Contenzioso

Conciliazione annullabile se il dipendente è stato ingannato

di Serena Fantinelli e Uberto Percivalle

Annullabile per dolo la conciliazione in sede sindacale se il datore dichiara in esubero una posizione che poi affida a un neoassunto.

Con sentenza 8260/2017 la Cassazione ha accolto le censure di un lavoratore che, in una procedura di licenziamento collettivo, ha sottoscritto un verbale di conciliazione in sede sindacale e poi ne ha chiesto l’annullamento, sostenendo di essere stato dolosamente indotto a firmarlo sull’assunto, rivelatosi poi falso, che la sua posizione professionale rientrasse tra quelle eccedenti.

Il fatto

Una società farmaceutica ha avviato un licenziamento collettivo, inserendo anche la posizione del ricorrente fra quelle in esubero. L’accordo sindacale conclusivo della procedura ha individuato quale criterio di scelta dei dipendenti da licenziare la «non opposizione» al licenziamento. Il lavoratore ha accettato di sottoscrivere un verbale di conciliazione, con conseguente licenziamento. Sennonché, poco tempo dopo, la società ha assunto un altro lavoratore per la stessa posizione che era stata ricoperta dal ricorrente.

Il lavoratore ha impugnato la conciliazione e ne ha chiesto l’annullamento per vizio del consenso derivante da dolo.

Nessun raggiro

Sia il tribunale che la Corte di appello però, hanno rigettato il ricorso. La Corte di appello, in particolare, ha ritenuto che non fosse stata data prova idonea di alcun raggiro posto in essere dalla società, al fine di indurre il lavoratore alla firma dell’accordo, escludendo anche che il verbale fosse stato sottoscritto per «errore incolpevole», considerata la genericità del criterio di scelta («non opposizione») per la selezione dei dipendenti da licenziare.

Silenzio colpevole

La Cassazione ha ribaltato l’esito dei giudizi di merito. Secondo la Corte, poiché la società ha incluso la posizione del dipendente tra quelle in esubero e poco tempo dopo ha assunto un altro lavoratore per la medesima posizione, essa ha tratto in inganno il lavoratore. Secondo la Corte, anche una «condotta di silenzio malizioso» è idonea a integrare il raggiro.

Come un tale silenzio, serbato su circostanze rilevanti ai fini della valutazione delle reciproche prestazioni, costituisce per l’ordinamento penale un elemento del raggiro, così, nel contratto di lavoro, il silenzio di una delle parti in ordine a situazioni di interesse della controparte e la reticenza, «qualora l’inerzia della parte si inserisca in un complesso comportamento adeguatamente preordinato, con malizia o astuzia, a realizzare l’inganno…, integrano gli estremi del dolo omissivo rilevante ai sensi dell’articolo 1439 del codice civile».

Peraltro, continua la Corte, «nelle ipotesi di dolo tanto commissivo quanto omissivo, gli artifici o i raggiri, così come la reticenza o il silenzio, devono essere valutati in relazione alle particolari circostanze di fatto e alle qualità e condizioni soggettive dell’altra parte, onde stabilirne l’idoneità a sorprendere una persona di normale diligenza, non potendo l’affidamento ricevere tutela giuridica se fondato sulla negligenza».

Dolo per omissione

Il caso in esame non è finito: spetterà alla Corte di appello, in sede di rinvio, accertare se la condotta del datore è stata idonea a integrare un dolo omissivo.

Tuttavia è chiara la lezione che si trae con riferimento alle procedure di esubero collettivo: non bastano l’accordo sindacale e la successiva conciliazione individuale a prevenire indagini sulla congruenza tra la comunicazione di apertura e la realtà.

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