Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento disciplinare e sospensione cautelativa dal servizio
Licenziamento per giusta causa e giudizio di proporzionalità
Licenziamento disciplinare e giudizio penale
Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore
Nozione di lavoro subordinato

Licenziamento disciplinare e sospensione cautelativa dal servizio

Cass. Sez. Lav. 21 marzo 2017, n. 7178

Pres. Macioce; Rel. Boghetich; P.M. Sanlorenzo; Ric. D. C. A. Contr. M.B.A.C.;

Licenziamento disciplinare - Sospensione cautelativa dal servizio - Effetti retroattivi del licenziamento alla data della sospensione - Legittimità

Ove il procedimento disciplinare si concluda in senso sfavorevole al dipendente con l’adozione della sanzione del licenziamento, la precedente sospensione dal servizio - pur strutturalmente e funzionalmente autonoma rispetto al provvedimento risolutivo del rapporto, giacché adottata in via meramente cautelare in attesa del secondo - si salda con il licenziamento, tramutandosi in definitiva interruzione del rapporto legittimando il recesso del datore di lavoro retroattivamente, con perdita ex tunc del diritto alle retribuzioni a far data dal momento della sospensione medesima.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione si occupa degli effetti di una sospensione cautelativa del dipendente dal servizio sulla decorrenza di un licenziamento con preavviso irrogato successivamente.

Nel caso di specie, il dipendente (di una Pubblica Amministrazione) aveva patteggiato una pena in relazione a diversi episodi concussivi che gli erano stati contestati dalla Procura della Repubblica.

L’Amministrazione datrice di lavoro, vista anche la gravità degli addebiti, aveva provveduto, nelle more dell’espletamento del procedimento disciplinare, a sospendere cautelativamente il dipendente dal servizio. Una volta definito tale ultimo procedimento, aveva irrogato al lavoratore la sanzione del licenziamento con preavviso, facendo decorrere però l’efficacia di tale atto già dalla data della sospensione cautelativa - dunque, retroattivamente - e non da quella della ricezione della relativa lettera.

Il dipendente, già soccombente in appello, aveva proposto ricorso in Cassazione deducendo la violazione della disciplina di cui agli artt. 1334 e 1335 c.c., relativamente all’efficacia degli atti unilaterali recettizi.

La Cassazione, in relazione agli effetti di una sentenza di patteggiamento sul giudizio civile, ribadisce - seppure in via incidentale - il principio secondo cui "la sentenza di applicazione di pena patteggiata, pur non potendosi configurare come sentenza di condanna, presuppone pur sempre una ammissione di colpevolezza e costituisce un indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione" (ex plurimis, Cass. SS.UU. n. 21591/2013, Cass. nn. 3980/2016, 18324/2016 e 14949/2016).

Venendo, poi, alla questione della data di decorrenza degli effetti del licenziamento disciplinare (con preavviso) in presenza di sospensione cautelativa, i giudici di legittimità, richiamando un orientamento già espresso in passato (cfr. Cass. nn. 22863/2008, 15444/2014, 9618/2015 e 20685/2016), hanno affermato che "Ove il procedimento disciplinare si concluda in senso sfavorevole al dipendente con l’adozione della sanzione del licenziamento, la precedente sospensione dal servizio - pur strutturalmente e funzionalmente autonoma rispetto al provvedimento risolutivo del rapporto, giacché adottata in via meramente cautelare in attesa del secondo - si salda con il licenziamento, tramutandosi in definitiva interruzione del rapporto legittimando il recesso del datore di lavoro retroattivamente, con perdita ex tunc del diritto alle retribuzioni a far data dal momento della sospensione medesima".

Per tali ragioni, la Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando integralmente la sentenza di appello.

 

Licenziamento per giusta causa e giudizio di proporzionalità

Cass. Sez. Lav. 22 marzo 2017, n. 7346

Pres. Nobile; Rel. Esposito; P.M. Matera; Ric. T.I. S.p.A.; Contr. M.A.;

Licenziamento per giusta causa - Contestazione episodio isolato - Sproporzione tra fatto addebitato e recesso - Sussistenza

La giusta causa di licenziamento - per costante orientamento della Cassazione - deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità dell'elemento intenzionale; dall'altro, la proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, sia tale da giustificare la massima sanzione disciplinare e l'accertamento, in concreto, di tali elementi è un compito che spetta al giudice di merito.

