Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Tempo-tuta e orario di lavoro
Sulla tempestività della contestazione disciplinare

Licenziamento intimato in costanza di malattia
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Sul procedimento disciplinare

Tempo-tuta e orario di lavoro

Cass. Sez. Lav. 2 dicembre 2016, n. 24684

Pres. Di Cerbo; Rel. Lorito; P.M. Celeste; Ric. D.M. e S.S.; Controric. S.I. S.p.A.

Tempo tuta - Operazioni di vestizione e dismissione indumenti di lavoro - Qualificazione - Orario di lavoro - Condizioni - Eterodirezione - Necessità - Diritto alla retribuzione - Sussistenza

Al fine di valutare se il tempo occorrente per indossare e dismettere gli indumenti di lavoro e, più in generale, la divisa aziendale debba essere retribuito o meno, occorre far riferimento alla disciplina contrattuale specifica. In particolare, ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa o gli indumenti, la relativa operazione fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell'attività lavorativa, e come tale il tempo necessario per il suo compimento non deve essere retribuito. Se, invece, le modalità esecutive di detta operazione sono imposte dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, l'operazione stessa rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito.

Nota

La fattispecie al vaglio della Suprema Corte attiene al giudizio promosso da due lavoratori, impiegati in un appalto avente ad oggetto il servizio mensa, per il riconoscimento del diritto al compenso per lavoro straordinario con riferimento al tempo impiegato per la vestizione/dismissione della divisa (cd. "tempo tuta"). In riforma della sentenza di primo grado, la Corte d'Appello rigettava la domanda, affermando che il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale rientra nell'orario di lavoro solo se è assoggettato al potere di eterodirezione del datore di lavoro, ossia quando l'obbligo deve essere adempiuto nel rispetto di precise disposizioni imposte dal datore di lavoro sui tempi e luoghi dell'adempimento.

Tali presupposti - osservava la Corte territoriale - erano risultati del tutto carenti nel caso in esame, non avendo i ricorrenti allegato l'esistenza di obblighi aggiuntivi rispetto a quelli che discendono dalla legge (art. 42 d.p.r. 327/80), né di ulteriori elementi da cui possa desumersi l'eterodirezione dell'attività di vestizione/svestizione, ciò in quanto: a) tale operazione si svolgeva presso gli spogliatoi della sede della società committente, al di fuori di un diretto controllo da parte datoriale (società appaltatrice); b)non vi era alcuna prescrizione, da parte del datore di lavoro, circa l'impegno temporale da dedicare all'attività preparatoria, né risultavano predisposte modalità di controllo del tempo medesimo.

Avverso la predetta sentenza, i lavoratori proponevano ricorso per cassazione.

La Corte di legittimità confermava la sentenza gravata, ritenendola corretta e conforme alla giurisprudenza, sia nazionale (cfr. ex plurimis Cass. 28/01/2016, n. 1352; Cass. 13/04/2015, n. 7397; Cass. 16/05/2013, n. 11828; Cass. 07/06/2012, n. 9215) sia comunitaria (cfr. ex plurimis Corte di Giustizia UE del 10 settembre 2015 in C-266/14), che è ormai concorde nel riconoscere l'eterodirezione come presupposto necessario per la qualificazione del "tempo-tuta" come tempo di lavoro retribuibile (e ciò coerentemente sia alla nozione di "lavoro effettivo" ex art. 3, R.D.L. 05/03/1923, n. 692, sia alla rinnovata nozione di "orario di lavoro" ex art. 1, D.Lgs. 08/04/2003, n. 66). Presupposto, ritenuto dalla Corte di merito, assolutamente carente nel caso in esame, considerato che il datore non aveva determinato i tempi entro i quali l'attività di vestizione/svestizione doveva esplicarsi, né aveva predisposto modalità di controllo del tempo stesso.


Sulla tempestività della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 3 gennaio 2017, n. 50

Pres. Nobile; Rel. Manna; Ric. M.I.; Controric. T. S.p.A.

Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento individuale - Licenziamento disciplinare - Principi della immediatezza della contestazione - Rilevanza dell'effettiva conoscenza dei fatti addebitati da parte del datore di lavoro - Accertamento di merito - Insindacabilità in cassazione - Limiti

La tempestività della contestazione deve essere valutata muovendo non dall'epoca dell'astratta conoscibilità dell'infrazione, bensì dal momento in cui il datore di lavoro ne abbia acquisito in concreto piena conoscenza, a tal fine non bastando meri sospetti.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte fornisce ulteriori chiarimenti sul requisito della tempestività della contestazione disciplinare.

Nel caso di specie, un lavoratore - all'esito di un'articolata indagine interna, che aveva richiesto ben due commissioni d'inchiesta - veniva licenziato per giusta causa per essersi "illegittimamente servito di 238 biglietti già utilizzati per rivenderli o per illecite operazioni di rimborso, incamerando gli importi relativi".

Il dipendente impugnava giudizialmente il recesso, censurando, in particolare, la carenza di tempestività della contestazione, allegando che che tra la condotta addebitata e la formale contestazione disciplinare della stessa sarebbero trascorsi oltre undici mesi. Sia il Tribunale che la Corte d'Appello respingevano l'impugnativa del lavoratore.

Il dipendente proponeva, quindi, ricorso per cassazione, lamentando, in particolare, la violazione del principio di necessaria tempestività della contestazione disciplinare. Segnatamente, affermava che la contestazione sarebbe stata elevata oltre sessanta giorni - a fronte di una disposizione contrattuale che prevedeva, di norma, un termine, di trenta giorni - dopo che la prima commissione di inchiesta, incaricata dalla società datrice di fare luce su irregolari duplicazioni di biglietti ferroviari e su illegittimi rimborsi, aveva terminato i propri lavori, nonché asserendo che, a quella data, i dati raccolti sarebbero stati già sufficienti a dare luogo alla contestazione.

La Suprema Corte respinge il ricorso, ricordando, anzitutto, che la tempestività della contestazione deve essere valutata muovendo non dall'epoca dell'astratta conoscibilità dell'infrazione, bensì dal momento in cui il datore di lavoro ne abbia acquisito in concreto piena conoscenza, a tal fine non bastando meri sospetti.

A siffatto principio - ritiene la Cassazione - si sono correttamente conformati i Giudici del merito, i quali hanno riconosciuto che, da un lato, i quasi dodici mesi trascorsi dalle condotte addebitate alla reazione disciplinare del datore di lavoro erano stati impiegati in accertamenti complessi, anche considerato il numero elevato di biglietti illecitamente rimborsati o rivenduti, che avevano richiesto ben due commissioni d'indagine, e, dall'altro, che la contestazione era stata mossa al ricorrente venti giorni dopo la pronuncia della seconda commissione, ossia in un termine congruo e rispettoso anche del contratto collettivo nazionale invocato dal lavoratore. Infine, soggiungono i Giudici di legittimità, quello dei tempi realmente necessari alle verifiche aziendali costituisce un apprezzamento in punto di fatto, in quanto tale riservato al giudice del merito e non sindacabile in Cassazione.


Licenziamento intimato in costanza di malattia

Cass. Sez. Lav. 4 gennaio 2017, n. 64

Pres. Mammone; Rel. Berrino; P.M. Matera; Ric. D.A.M.G. altri; Contr. B.N.L. s.p.a.

Licenziamento individuale - Intimazione durante la malattia del lavoratore - Giustificato motivo oggettivo - Inefficacia - Giusta Causa - Legittimità

Lo stato di malattia del lavoratore preclude al datore di lavoro l'esercizio del potere di recesso solo quando si tratta di licenziamento per giustificato motivo; esso non impedisce, invece, l'intimazione del licenziamento per giusta causa, non avendo ragion d'essere la conservazione del posto di lavoro in periodo di malattia di fronte alla riscontrata esistenza di una causa che non consente la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto.

