Contenzioso

Disciplinare spedito fuori azienda, sì al recesso

di Angelo Zambelli

Un architetto, dipendente comunale con qualifica di tecnico responsabile dei lavori pubblici, denunciava l’ente di appartenenza per asserite violazioni edilizie. L’esposto non aveva però alcun esito, se non una richiesta riservata di chiarimenti che l’ente locale riceveva dalla Prefettura.

Venuto così a conoscenza dell’iniziativa del proprio dipendente, il Comune avviava una procedura disciplinare a carico di quest’ultimo che, tuttavia, al momento di presentare le proprie giustificazioni non si limitava ad indirizzarle al segretario comunale (naturale destinatario in qualità di responsabile del procedimento disciplinare), ma ne inviava copia anche al Prefetto, al Procuratore della Repubblica, alla Corte dei conti, a due consiglieri comunali, e ad alcuni rappresentanti sindacali territoriali esterni e interni all’amministrazione.

Ritenendo che tale comportamento fosse diretto a gettare discredito sull’amministrazione, il Comune licenziava l’architetto per violazione degli obblighi di fedeltà , correttezza e buona fede, avuto riguardo al grado d’affidamento richiesto dalle mansioni affidate al lavoratore e all’intensità dell’elemento intenzionale.

La legittimità del licenziamento veniva dapprima dichiarata dal Tribunale di primo grado e confermata dalla Corte d’appello (con sentenza successivamente cassata per vizio di motivazione), e poi nuovamente ribadita dalla Corte d’appello di Milano in funzione di Giudice del rinvio.

In esito a un’articolata vicenda processuale, il licenziamento è stato quindi nuovamente sottoposto al vaglio della Cassazione che, con sentenza 1752 del 24 gennaio 2017, ne ha pronunciato definitivamente la validità.

Ritiene infatti la Corte che il lavoratore, inviando le proprie giustificazioni a soggetti estranei all’amministrazione datrice di lavoro, abbia posto in essere «un atto esorbitante dalle finalità del procedimento disciplinare», adombrando anche «presunti illeciti dell’amministrazione idonei a screditarla e della cui veridicità, anche solo putativa, non vi era prova».

Tale condotta, prosegue la Cassazione, costituisce un comportamento idoneo a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario con il datore di lavoro, in quanto «non giustificato» e «posto in essere senza alcuna necessità, se non la volontà di proseguire l’opera di discredito del datore di lavoro, iniziata con la denuncia di asserite violazioni edilizie».

L’entità della diffusione, unita alla «lesività insita nella circostanza che i fatti descritti erano risultati del tutto infondati» non ha consentito, infine, di ritenere operante il principio sancito dall’articolo 54-bis del Dlgs 165/2001, secondo cui «il pubblico dipendente che denunci «condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria». Per espressa previsione di legge, infatti, tale tutela opera solamente «fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile».

La sentenza 1752/17 della Corte di cassazione

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