Nota

La Corte di appello di Roma, in riforma della decisione di primo grado, aveva accolto la domanda avanzata da una lavoratrice, dipendente di un'azienda di telecomunicazioni, tesa a far dichiarare l'illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatole in data 17 aprile 2008, per aver usato espressioni irriguardose nei confronti di un cliente, dal quale era stata contattata per ricevere chiarimenti. A fondamento della decisione la Corte di appello aveva ritenuto che la condotta della lavoratrice, come emersa dall'istruttoria, non fosse stata tale da compromettere irrimediabilmente il vincolo fiduciario e, quindi, da legittimare il recesso.

Avverso tale sentenza la società propone ricorso per cassazione denunciando, innanzitutto, la violazione dell'art. 2702 c.c., in quanto, nel corso del giudizio, erano stati prodotti sia il fax che la email contenenti il reclamo proposto dal cliente e tale documentazione non era stata oggetto di contestazione da parte della lavoratrice. La Cassazione respinge la censura, rilevando che la Corte di merito aveva, correttamente, valutato tale documentazione alla stregua di una prova atipica, attribuendole scarsa efficacia probatoria, in mancanza di ulteriori riscontri processuali, quali l'escussione diretta in giudizio del cliente reclamante.

Con successivo motivo il datore di lavoro denuncia la falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 c.c. per avere la Corte di merito ritenuto che, nonostante le gravi condotte poste in essere dalla lavoratrice, le stesse non fossero tali da incidere irrimediabilmente sul vincolo fiduciario.

La Corte di Cassazione respinge anche tale motivo evidenziando che, secondo il consolidato orientamento della sezione, la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità dell'elemento intenzionale; dall'altro, la proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, sia tale da giustificare la massima sanzione disciplinare e l'accertamento, in concreto, di tali elementi è un compito che spetta al giudice di merito (cfr. Cass. 26 aprile 2012, n. 6498).

Ebbene, a parere della Suprema Corte la valutazione compiuta dalla Corte di appello doveva ritenersi corretta in quanto, nel giudizio di proporzionalità, aveva tenuto conto di circostanze ulteriori rispetto all'episodio contestato, quali la presenza in servizio della dipendente da oltre 13 anni "senza demerito".

Licenziamento disciplinare e giudizio penale

Cass. Sez. Lav. 20 marzo 2017, n. 7127

Pres. Nobile; Rel. Esposito; P.M. Matera; Ric. C.A.; Controric. F.G.A. S.p.A..

Giudizio civile e penale (rapporto) - Cosa giudicata penale - Autorità nel giudizio civile di impugnativa di licenziamento - Giudicato di assoluzione "perchè il fatto non costituisce reato" - Irrilevanza - Autonoma valutazione della rilevanza disciplinare del fatto da parte del giudice civile - Ammissibilità.

L'esito assolutorio della sentenza penale, intervenuta "perché il fatto non costituisce reato" (e, precisamente, per esclusione dell'elemento soggettivo), non è rilevante ai fini disciplinari, in relazione ai quali, al di là dell'apprezzamento della configurabilità della condotta come reato, rileva esclusivamente l'idoneità della stessa a scuotere la fiducia del datore di lavoro e la prognosi circa il pregiudizio per gli scopi aziendali che deriverebbe dalla continuazione del rapporto.

Licenziamento disciplinare - Obbligo del datore di lavoro di contestare l'addebito - Sussistenza - Provvedimento di irrogazione della sanzione - Necessità di una motivazione "penetrante" - Esclusione - Menzione delle giustificazioni del lavoratore e delle ragioni per cui le stesse sono state disattese - Necessità - Esclusione.

Nel procedimento disciplinare a carico del lavoratore l'essenziale elemento di garanzia in suo favore è dato dalla contestazione dell'addebito, mentre la successiva comunicazione del recesso ben può limitarsi a far riferimento sintetico a quanto già contestato, non essendo tenuto il datore di lavoro, neppure nel caso in cui il contratto collettivo preveda espressamente l'indicazione dei motivi, ad una motivazione "penetrante", analoga a quella dei provvedimenti giurisdizionali, nè in particolare è tenuto a menzionare nel provvedimento disciplinare le giustificazioni fornite dal lavoratore dopo la contestazione della mancanza, e le ragioni che lo hanno indotto a disattenderle.

Nota

La Suprema Corte, nella sentenza che qui si commenta, ha confermato la sentenza della Corte d'Appello di Napoli che, in riforma della sentenza del giudice di primo grado, ha accertato la legittimità del licenziamento irrogato per giusta causa ad un lavoratore (operante nel settore metalmeccanico) per aver sottratto un navigatore satellitare ed una torcia elettrica aziendale rinvenuti dai Carabinieri nel suo armadietto personale. Ciò nonostante fosse stato assolto - con la formula "perché il fatto non costituisce reato" - dal reato di "furto" contestatogli.

Proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore dolendosi che la Corte di merito avesse erroneamente omesso di valutare le risultanze del procedimento penale cui era stato sottoposto per i medesimi fatti posti a base del licenziamento.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso chiarendo - sulla scorta di altre precedenti pronunce (v. ex plurimis Cass. 11/03/2016 n. 4764) - che il giudicato penale di assoluzione ha effetto nel giudizio civile solo se si accerti in maniera specifica la "insussistenza di un fatto" o "l’assenza di responsabilità" dell’imputato; mentre nessun effetto preclusivo ha il giudicato penale sulla delibazione dei fatti in sede civile in caso di assoluzione per "insufficienti elementi di prova" o sulla riferibilità del fatto al soggetto, ovvero perché "il fatto non costituisce reato". In tali ultime ipotesi - ha precisato la Corte di legittimità - compete al giudice civile il potere di accertare autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti dedotti in giudizio e di pervenire a soluzioni e qualificazioni non vincolate dall’esito del processo penale.

Nella fattispecie la Corte di Cassazione ha rilevato come la Corte d’Appello si sia uniformata a tale principio (separazione tra giudizio civile e giudizio penale) allorquando ha: a) affermato che l’esito assolutorio della sentenza penale, per esclusione dell’elemento soggettivo (e, dunque, per insussistenza di un’ipotesi di reato), è irrilevante ai fini disciplinari, essendo essenziale, a tali fini, accertare esclusivamente l’idoneità della condotta a scuotere la fiducia del datore di lavoro e la prognosi circa il pregiudizio per gli scopi aziendali che deriverebbe dalla continuazione del rapporto; b) effettuato un’autonoma indagine sui fatti di causa, ravvisando la sussistenza di una giusta causa di licenziamento a prescindere dalla configurabilità o meno degli stessi come reato.

La Suprema Corte, infine, ha respinto anche l’altra doglianza fatta valere dal lavoratore circa la violazione dell’obbligo legale e di quello contrattuale incombenti sul datore di lavoro riguardo alla specificazione dei motivi del licenziamento disciplinare, per aver la Corte territoriale erroneamente equiparato all’assolvimento dell’obbligo di motivare il recesso la mera trascrizione della contestazione disciplinare, senza motivare perché le giustificazioni rassegnate dal dipendente non siano state ritenute meritevoli di accoglimento. A tal riguardo, la Corte di legittimità ha ribadito il principio, ormai consolidato (Cass. 07/03/2013 n. 5665, Cass. 09/02/2006 n. 2851, Cass. 07/08/2004 n. 15320) secondo cui la lettera di recesso ben può far riferimento sinteticamente a quanto ha già formato oggetto di contestazione, non essendo tenuto il datore di lavoro a fornire una motivazione "penetrante", né a dar conto delle ragioni che lo hanno indotto a disattendere le giustificazioni fornite dal lavoratore. 

 

Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore

Cass. Sez. Lav. 20 marzo 2017, n. 7125

Pres. Curcio; Rel. Manna; Ric. D.M.I. S.p.A.; Controric. M.E.;

Previdenza (assicurazioni sociali) - Assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali - Responsabilità del datore di lavoro e dei dipendenti del datore di lavoro - Limiti - Comportamento colposo del lavoratore - Esclusione della responsabilità del datore di lavoro - Condizioni - Abnormità e imprevedibilità della condotta del prestatore rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute - Necessità - Fattispecie.

Le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l'imprenditore, all'eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare l'esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell'evento, essendo necessaria, a tal fine, una rigorosa dimostrazione dell'indipendenza del comportamento del lavoratore dalla sfera di organizzazione e dalle finalità del lavoro, e, con essa, dell'estraneità del rischio affrontato a quello connesso alle modalità ed esigenze del lavoro da svolgere.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte chiarisce i presupposti di esclusione della responsabilità del datore di lavoro in caso di infortunio occorso ad un dipendente.

Nella fattispecie, un lavoratore, dopo aver subîto un infortunio, proponeva ricorso nei confronti del datore al fine di ottenere la condanna di quest'ultimo al risarcimento del danno per l'effetto patito.

