Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento di lavoratore demansionato
Licenziamento per superamento del periodo di comporto
Licenziamento di lavoratrice madre
Ancora sull'unico centro di imputazione del rapporto di lavoro
Ferie e periodo di preavviso

Licenziamento di lavoratore demansionato

Cass. Sez. Lav. 25 gennaio 2017, n. 1912

Pres. Nobile; Rel. Lorito; P.M. Ceroni; Ric. G.N.; Controric. E.L. s.p.a.

Demansionamento - Autotutela - Eccezione di inadempimento - Limiti - Rifiuto di eseguire la prestazione lavorativa - Legittimità - Compimento di atti contrari a buona fede e correttezza - Legittimità del conseguente recesso

L'illegittimo comportamento del datore di lavoro consistente nell'assegnare il dipendente a mansioni inferiori a quelle corrispondenti alla sua qualifica può giustificare il rifiuto della prestazione lavorativa, purché tale reazione sia connotata da caratteri di positività, risultando proporzionata e conforme a buona fede, dovendo in tal caso il giudice adito procedere ad una valutazione complessiva dei comportamenti di entrambe le parti. Tuttavia tale valutazione risulta superflua, qualora il lavoratore non si sia limitato al rifiuto della prestazione, ma abbia tenuto comportamenti autonomamente illegittimi, quali l'occupazione di spazi aziendali o l'uso di espressioni ingiuriose e sprezzanti nei confronti del datore o del superiore gerarchico.

Nota

Il Tribunale di Roma ha respinto l'impugnativa del licenziamento per giusta causa, intimato ad un dipendente che, asserendo di essere stato demansionato, si era reiteratamente rifiutato di svolgere la prestazione ponendo in essere, al contempo, comportamenti sprezzanti e minacciosi all'interno della sede aziendale. Tale decisione stata confermata dalla Corte d'Appello che ha ritenuto l'atto esente da vizi formali, dal lamentato intento discriminatorio e del tutto proporzionato alle condotte accertate.

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione affidato a tre motivi.

A parte una serie di questioni processuali, che si tralascia in questa sede di esaminare, in sostanza il provvedimento viene censurato per non avere la Corte territoriale, nel valutare il recesso, assegnato il dovuto peso all'intercorso ed accertato demansionamento.

La Suprema Corte respinge la doglianza, affermando il principio di cui alla massima già ribadito in altri precedenti (Cass. 8 marzo 2003, n. 12001) aderendo così a quell'indirizzo giurisprudenziale secondo cui è legittimo il comportamento del lavoratore demansionato che rifiuti di adempiere alla propria prestazione eccependo l'inadempimento datoriale. Precisa la Corte, tuttavia, che tale autotutela incontra il limite del rispetto dei principi di correttezza e buona fede, pertanto, quando - come nel caso in esame - al rifiuto della prestazione si accompagni la formulazione all'interno della sede aziendale di frasi sprezzanti e minacciose nei confronti dei superiori gerarchici, è legittima la conseguente sanzione espulsiva irrogata dal datore di lavoro. Inoltre, secondo la Cassazione se il lavoratore si presenta in azienda, di fatto, rinuncia all'eccezione di inadempimento e perde, quindi, il diritto di autotutelarsi, rimanendo tenuto ad eseguire la prestazione lavorativa, seppur demansionante.

A parere della Suprema Corte i giudici del merito si sono conformati a tali principi, avendo accertato che il ricorrente, lungi dal limitare ad astenersi dalla prestazione, aveva più volte pronunciato frasi sprezzanti e minacciose nei confronti del datore di lavoro all'interno del contesto aziendale, pertanto il ricorso viene rigettato.

 

Licenziamento per superamento del periodo di comporto

Cass. Sez. Lav. 18 gennaio 2017, n. 1179

Pres. Nobile; Rel. Venuti; P.M. Ceroni; Ric. B.M.; Controric. G.I. S.p.A.

