. B.D.P; Controric. A.A.I. S.r.l.

Licenziamento per scarso rendimento - Giustificato motivo oggettivo - Condizioni - Formulazione di un giudizio negativo sul lavoratore - Esclusione - Licenziamento disciplinare - Sussistenza

In tema di licenziamento individuale, deve escludersi la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo quando, al di là di ogni eventuale riferimento a ragioni relative all'impresa, il licenziamento è fondato su di un comportamento riconducibile alla sfera volitiva del lavoratore e lesivo dei suoi doveri contrattuali integrante un inadempimento, implicante, da parte del datore di lavoro, un giudizio negativo nei suoi confronti. Pertanto, il licenziamento per scarso rendimento costituisce un'ipotesi di recesso per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore.

Nota

Un dipendente veniva licenziato, con preavviso in ragione della "pressoché totale assenza di sinallagmaticità, fra le obbligazioni facenti capo (all'azienda, n.d.r.) ed il contenuto della prestazione (del lavoratore, n.d.r.) (anche sotto il profilo degli esiti della stessa), che non possiamo non riconnettere ad una - per quanto (...) sollecitata - mancanza di adeguamento alle esigenze (comportamentali, produttive, valutative, ecc.), che la evoluzione del mercato, invece, comporta". Precisando di non voler muovere "contestazioni di natura disciplinare", l'azienda riteneva sussistente "una sorta di impossibilità sopravvenuta all'adempimento della prestazione oggettivamente da ricondurre ad una mancanza di adeguamento alle attuali esigenze del nostro settore" comportante "una fattispecie di cosiddetto giustificato motivo oggettivo idoneo a sorreggere il recesso".

Il lavoratore impugnava il recesso con il c.d. Rito Fornero (l. 92/2012). Il Tribunale di Cassino, sia nella fase a cognizione sommaria, sia in quella di opposizione, accertava l'illegittimità del licenziamento con condanna alla reintegrazione.

In sede di reclamo, la Corte di Appello di Roma, escludeva la nullità del licenziamento e, in luogo della reintegrazione, condannava l'azienda a corrispondere al lavoratore 22 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. La Corte territoriale escludeva la manifesta insussistenza del fatto posto a base del recesso, vale a dire la sopravvenuta impossibilità di rendere una prestazione utile al datore di lavoro, ritenendo anzi che tale circostanza potesse integrare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Tuttavia, ad avviso del collegio, il datore di lavoro aveva violato l'obbligo di repechage, non avendo dimostrato l'impossibilità di adibire il lavoratore ad altri ruoli.

Avverso tale sentenza il dipendente ricorreva in cassazione; l'azienda resisteva con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale.

Per quel che qui rileva, la Corte di Cassazione ha anzitutto considerato infondato il motivo di ricorso con cui il lavoratore censurava la sentenza impugnata per aver escluso la nullità del licenziamento, nonostante l'azienda avesse scientemente qualificato il recesso come giustificato motivo oggettivo al fine di disapplicare le garanzie proprie del procedimento disciplinare con conseguente violazione di norme imperative o comunque in frode alla legge. La Suprema Corte ha chiarito che l'insussistenza del giustificato motivo oggettivo invocato dal datore di lavoro non rende il licenziamento nullo, ma solo ingiustificato.

La Corte di Cassazione ha invece accolto il motivo con cui il lavoratore lamentava violazione e falsa applicazione dell'art. 3 l. 604/1966 per aver la Corte distrettuale ricondotto il licenziamento, comunque relativo ad un inadempimento, ad un'ipotesi di giustificato motivo oggettivo che, invece, è configurabile solo in presenza di fatti sopravvenuti, non imputabili al lavoratore, che rendono impossibile la sua prestazione.

Dalla stessa lettera di recesso risulta evidente come la società avesse inteso fondare il licenziamento nell'inadeguatezza del lavoratore, allo stesso addebitabile, per mancato adeguamento della sua prestazione alle mutate esigenze di mercato, nonostante fosse stato sollecitato in tal senso.

Sul punto, la Suprema Corte ha richiamato l'orientamento giurisprudenziale, dalla stessa qualificato come assolutamente prevalente (Cass. 14310/2015), secondo cui il licenziamento per scarso rendimento costituisce un'ipotesi di recesso del datore per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore.

Nel contratto di lavoro subordinato, il lavoratore non si obbliga al raggiungimento di un risultato, ma alla messa a disposizione delle proprie energie, nei modi e nei tempi stabiliti dal datore di lavoro, con la conseguenza che il mancato raggiungimento del risultato prefissato non costituisce di per sé inadempimento, potendo tuttavia essere qualificato come tale quando siano individuabili dei parametri medi di diligenza e professionalità proprie delle mansioni affidate al lavoratore, con la conseguenza che il discostamento da tali parametri può costituire segno o indice di inadempimento del dipendente.