Il Giudice di prime cure - dopo aver disposto l'interrogatorio formale del dipendente, dal quale il Tribunale riteneva di potersi desumere che il sinistro si fosse verificato a cagione di una manovra irregolare del prestatore - rigettava la domanda. Di contro, la Corte di merito l'accoglieva, confutando la tesi del datore secondo la quale nella specie era configurabile un'ipotesi di rischio elettivo e di conseguente esclusiva responsabilità del lavoratore.

La società proponeva ricorso per Cassazione, denunciando, tra il resto, violazione dell'art. 1227 c.c., per avere la sentenza impugnata ricostruito la dinamica e la conseguente responsabilità dell'infortunio senza tenere conto delle "ammissioni rese in sede di interrogatorio formale" dal lavoratore "dalle quali era dato desumere che il sinistro si era verificato a cagione d'una sua manovra su un macchinario, da ritenersi eccezionale, abnorme ed esorbitante rispetto al procedimento produttivo, oltre che in contrasto con le direttive aziendali ricevute".

La Suprema Corte respinge la censura, argomentando come segue.

Anzitutto - osserva la Cassazione - di c.d. "rischio elettivo" e di conseguente responsabilità del lavoratore può parlarsi soltanto ove questi abbia tenuto un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell'evento, creando egli stesso condizioni di rischio estraneo a quello connesso alle normali modalità del lavoro da svolgere. In altri termini - a parere del Supremo Collegio - la responsabilità dell'infortunato sorge esclusivamente in presenza di condotte del tutto anomale, inopinabili e imprevedibili, che esulano dai sistemi e dai procedimenti di lavoro e sono con essi incompatibili, oppure qualora vi sia stata una violazione, da parte del prestatore di lavoro, di precise disposizioni antinfortunistiche o di specifici ordini. Diversamente, la condotta del lavoratore è irrilevante sia sotto il profilo causale che sotto quello dell'entità del risarcimento, atteso che la ratio di ogni normativa antinfortunistica è proprio quella di prevenire le condizioni di rischio insite negli ambienti di lavoro e nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia degli stessi lavoratori, destinatari della tutela. In sintesi, non essendo né imprevedibili né anomale le eventuali imprudenze, negligenze o imperizie dei prestatori di lavoro nell'espletare le mansioni loro assegnate, esse non sono idonee ad escludere il nesso causale rispetto alla condotta colposa del datore di lavoro che non abbia provveduto ad adottare tutte le misure di prevenzione rese necessarie dalle concrete condizioni di svolgimento del lavoro. Ne consegue, a parere della Cassazione, l'esclusione nella specie - sulla base dell'accertamento in fatto effettuato dai Giudici del merito, dal quale era merso come la condotta del dipendente era consistita nell'"essersi attivato per far ripartire la macchina" - del c.d. "rischio elettivo", idoneo ad interrompere il nesso di causalità solo quando l'attività del lavoratore non sia in alcun rapporto con lo svolgimento del lavoro o sia esorbitante da esso. 

 

Nozione di lavoro subordinato

Cass. Sez. Lav. 28 marzo 2017, n. 7925

Pres. D’Antonio; Rel. Calafiore; Ric. D.M.B.E.; Controric. I.N.P.S.;

Lavoro subordinato - Onerosità del rapporto - Presunzione - Sussistenza - Natura gratuita della prestazione - Onere della prova in capo al datore di lavoro - Sussistenza

Nel caso in cui siano accertati l'esercizio professionale, cioè sistematico, di un'attività economica, di produzione o scambio di beni o servizi, mediante organizzazione di mezzi, al fine di conseguire uno scopo di lucro, e, al tempo stesso, l'effettuazione, nell'ambito di tale organizzazione imprenditoriale, di prestazioni oggettivamente configurabili come di lavoro subordinato, le medesime debbono presumersi effettuate a titolo oneroso, salva la prova - da fornirsi da colui che contesta l'onerosità - che le prestazioni stesse sono caratterizzate da gratuità. Una tale prova, peraltro, non può essere desunta soltanto dalle formali pattuizioni intercorse tra le parti, ma deve consistere nell'accertamento, specie attraverso le modalità di svolgimento del rapporto, di particolari circostanze oggettive o soggettive (modalità, quantità del lavoro, condizioni economico-sociali delle parti, relazioni intercorrenti tra le stesse), che giustifichino la causa gratuita e consentano di negare, con certezza, la sussistenza di un accordo elusivo dell'irrinunciabilità della retribuzione, non essendo sufficiente la semplice dimostrazione che il lavoratore si ripromette di ricavare dalla prestazione gratuita un vantaggio futuro e non pecuniario (come, nella specie, l'acquisizione del punteggio derivante dallo svolgimento di attività d'insegnamento in un istituto magistrale parificato)

Nota

La decisione in esame riguarda l’onerosità delle prestazioni di lavoro e l’applicabilità della relativa presunzione alle fattispecie in merito alle quali sia accertata la sussistenza delle caratteristiche del lavoro subordinato.