Licenziamento - Superamento del periodo di comporto - Responsabilità ex art. 2087 c.c. - Omessa denuncia delle condizioni di salute del lavoratore - Insussistenza

Il riconoscimento della responsabilità datoriale per violazione dell'art. 2087 c.c. presuppone la denuncia al datore di lavoro, da parte del lavoratore, di una patologia da porre in connessione con l'attività lavorativa.

Nota

La Corte di Appello di Roma confermava la pronuncia di primo grado che aveva respinto il ricorso presentato dal lavoratore, tramite il quale lo stesso aveva impugnato il licenziamento intimatogli dalla società datrice per superamento del periodo di comporto, chiedendo che fosse riconosciuta la responsabilità della società per inadempimento dell'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 c.c., con conseguente esclusione, dal computo del periodo di comporto, delle assenze dovute alla patologia alla schiena asseritamente derivante dallo svolgimento dell'attività lavorativa.

Più nello specifico, il lavoratore sosteneva che, a causa dello svolgimento delle mansioni di recupero crediti, cui era addetto, aveva effettuato lunghi tragitti alla guida di una autovettura, riportando una patologia alla schiena che lo aveva costretto ad assentarsi per lunghi periodi, fino a superare il periodo di comporto, ciò che aveva determinato il suo licenziamento.

Avverso la pronuncia resa dalla Corte di Appello proponeva ricorso il lavoratore fondato su cinque motivi.

In primo luogo, il ricorrente sosteneva che erroneamente la Corte territoriale, dopo aver affermato il principio in forza del quale l'uso di un'autovettura non costituisce di per sé un fattore morbigeno ma, tuttavia, lo può diventare al cospetto di particolari condizioni o predisposizioni fisiche, aveva ritenuto che, nella specie, il lavoratore avesse omesso di rendere note al datore di lavoro tali peculiari condizioni. Il ricorrente impugnava, altresì, la sentenza di appello nella parte in cui la Corte territoriale non aveva ammesso i capitoli di prova articolati, volti a dimostrare l'effettiva conoscenza, da parte dei responsabili dell'azienda, dell'aggravarsi delle proprie condizioni di salute causate dall'utilizzo dell'autovettura.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

In particolare, la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte territoriale avesse correttamente escluso l'imputabilità in capo alla società resistente della responsabilità datoriale per violazione dell'art. 2087 c.c., tenuto conto che non vi era stata alcuna denuncia al datore di lavoro, da parte del lavoratore, di una patologia da porre in connessione con l'attività lavorativa, in quanto il lavoratore non aveva mai segnalato alla società datrice la incompatibilità della conduzione del mezzo con la patologia alla schiena da cui lo stesso era affetto.

La Suprema Corte ha, inoltre, precisato che la responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell'obbligo di prevenzione, di cui all'art. 2087 c.c., non è una responsabilità oggettiva, essendone elemento costitutivo la colpa, quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore. Sulla base di tali premesse, la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte territoriale avesse correttamente escluso la sussistenza, nella specie, della responsabilità del datore di lavoro per mancata osservanza delle norme di sicurezza in tema di tutela delle condizioni di lavoro, ex art. 2087 c.c., non essendo state violate da parte del datore di lavoro le disposizioni in materia di sicurezza del lavoro - risultando, peraltro, inapplicabili, nella specie, quelle in materia di postura obbligata, specificamente rivolte ai videoterminalisti -, e non sussistendo alcuna prova del nesso causale tra la dedotta patologia e l'attività lavorativa svolta.

Secondo quanto sostenuto dalla Suprema Corte, inoltre, considerato che l'uso di un'autovettura regolarmente posta sul mercato non costituisce di per sé un fattore morbigeno, ma può diventarlo soltanto al cospetto di peculiari condizioni o predisposizioni fisiche che rendano l'uso stesso nocivo, la sentenza impugnata doveva ritenersi incensurabile nella parte in cui aveva escluso la configurabilità di qualsivoglia responsabilità in capo all'azienda, non essendo state segnalate agli organi aziendali competenti della società peculiari condizioni o predisposizioni fisiche del lavoratore che fossero incompatibili con l'uso dell'autovettura.