Malattia - Ripetute assenze del lavoratore alla visita domiciliare - Licenziamento per giusta causa - Legittimità

La permanenza presso il proprio domicilio durante le fasce orarie previste per le visite mediche domiciliari di controllo costituisce non già un onere bensì un obbligo per il lavoratore ammalato, in quanto l'assenza, rendendo di fatto impossibile il controllo in ordine alla sussistenza della malattia, integra un inadempimento, sia nei confronti dell'istituto previdenziale, sia nei confronti del datore di lavoro, che ha interesse a ricevere regolarmente la prestazione lavorativa e, perciò, a controllare l'effettiva sussistenza della causa che impedisce tale prestazione.

Nota

Nel caso sottoposto all'esame della Suprema Corte, una dirigente proponeva due diverse cause nei confronti del proprio datore di lavoro. Con il primo giudizio chiedeva, tra l'altro, la declaratoria di nullità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo perché intimatole in costanza di malattia; con il successivo giudizio chiedeva che venisse dichiarata l'illegittimità del secondo licenziamento irrogato per giusta causa, consistita nell'essere risultata assente a più visite di controllo.

Il Tribunale di Roma dichiarava inammissibile l'impugnazione del primo licenziamento e rigettava le altre domande. La Corte di appello confermava la sentenza di primo grado, rilevando che, il primo licenziamento, doveva ritenersi sospeso fino al termine della malattia e, quindi, chiaramente il Tribunale aveva omesso di pronunciarsi, mentre per il secondo recesso, era risultato dimostrato che la dirigente fosse rimasta assente, ingiustificata, dal suo domicilio, durante le visite di controllo, per tre volte nell'arco di due mesi.

Avverso tale sentenza, la dirigente propone ricorso per cassazione. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 2110 e 2118 c.c., nella parte in cui la sentenza di merito ha valutato separatamente i due recessi intimati. A parere della lavoratrice, invece, le due vicende avrebbero dovuto essere valutate unitariamente, in tal modo i giudici di appello avrebbero potuto cogliere la reale strategia del datore di lavoro tesa ad allontanarla dal posto di lavoro.

La Cassazione respinge il motivo, evidenziando che correttamente il giudice di appello aveva ritenuto sospesi gli effetti del primo recesso, perché intimato in costanza di malattia e, dunque, si era limitato a valutare solo l'efficacia del secondo. A tal fine la Suprema Corte ribadisce il suo consolidato orientamento secondo il quale lo stato di malattia del lavoratore preclude al datore di lavoro l'esercizio del potere di recesso solo quando si tratta di licenziamento per giustificato motivo; esso non impedisce, invece, l'intimazione del licenziamento per giusta causa, non avendo ragion d'essere la conservazione del posto di lavoro in periodo di malattia di fronte alla riscontrata esistenza di una causa che non consente la prosecuzione, neppure temporanea, del rapporto (cfr. Cass. 1.06.2005, n. 11674).

Con il secondo motivo la ricorrente si duole della decisione di appello nella parte in cui ha ritenuto che le sue tre assenze dal domicilio fossero idonee a concretizzare una giusta causa di licenziamento, atteso che il giorno successivo la dirigente si era sempre sottoposta alle viste di controllo che avevano confermato la sussistenza della malattia.

La Cassazione respinge anche tale motivo rilevando che, con motivazione adeguata esente da rilievi di ordine logico e giuridico, il giudice di merito aveva considerato, che la permanenza presso il proprio domicilio durante le fasce orarie previste per le visite mediche domiciliari di controllo costituisce non già un onere bensì un obbligo per il lavoratore ammalato, in quanto l'assenza, rendendo di fatto impossibile il controllo in ordine alla sussistenza della malattia, integra un inadempimento, sia nei confronti dell'istituto previdenziale, sia nei confronti del datore di lavoro, che ha interesse a ricevere regolarmente la prestazione lavorativa e, perciò, a controllare l'effettiva sussistenza della causa che impedisce tale prestazione.

