Contenzioso

Se la lavoratrice è madre recesso nullo e danni risarciti

di Angelo Zambelli

Con la sentenza 475/16, depositata ieri, la Cassazione si pronuncia sul regime sanzionatorio applicabile prima della Riforma Fornero (legge 92/2012) al licenziamento intimato alla lavoratrice madre durante il periodo tra l’inizio del periodo di gravidanza e il compimento di un anno d’età del bambino.

La vicenda muove dalla decisione della Corte d’appello di Napoli che, ritenuto illegittimo il licenziamento, aveva condannato il datore di lavoro piccolo imprenditore a riassumere la lavoratrice o, in mancanza, a risarcirle il danno commisurato in cinque mensilità dell’ultima retribuzione di fatto secondo quanto previsto dall’articolo 8 della legge 604/66 (cosiddetto regime di tutela obbligatoria).

Di diverso avviso la Cassazione che, accogliendo il ricorso della lavoratrice, ha stabilito che il licenziamento comminato alla donna durante la gestazione o il puerperio è totalmente improduttivo di effetti ai sensi dell’articolo 54 del dlgs 151/01, con la conseguenza che «il rapporto deve ritenersi giuridicamente pendente ed il datore di lavoro inadempiente va condannato a riammettere la lavoratrice in servizio ed a pagarle tutti danni derivanti dall’inadempimento in ragione del mancato guadagno» (tra le molte, Cassazione n. 24349/10 e n. 18357/04). Sicché, dovendosi ritenere come «mai interrotto» il rapporto di lavoro, il risarcimento dovrà essere pari alle retribuzioni perse dalla lavoratrice dal giorno del licenziamento sino all’effettiva riammissione in servizio (tra le molte, Cassazione n. 2244/06).

La soluzione della Cassazione è in linea anche con quanto previsto nelle riforme del 2012 e del 2015, che hanno dato forma al quadro normativo vigente. Indipendentemente dal numero di lavoratori dell’impresa, infatti, l’illegittimo licenziamento della lavoratrice madre è oggi disciplinato, in caso di assunzione anteriore al 7 marzo 2015, dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, come modificato dalla legge 92/12 e, per le assunte da tale data, dall’articolo 2 del dlgs 23/2015 (attuativo del Jobs act).

Entrambe le norme prevedono che il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché intimato «in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’articolo 54» del Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità - dlgs 151/01 (secondo la lettera dell’articolo 18, legge 300/70); o «perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge» (nella formulazione del dlgs 23/2015), ordina la reintegrazione della lavoratrice, condannando il datore di lavoro al pagamento di un’indennità commisurata all’ultima retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito dalla lavoratrice, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività.

La sentenza 475/16 della Corte di cassazione

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