 

Licenziamento di lavoratrice madre

Cass. Sez. Lav. 26 gennaio 2017, n. 2004

Pres. Nobile; Rel. Negri della Torre; P.M. Ceroni; Ric.V.S.; Controric. P. S.p.A.

Lavoro subordinato - Diritto alla conservazione del posto - Divieto di licenziamento della lavoratrice madre - Limiti - Colpa grave della lavoratrice costituente giusta causa di licenziamento - Necessità

Il divieto di licenziamento della lavoratrice madre è reso inoperante, ai sensi dell'art. 54, comma 3 lett. a) del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, quando ricorra la colpa grave della lavoratrice, che non può ritenersi integrata dalla sussistenza di un giustificato motivo soggettivo, ovvero da una situazione prevista dalla contrattazione collettiva quale giusta causa idonea a legittimare la sanzione espulsiva, essendo invece necessario verificare se sussista quella colpa specificamente prevista dalla suddetta norma e diversa, per l'indicato connotato di gravità, da quella prevista dalla disciplina pattizia per i generici casi di inadempimento del lavoratore sanzionati con la risoluzione del rapporto.

Nota

Il Tribunale di Cassino rigettava l'opposizione proposta dalla lavoratrice e confermava l'ordinanza che aveva rigettato il ricorso proposto a seguito del licenziamento per giusta causa per assenza ingiustificata, non avendo la lavoratrice, ripreso servizio presso l'ufficio in cui era stata trasferita.

Il reclamo della lavoratrice avverso la sentenza del Tribunale veniva respinto anche dalla Corte di appello di Roma.

Avverso la sentenza della Corte territoriale, proponeva ricorso in Cassazione la lavoratrice.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso.

Secondo la Cassazione, il licenziamento della lavoratrice madre è legittimo solo quando ricorre la colpa grave della lavoratrice, che non può ritenersi integrata nella giusta causa, essendo necessario verificare se sussista quella "colpa grave" specificamente prevista dalla norma (art. 54, comma 3 lett. a) del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151).

La Suprema Corte ha altresì precisato che l'ambito di indagine rimesso al giudice di merito per stabilire la sussistenza di una colpa grave, deve estendersi ad un'ampia ricostruzione del caso concreto e valutazione degli eventi che hanno condotto al provvedimento espulsivo.

Con particolare riferimento al caso di specie, secondo la Cassazione, la Corte territoriale aveva errato nel ritenere la sussistenza della colpa grave della lavoratrice madre a fronte di un licenziamento irrogato per una delle ipotesi previste dal contratto collettivo applicato senza procedere alla verifica della sussistenza di un quid pluris che deve connotare l'inadempimento del lavoratore per dare luogo alla risoluzione del rapporto in considerazione dell'applicazione del suddetto articolo 54 integrante la "colpa grave".

 

Ancora sull'unico centro di imputazione del rapporto di lavoro

Cass. Sez. Lav. 12 gennaio 2017, n. 622

Pres. Venuti; Rel. Boghetic; P.M. Matera; Ric. A.I S.r.l. e A. AG; Controric. A.M.

Gruppo di imprese - Requisiti - Unicità della struttura organizzativa e produttiva - Integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese - Coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario - Utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società del gruppo - Accertamento in concreto - Necessità

Il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è di per sé solo sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere anche all'altra, a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisare - anche all'eventuale fine della valutazione di sussistenza del requisito numerico per l'applicabilità della cosiddetta tutela reale del lavoratore licenziato - un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Tale situazione ricorre ogni volta che vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un'unica attività fra i vari soggetti del collegamento economico - funzionale e ciò venga accertato in modo adeguato, attraverso l'esame delle attività di ciascuna delle imprese gestite formalmente da quei soggetti, che deve rivelare l'esistenza dei seguenti requisiti: a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; c) coordinamento tecnico e amministrativo - finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori.