A tal fine, la Corte territoriale aveva attentamente esaminato le risultanze documentali dalle quali era emerso che l'allontanamento della lavoratrice dal domicilio in occasione delle visite fiscali non era risultato assistito da valide giustificazioni. Così come doveva ritenersi irrilevante che, successivamente alla visita non eseguita, la malattia della ricorrente fosse stata confermata dal medico dell'INPS, atteso che tale circostanza non incideva sull'inadempimento dell'obbligo di comunicazione preventiva dell'assenza dal domicilio. Infine, i giudici di appello avevano valutato anche che l'incarico dirigenziale, ricoperto dalla ricorrente, comportava una valutazione maggiormente rigorosa del comportamento negligente della lavoratrice, ripetuto per ben tre volte nell'arco di due mesi a riprova del disinteresse dimostrato per le esigenze datoriali.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 7 dicembre 2016, n. 25192

Pres. Napoletano; Rel. Blasutto; Ric. M.G.; Controric. S.M.E. B.V.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Criteri per l'individuazione del lavoratore da licenziare in presenza di mansioni fungibili - Necessità di utilizzare i criteri di scelta di cui alla L. 223/1991 - Esclusione - Razionalità e graduabilità dei criteri utilizzati - Necessità

Quando il giustificato motivo oggettivo si identifica nella soppressione di un posto di lavoro in presenza di più posizioni fungibili, in quanto occupate da lavoratori con professionalità sostanzialmente omogenee, non essendo utilizzabile il criterio della impossibilità di repêchage, il datore di lavoro deve improntare l'individuazione del soggetto da licenziare ai principi di correttezza e buona fede, ai sensi dell'art. 1175 cod. civ. In tale contesto, l'art. 5 L. n. 223/91 offre uno standard idoneo ad assicurare che la scelta sia conforme a tale canone; tuttavia, non può escludersi l'utilizzabilità di altri criteri, purché non arbitrari, ma improntati a razionalità e graduazione delle posizioni dei lavoratori interessati.

Nota

La decisione in esame riguarda il caso di un lavoratore che era stato licenziato per giustificato motivo oggettivo a seguito di una riorganizzazione interna alla società datrice di lavoro che rendeva necessaria la soppressione di un posto di lavoro in presenza di più posizioni fungibili tra loro (nel caso di specie vi erano tre lavoratori -incluso il ricorrente - addetti all'attività di raccolta bookings e data entry, con una posizione in esubero). Il giudice di prime cure dichiarava il licenziamento illegittimo per non avere la società datrice di lavoro, a suo giudizio, correttamente adempiuto l'onere a suo carico di provare il rispetto, nell'individuazione del lavoratore da licenziare, dei principi di buona fede e correttezza. Su impugnazione della società, la Corte d'Appello riformava la decisione del Tribunale sostenendo che nel corso del giudizio era stato correttamente allegato e provato che il lavoratore licenziato fosse stato individuato sulla base di criteri conformi a buona fede: il lavoratore aveva un costo maggiore rispetto ai dipendenti paragonabili, era il meno performante e disponeva di redditi ulteriori rispetto a quello da lavoro dipendente.

Contro tale decisione ricorreva in Cassazione il lavoratore lamentando, per quanto qui interessa, violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c.

In particolare il lavoratore sosteneva che nessuna delle ragioni addotte dalla società per la sua individuazione poteva considerarsi oggettiva e che, anche ove non fossero stati applicabili alla fattispecie i criteri di scelta di cui alla legge 223/1991, la scelta del lavoratore da licenziare tra quelli aventi mansioni fungibili non poteva comunque essere rimessa alla discrezionalità del datore.

