Contenzioso

Tutele crescenti, la nullità del patto di prova non porta alla reintegrazione

di Vincenzo Fabrizio Giglio

La nullità del patto di prova, in regime di lavoro subordinato a tutele crescenti, non conduce alla reintegrazione nel posto di lavoro.
Cosi ha recentemente deciso il Tribunale di Milano con sentenza 8 aprile 2017, dichiarando la nullità del patto di prova apposto al contratto e il diritto della lavoratrice ricorrente al (solo) risarcimento economico nella misura predeterminata delle quattro mensilità.
Nel caso esaminato, una lavoratrice lamentava, tra l'altro, di aver egregiamente superato la prova e di essere stata licenziata per (infondate) ragioni disciplinari.
Investito della questione, il Tribunale (Dott.ssa Bertoli) ha preliminarmente accertato la nullità del patto, a causa della insufficiente specificazione delle mansioni dedotte nel contratto (si assegnava la lavoratrice alle mansioni di «analyst consultant»); e ha poi ricordato che la nullità del patto di prova, da un lato, non travolge la validità del contratto di lavoro subordinato; e, dall'altro, non determina di per sé la nullità del licenziamento ma il suo assoggettamento all'ordinaria disciplina limitativa dei licenziamenti.
Svolte queste premesse, il Tribunale di Milano ha escluso che il licenziamento fosse affetto da un vizio formale, posto che una motivazione, sia pur fallace, è stata esplicitata (art. 4, D.Lgs. n. 23/2015); per poi concludere che il recesso motivato dal mancato superamento della prova, in presenza di un patto di prova nullo, sia da ritenere (meramente) ingiustificato, poiché posto al di fuori dell'area della libera recedibilità. Conseguenza di ciò, risulta pertanto che la sanzione applicabile è quella meramente risarcitoria (art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015), con esclusione della reintegrazione. Ad avviso del Giudice, infatti, non può farsi luogo all'applicazione della tutela prevista per l'insussistenza del fatto materiale poiché questa, alla stregua del tenore letterale della norma, è applicabile ai soli licenziamenti di natura disciplinare mentre il recesso per mancato superamento della prova, di per sé, non integra né presuppone necessariamente una condotta disciplinarmente rilevante.
La sentenza in esame si presenta di notevole interesse anche perché, a quanto consta, è una delle prime decisioni in materia di recesso in prova in regime di «Jobs act» e, inoltre, perché si pone in contrasto con i due precedenti ad oggi noti: Tribunale di Torino del 16 settembre 2016 (Dott.ssa Mancinelli) e Tribunale di Milano del 3 novembre 2016 (Dott. Scarzella).
In entrambi i precedenti, infatti, pur muovendo da premesse ermeneutiche analoghe, i Giudici sono pervenuti all'opposta conclusione che il licenziamento sottoposto al loro esame recava una motivazione ontologicamente soggettiva e disciplinare (Torino) ovvero che la ragione dedotta nel recesso era in sé inesistente (Milano). In entrambi i casi dichiarando l'insussistenza del fatto materiale sotteso al licenziamento e, per l'effetto, applicando la tutela prevista dall'art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 23/2015, ossia la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento, sia pur contenuto nel limite massimo previsto dalla legge.
Al netto delle presumibili differenze della ricostruzione dei fatti operata nei diversi casi, dunque, le decisioni ricordate esprimono nelle rispettive conclusioni una diversa impostazione ermeneutica.
La (ragionevole) prevedibilità dell'esito di un giudizio sulla nullità del patto di prova, pertanto, dovrà attendere un consolidamento della giurisprudenza sul punto.

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