Nota

La Corte d'Appello di Milano, confermando la decisione di primo grado, aveva ritenuto illegittimo il licenziamento di un dipendente e, ai fini dell'individuazione del regime di tutela applicabile, aveva accertato la sussistenza di un unico centro di imputazione di interessi tra la società italiana (datore di lavoro del ricorrente) e la società controllante di diritto austriaco. Confermando quindi che, ai fini dell'applicazione dell'art. 18 Statuto dei Lavoratori, andavano conteggiati tutti i dipendenti occupati dalle società nel loro complesso, ivi inclusi i lavoratori della capogruppo operanti all'estero.

La Corte territoriale accertava infatti che la capogruppo non si era limitata ad una fisiologica attività di direzione e coordinamento nei confronti della società italiana, ma aveva cogestito il rapporto di lavoro del ricorrente, utilizzandone direttamente la prestazione mediante specifiche direttive, nonché decidendo il licenziamento dello stesso.

Quanto alla declaratoria d'illegittimità del recesso datoriale, non risultava dimostrata la coerenza fra la scelta organizzativa dedotta dall'azienda (calo di fatturato con conseguente eliminazione dei progetti aziendali che presentavano, a livello mondiale, le più basse possibilità di successo commerciale) e la soppressione della mansione del ricorrente.

Avverso tale sentenza entrambe le società ricorrevano in Cassazione; il dipendente resisteva con controricorso.

Le società lamentavano violazione e falsa applicazione dell'art. 18 legge 300/1970, da un lato, per inosservanza del principio di territorialità della legge, laddove la Corte territoriale, ai fini del computo del requisito occupazionale di applicazione della c.d. tutela reale, aveva preso in considerazione anche i dipendenti, impiegati all'estero, dalla capogruppo e, dall'altro, perché all'interno di un gruppo di imprese è fisiologico riscontrare un'integrazione delle attività esercitate, in ragione dell'interesse comune.

La Suprema Corte ha ritenuto inammissibile tale motivo di ricorso, per aver ricondotto sotto l'archetipo della violazione di legge censure che, in realtà, attengono alla tipologia del difetto di motivazione ovvero ad una diversa lettura delle risultanze istruttorie. Allo stesso modo, non era riscontrabile alcuna ipotesi di falsa applicazione della legge, in quanto le società non avevano lamentato un errore di sussunzione del caso concreto in una diversa fattispecie astratta.

Quanto al merito del riconoscimento di un centro unico di imputazione di interessi, la Corte di Cassazione si è limitata a richiamare la consolidata giurisprudenza (in particolare Cass. 13664/2015 e 3482/2013) secondo cui il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è di per sé solo sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere anche all'altra, a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisare - anche all'eventuale fine della valutazione di sussistenza del requisito numerico per l'applicabilità della cosiddetta tutela reale del lavoratore licenziato - un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Tale situazione ricorre ogni volta che vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un'unica attività fra i vari soggetti del collegamento economico - funzionale e ciò venga accertato in modo adeguato, attraverso l'esame delle attività di ciascuna delle imprese gestite formalmente da quei soggetti, che deve rivelare l'esistenza dei seguenti requisiti: a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; c) coordinamento tecnico e amministrativo - finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori. Va peraltro sottolineato che, nella recente sentenza n. 26346 del 20 dicembre 2016, la Suprema Corte, nel richiamare i medesimi criteri di individuazione - riportati alle lett. da a) a d) che precedono - della gestione unitaria del rapporto di lavoro da parte di più società del medesimo gruppo, aveva omesso il riferimento alle fattispecie della simulazione e della preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un'unica attività fra le varie società del gruppo.

Stante la pronuncia di inammissibilità, la Corte non ha in alcun modo affrontato la lamentata violazione del principio di territorialità della legge.

I Giudici di legittimità hanno considerato inammissibile anche il secondo motivo di ricorso attinente all'illegittimità del licenziamento, in quanto, mediante il lamentato vizio di motivazione, le società avevano in realtà criticato la valutazione delle risultanze istruttorie.