Pertanto, ogni qualvolta lo scarso rendimento presuppone un giudizio negativo sul lavoratore, il relativo licenziamento deve essere considerato, ontologicamente, disciplinare.

Occorre quindi tenere distinte le ipotesi in cui il datore di lavoro si dolga della condotta del lavoratore, addebitandogli un inadempimento, che danno luogo al licenziamento cd. ontologicamente disciplinare, dai casi riferibili alle ragioni organizzative dell'impresa che possono anche ravvisarsi in condizioni attinenti alla persona del lavoratore, integranti un giustificato motivo oggettivo, quali la sopravvenuta inidoneità per infermità fisica, la carcerazione, il ritiro della patente o la sospensione delle autorizzazioni amministrative ovvero la mancanza del titolo professionale abilitante, a condizione che si tratti di circostanze oggettive idonee a determinare la perdita di interesse del datore di lavoro alla prestazione, estranee alla sfera volitiva del dipendente e dunque tali da non poter configurare, nella sostanza, un inadempimento allo stesso imputabile.

E' stato poi chiarito che la sussunzione del licenziamento per scarso rendimento quale giustificato motivo oggettivo o soggettivo non può essere rimessa alla libera scelta del datore di lavoro, in virtù di un mero atto di qualificazione del recesso, svincolato dalla valutazione della concreta ragione posta a fondamento del licenziamento.

La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso principale, ha cassato con rinvio la sentenza impugna.

Nozione di mobbing

Cass. Sez. Lav. 24 novembre 2016, n. 24029

Pres. Macioce; Rel. Di Paolantonio; P.M. Matera; Ric. P.D.; Controric. M. D. S.r.l.

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Tutela delle condizioni di lavoro - Mobbing lavorativo - Configurabilità - Elementi costitutivi - Fattispecie - Esclusione

Nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato si configura il mobbing lavorativo in presenza di una serie di comportamenti aventi carattere persecutorio e vessatorio e posti in essere ai danni del lavoratore, in maniera sistematica e prolungata nel tempo, direttamente dal datore di lavoro o da un suo preposto o anche da altri dipendenti sottoposti al potere direttivo dei primi. Deve inoltre ravvisarsi una condotta persecutoria, l'idoneità di essa a danneggiare la salute, la personalità o la dignità del dipendente ed il nesso di causalità tra la condotta e il danno subito dalla vittima.

Nota

Nel caso in esame la Corte d'Appello di Torino, riformando la sentenza di primo grado, ha respinto la domanda di risarcimento del danno proposta da un lavoratore nei confronti del suo ex datore di lavoro, allegando il carattere asseritamente vessatorio della condotta tenuta nei suoi confronti dai vertici aziendali, che lo avevano privato di ogni mansione, costringendolo ad una forzosa inattività, e indotto a dimettersi.

La Corte d'Appello ha escluso la sussistenza di qualsiasi profilo di illegittimità della condotta tenuta dal datore di lavoro, osservando che tale vicenda si inseriva nell'ambito di una complessa riorganizzazione aziendale (con contestuale procedura di mobilità del personale in eccedenza), nelle more della quale la società aveva invitato il lavoratore ad usufruire temporaneamente di un periodo di ferie, in attesa di individuare, all'esito della suddetta riorganizzazione, una diversa posizione lavorativa cui assegnarlo. La Corte d'Appello rilevava altresì che la Società aveva prospettato al lavoratore due posizioni lavorative alternative, entrambe rifiutate, e che, in ogni caso, il presunto periodo di "dequalificazione" era durato in totale 24 giorni, sicché doveva escludersi qualsiasi pregiudizio alla professionalità del lavoratore.

Ricorreva per Cassazione il lavoratore con vari motivi, lamentando che il giudice di merito aveva erroneamente escluso che la condotta della società potesse essere definita vessatoria, richiamando all'uopo la giurisprudenza di legittimità sulla nozione di mobbing.

La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato, richiamando innanzitutto l'orientamento consolidato secondo cui ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (cfr. in tal senso Cass. n. 17698/2014).

Ebbene, la Corte territoriale ha ritenuto nella fattispecie non sussistenti gli elementi costitutivi sopra indicati, evidenziando che i comportamenti tenuti dal datore di lavoro risultavano tutti giustificati dal processo di riorganizzazione de quo, ed ha rilevato che il danno alla professionalità non poteva in nessun caso essere ravvisato, poiché il presunto periodo di "dequalificazione" era stato quantificato nella specie in soli 24 giorni.

La Corte d'Appello ha quindi, con motivazione articolata, logica e coerente, escluso l'asserito inadempimento colpevole della società. Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 24 ottobre 2016, n. 21374

Pres. Mammone; Rel. Doronzo; P.M. Matera; Ric. Q.G.; Controric. P.I. s.p.a.