Nel caso di specie, a seguito di un accertamento ispettivo che aveva constatato l’esistenza di rapporti di lavoro subordinato tra alcune insegnanti ed una scuola materna, erano state emesse delle ordinanze ingiunzioni nei confronti della scuola per omessa contribuzione e relative sanzioni.

Contro tali ordinanze veniva proposta opposizione ad opera di uno dei due gestori della scuola in quanto le insegnanti avrebbero svolto la prestazione senza retribuzione ma per affezione nei confronti della struttura. Tali opposizioni venivano rigettate tanto in primo quanto in secondo grado.

Il gestore della scuola ricorreva in Cassazione contro la decisione della Corte d’Appello di Catanzaro, articolando diversi motivi. In particolare e per quanto qui interessa, lo stesso sosteneva la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. Si doleva, infatti, che la sentenza impugnata avesse posto l’onere di provare la gratuità della prestazione delle insegnanti di cui sopra in capo alla scuola. Secondo quanto statuito dalla Corte territoriale, infatti, spettava alla scuola fornire prova rigorosa che la causa del rapporto - come affermato - consistesse unicamente nell’affectio esistente tra le insegnanti e la scuola. Sempre secondo la Corte d’Appello tale onere non era stato assolto e ciò aveva determinato il rigetto del ricorso in appello. La difesa della scuola, infatti, non si era focalizzata sulle modalità di svolgimento del rapporto in concreto ma si era limitata ad affermare che tra le parti sussistevano delle pattuizioni formali secondo le quali non avrebbe dovuto essere erogato alcuno stipendio per l’attività di insegnamento che sarebbe stata certificata, invece, al solo fine di permettere alle insegnanti di acquisire di punti per le assunzioni presso le istituzioni pubbliche.

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato tale motivo ed ha rigettato l’intero ricorso. In particolare la Suprema Corte ha ribadito un principio ormai consolidato secondo il quale: "Nel caso in cui siano accertati l'esercizio professionale, cioè sistematico, di un'attività economica, di produzione o scambio di beni o servizi, mediante organizzazione di mezzi, al fine di conseguire uno scopo di lucro, e, al tempo stesso, l'effettuazione, nell'ambito di tale organizzazione imprenditoriale, di prestazioni oggettivamente configurabili come di lavoro subordinato, le medesime debbono presumersi effettuate a titolo oneroso, salva la prova - da fornirsi da colui che contesta l'onerosità - che le prestazioni stesse sono caratterizzate da gratuità. ".

Soffermandosi poi sulla natura della prova da fornire ad opera di colui che contesti l’onerosità presunta, la Cassazione ha affermato che "tale prova, peraltro, non può essere desunta soltanto dalle formali pattuizioni intercorse tra le parti, ma deve consistere nell'accertamento, specie attraverso le modalità di svolgimento del rapporto, di particolari circostanze oggettive o soggettive (modalità, quantità del lavoro, condizioni economico-sociali delle parti, relazioni intercorrenti tra le stesse), che giustifichino la causa gratuita e consentano di negare, con certezza, la sussistenza di un accordo elusivo dell'irrinunciabilità della retribuzione, non essendo sufficiente la semplice dimostrazione che il lavoratore si ripromette di ricavare dalla prestazione gratuita un vantaggio futuro e non pecuniario (come, nella specie, l'acquisizione del punteggio derivante dallo svolgimento di attività d'insegnamento in un istituto magistrale parificato)".

Nel caso in esame, dunque, la Suprema Corte da una parte ha evidenziato come la Corte territoriale abbia correttamente posto in capo a parte datoriale l’onere della prova in merito alla gratuità delle prestazioni lavorative, in ossequio al principio generale per cui chi presenta una circostanza in giudizio deve fornirne la prova; dall’altra ha evidenziato che - in ogni caso - la prova fondata esclusivamente sulle pattuizioni formali in essere tra le parti è, relativamente a tale fattispecie, insufficiente, dovendo la stessa avere ad oggetto altri aspetti quali le condizioni economico-sociali delle parti e le relazioni intercorrenti, in pratica, tra le stesse.

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