 

Ferie e periodo di preavviso

Cass. Sez. Lav. 17 gennaio 2017, n. 985

Pres.Napoletano; Rel. Patti; P.M. Fresa; Ric. G.A.; Controric. C.D.R.D.V. S.p.a.

Lavoro subordinato - Ferie - Art. 2109 c.c. - Divieto di sovrapposizione delle ferie al periodo di preavviso - Godimento delle ferie durante il periodo di preavviso lavorato - Condizioni - Prosecuzione del rapporto di lavoro per un periodo corrispondente ai giorni di ferie fruiti - Necessità - Fattispecie

Sussiste giusta causa di recesso nel caso del lavoratore, che, avendo scelto di prestare la propria attività durante il periodo di preavviso, sia posto dal datore di lavoro in ferie per il godimento dei giorni non ancora fruiti, con sovrapposizione delle ferie al periodo di preavviso, in violazione del disposto dell'art. 2109 c.c.

Nota

Il caso di specie riguarda le dimissioni per giusta causa rese da un lavoratore che, durante il periodo di preavviso lavorato, era stato coattivamente collocato in ferie dal datore di lavoro, senza che fosse prevista un'ulteriore protrazione del rapporto di lavoro per un periodo corrispondente a quello dei giorni di ferie fruiti.

La domanda del lavoratore di condanna del datore di lavoro al pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso veniva accolta in primo grado e successivamente rigettata dalla Corte d'Appello di Venezia.

In particolare, la Corte d'Appello osservava che tale circostanza non violava il disposto di cui all'art. 2109 c.c., ossia il divieto di computabilità nelle ferie del periodo di preavviso; nello specifico, l'unica conseguenza sarebbe stata l'ulteriore protrazione del rapporto di lavoro per un periodo aggiuntivo a quello di preavviso, in misura corrispondente ai giorni di ferie fruiti, senza che potesse configurarsi una giusta causa di dimissioni del lavoratore.

Ricorre per Cassazione il lavoratore con due motivi, deducendo la violazione e falsa applicazione dell'art. 2109 c.c., vista, nel caso di specie, la chiara volontà del datore di lavoro di sovrapporre il periodo di preavviso a quello di ferie.

Sul punto, la Corte di Cassazione ha innanzitutto ribadito che, secondo il più recente orientamento, al preavviso bisogna attribuire un'efficacia obbligatoria, con la conseguenza che, nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve altrettanto immediatamente (con l'unico obbligo della parte recedente di corrispondere l'indennità sostitutiva e senza che da tale momento possano avere influenza eventuali avvenimenti sopravvenuti), a meno che la parte recedente, nell'esercizio di un suo diritto potestativo, acconsenta, avendone interesse, alla continuazione del rapporto lavorativo, protraendone l'efficacia sino al termine del periodo di preavviso (Cass. n. 22443/2010); qualora quest'ultima opti per la continuazione del rapporto, durante il suo decorso proseguono gli effetti del contratto, per cui permane la facoltà del datore di lavoro, nell'ambito dei suoi poteri gestori e organizzativi del rapporto di lavoro in prosecuzione, di collocare in ferie il lavoratore che renda la prestazione durante il preavviso, con il limite di evitare la sovrapposizione dei due periodi, vietata dall'art. 2109, ultimo comma c.c.

Ebbene, nel caso di specie, la Corte territoriale ha escluso la ricorrenza della giusta causa di dimissioni del lavoratore sulla base del principio, indiscutibilmente corretto, del differimento del termine finale di preavviso in misura corrispondente ai giorni di ferie fruiti; ma la Corte territoriale ha errato per non aver preso in considerazione il fatto, inequivoco, della volontà del datore di lavoro di sovrapporre al periodo di preavviso quello di ferie, senza che fosse prevista alcuna protrazione del rapporto, in evidente violazione del divieto posto dall'art. 2109 c.c.

In accoglimento di tali motivi di ricorso, la sentenza impugnata è stata cassata e gli atti rimessi ad altro giudice di merito.

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