Licenziamento collettivo - Criteri di scelta - Prossimità al pensionamento - Legittimità - Sussistenza

In materia di collocamenti in mobilità e di licenziamenti collettivi, ove il criterio di scelta adottato nell'accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali sia unico e riguardi la possibilità di accedere al prepensionamento, tale criterio sarà applicabile a tutti i dipendenti dell'impresa a prescindere dal settore al quale gli stessi siano assegnati, restando perciò irrilevanti i settori aziendali di manifestazione della crisi cui il datore di lavoro ha fatto riferimento nella comunicazione di avvio della procedura.

Nota

La fattispecie in esame concerne una procedura di licenziamento collettivo avviata da una delle più grandi aziende italiane, oggetto di numerose pronunzie giurisprudenziali. Nella decisione in commento la Suprema Corte afferma il principio di cui alla massima e coglie l'occasione per ribadirne numerosi altri in tema di criteri di scelta, già affermati in suoi precedenti specifici.

Il caso prende le mosse dall'impugnativa del licenziamento collettivo per violazione del criterio della prossimità a pensione individuato nell'accordo sindacale siglato ex L. 223/91. In particolare, il lavoratore, precisando che nell'accorso si era prevista la risoluzione del rapporto con il personale che, ad una certa data, risultasse in possesso dei requisiti per il diritto alla pensione di vecchiaia, assumeva di non aver alla data del recesso ancora acquisito il trattamento pensionistico nonché di appartenere alla categoria dei quadri non rientrante tra quelle del personale in eccedenza.

Il Tribunale di Bologna accoglie il ricorso, mentre la Corte d'Appello riforma integralmente la decisione e reputa correttamente instaurata e condotta la procedura di licenziamento collettivo. In particolare, i giudici del gravame ritengono irrilevante che la posizione di quadro Q1 occupata dal ricorrente non fosse compresa tra quelle eccedentarie indicate nell'avvio della procedura, affermando che si deve avere riguardo alle eccedenze di tutte le unità Q1 all'interno delle quali era stata individuata la posizione del lavoratore in quanto prossimo al pensionamento.

Avverso tale decisione il lavoratore propone ricorso per Cassazione affidato a quattro motivi tutti rigettati dalla Suprema Corte.

Nell'affermare il principio di cui alla massima la Cassazione richiama uno specifico precedente in termini (Cass. 23 giugno 2014), ricordando che numerose volte il criterio della prossimità a pensione è stato ritenuto - in linea con le considerazioni svolte dalla Corte Costituzionale nella sentenza 268 del 1994 - razionalmente adeguato e conforme al principio di ragionevolezza e non discriminazione, stante la giustificazione costituita dal minore impatto sociale dell'operazione e il potere dell'accordo di cui all'art. 5, comma 1. 223 del 1991 di sostituire i criteri legali e di adottare anche un unico criterio di scelta, a condizione che il criterio adottato escluda qualsiasi discrezionalità del datore di lavoro (Cass. 24 aprile 2007, n. 9866). La Corte precisa, inoltre, che, in materia di collocamento in mobilità e di licenziamenti collettivi, il criterio di scelta adottato nell'accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali per l'individuazione dei destinatari del licenziamento può anche essere unico e consistere nella prossimità al pensionamento, purché esso permetta di formare una graduatoria rigida e possa essere applicato e controllato senza alcun margine di discrezionalità da parte del datore di lavoro (Cass. 21 settembre 2006, n. 20455; Cass. 6 ottobre 2006, n. 21541).

A giudizio della Cassazione la Corte di merito ha fatto corretta applicazione degli enunciati principi, ritenendo irrilevante la collocazione professionale del lavoratore licenziato dovendosi aver riguardo da una parte all'esigenza del datore di lavoro esplicitata nella nota di avvio della procedura di riduzione del costo del personale e, dall'altra, al criterio di scelta dei lavoratori da licenziare fondato sulla prossimità al pensionamento, che risponde a principi di equità e trasparenza. D'altronde - osserva la Corte - nel criterio di scelta in questione è evidente l'assenza di qualsiasi elemento suscettibile di far paventare l'esistenza di un intento discriminatorio da parte della società, essendo innegabile l'equità di un sistema di riduzione del personale incentrato sull'esigenza di una più efficiente riorganizzazione dell'impresa non disgiunta da quella di addossare la ricaduta degli effetti negativi della riduzione stessa sui soggetti che, per essere prossimi a pensione, hanno la capacità economica di ammortizzare meglio detti effetti (Cass. 24 aprile 2013, n. 10001; Cass. 23 giugno 2014, n. 14170).

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