La Corte di Cassazione ha dichiarato tale doglianza infondata e respinto l'intero ricorso. In particolare, ha affermato la Suprema Corte, l'oggetto della controversia riguardava lo stabilire se nel caso di soppressione del posto di lavoro in presenza di più posizioni fungibili e ai fini del rispetto dei principi di correttezza e buona fede, i criteri di selezione del lavoratore da licenziare possano esser individuati dal datore oppure debbano essere necessariamente quelli individuati dall'art. 5 della L. 223/1991 per i licenziamenti collettivi. A tal proposito la Cassazione ha affermato che, pur potendosi fare riferimento ai criteri di cui alla L. 223/1991 è sufficiente, affinché il licenziamento sia legittimo, che gli eventuali criteri diversi adottati siano razionali e non arbitrari. Nello specifico, la Suprema Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: " Quando il giustificato motivo oggettivo si identifica nella soppressione di un posto di lavoro in presenza di più posizioni fungibili, in quanto occupate da lavoratori con professionalità sostanzialmente omogenee, non essendo utilizzabile il criterio della impossibilità di repêchage, il datore di lavoro deve improntare l'individuazione del soggetto da licenziare ai principi di correttezza e buona fede, ai sensi dell'art. 1175 cod. civ. In tale contesto, l'art. 5 L. n. 223/91 offre uno standard idoneo ad assicurare che la scelta sia conforme a tale canone; tuttavia, non può escludersi l'utilizzabilità di altri criteri, purché non arbitrari, ma improntati a razionalità e graduazione delle posizioni dei lavoratori interessati.".

Nel caso in esame, sulla base del principio di cui sopra, i criteri utilizzati dal datore (costo della retribuzione, rendimento lavorativo e condizioni economiche complessive) sono stati ritenuti legittimi in quanto enucleabili da fatti riferibili alla comune esperienza e poiché si prestano alla elaborazione di una graduatoria tra i lavoratori.

Sul procedimento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 9 gennaio 2017, n. 204

Pres. Napoletano; Rel. Esposito; P.M. Servello; Ric. A.C. s.p.a.; Contr. T.A.

Procedimento disciplinare - Giustificazioni scritte del dipendente - Richiesta di audizione orale con assistenza sindacale - Obbligo di audizione - Presupposto procedurale indefettibile ai fini dell'adozione della sanzione

II datore di lavoro che intenda adottare una sanzione disciplinare nei confronti del dipendente non può omettere l'audizione del lavoratore incolpato che ne abbia fatto espressa ed inequivocabile richiesta contestualmente alla comunicazione - nel termine di cui all'art. 7, quinto comma, della legge 20 maggio 1970 n. 300 - di giustificazioni scritte, anche se queste appaiano già di per sé ampie ed esaustive".

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione torna sul delicato tema del procedimento disciplinare, occupandosi del problema della esaustività o meno delle giustificazioni scritte fornite dal dipendente, quando costui, in tale sede, faccia altresì richiesta di audizione personale.

Richiamandosi ad un orientamento già noto, i giudici ribadiscono l'essenzialità dell'audizione personale richiesta dal dipendente, anche nel caso in cui questi abbia presentato ampie ed esaustive giustificazioni scritte, giacchè queste ultime "per il solo fatto che si accompagnino alla richiesta di audizione, sono ritenute dal lavoratore stesso non esaustive e destinate ad integrarsi con le giustificazioni ulteriori che lo stesso fornisca in sede di audizione".

Di talchè, l'audizione personale del lavoratore, quando richiesta, costituisce, già di per sé, un presupposto procedurale indefettibile della successiva sanzione, non disponendo il datore di lavoro di alcun potere preventivo di valutazione in ordine alla sua "superfluità".

Con questa motivazione, la Corte rigetta il ricorso di una Società, che, per non aver concesso al dipendente - successivamente licenziato per motivi disciplinari - la richiesta audizione, era rimasta soccombente in appello, con applicazione della reintegrazione, in base alla vecchia formulazione dell'art. 18 l. 300/1970, ratione temporis applicabile (licenziamento risalente al 2006).

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