Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Sul licenziamento per superamento del periodo di comporto del lavoratore disabile
Il principio di immediatezza della contestazione disciplinare
Dirigenti e compenso per lavoro straordinario
Prestazioni intellettuali fra autonomia e subordinazione
Licenziamento collettivo: procedura

Sul licenziamento per superamento del periodo di comporto del lavoratore disabile

Cass. Sez. Lav. 12 aprile 2017, n. 9395

Pres. Napoletano; Rel. Lorito; P.M. Ceroni; Ric. T.A.; Controric. I.L. S.p.A.;

Licenziamento per superamento del periodo di comporto - Invalido assunto obbligatoriamente - Assenze per malattia collegata all’invalidità -Assegnazione a mansioni in compatibili con lo stato di salute del lavoratore - Non computabilità - Nesso di causalità tra inadempimento e danno alla salute - Necessità - Onere della prova gravante sul lavoratore - Necessità

Nell'ipotesi di rapporto di lavoro con invalido assunto obbligatoriamente ai sensi della legge 12 aprile 1968, n.482, le assenze dovute a malattie collegate con lo stato di invalidità non possono essere computate nel periodo di comporto, ai fini della conservazione del posto di lavoro ex art. 2110 cod. civ., se l'invalido sia stato adibito, in violazione dell'art. 20 della legge n. 482 del 1968, a mansioni incompatibili con le sue condizioni di salute. È, tuttavia, onere del lavoratore provare gli elementi oggettivi della fattispecie, sulla quale si fonda la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, dimostrandone l'inadempimento, nonché il nesso di causalità tra l'inadempimento stesso, il danno alla salute e le assenze dal lavoro che ne conseguano.

Nota

La Corte di Appello di Firenze, riformando la pronuncia di primo grado, rigettava il ricorso proposto dal lavoratore - invalido assunto obbligatoriamente ai sensi della legge n. 482/1968, inteso a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli per superamento del periodo di comporto, condannandolo alla restituzione delle somme percepite in esecuzione della sentenza di primo grado.

A fondamento della propria decisione la Corte territoriale, innanzitutto, rilevava che il quadro probatorio delineato in prime cure, alla luce delle deposizioni testimoniali raccolte, non era univoco con riferimento alla individuazione delle mansioni espletate dal ricorrente, essendo emerso lo svolgimento di compiti promiscui di magazziniere, nell’ambito dei quali al sollevamento di pesi di tipo manuale si alternava la movimentazione di carichi eseguita con carrelli.

La Corte territoriale richiamava, inoltre, le conclusioni alle quali era pervenuto l’ausiliare medico legale, nominato in sede di gravame, il quale aveva evidenziato che la patologia da cui era scaturita l’assenza del lavoratore era conseguita al decorso di una pregressa degenerazione retinica, e che gli sforzi fisici (quali il sollevamento di pesi) o la ripetuta movimentazione di carichi, connessi alle mansioni di magazziniere, per le quali il dipendente era stato avviato obbligatoriamente al lavoro, non avevano determinato l’aggravamento di una patologia preesistente, considerato il breve periodo di tempo, di circa tre mesi, durante il quale il lavoratore aveva svolto la propria attività alle dipendenze della società, prima del manifestarsi della degenerazione retinica.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore sulla base di un unico motivo.

In particolare, il ricorrente lamentava che la Corte territoriale fosse incorsa nella violazione dei dettami di cui alla legge n. 68 del 1999, secondo cui il datore di lavoro è tenuto ad adibire il lavoratore disabile a mansioni compatibili con le proprie condizioni di salute, avendo omesso di considerare che nel corso del giudizio di primo grado era risultata provata l’assegnazione del lavoratore a mansioni gravose, connesse alla movimentazione manuale di pesi, non compatibili con la patologia retinica da cui lo stesso era affetto.

Il ricorrente lamentava, altresì, che la Corte territoriale avesse esclusivamente fondato la propria decisione sugli esiti della perizia medico legale, espletata in sede di gravame, che doveva invece ritenersi logicamente contraddittoria, in quanto benchè da un lato avesse accertato che il quadro morboso da cui era affetto il dipendente fosse incompatibile con le mansioni lavorative svolte, dall’altro lato, aveva escluso il riconoscimento di un aggravamento della patologia, in ragione della brevità del periodo di lavoro svolto alle dipendenze della società.

La Suprema Corte rigettava il ricorso.

La Suprema Corte ha ritenuto che la Corte territoriale si fosse correttamente attenuta al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia, secondo cui, nell'ipotesi di rapporto di lavoro con invalido assunto obbligatoriamente ai sensi della legge 12 aprile 1968, n.482, le assenze dovute a malattie collegate con lo stato di invalidità non possono essere computate nel periodo di comporto, ai fini della conservazione del posto di lavoro ex art. 2110 cod. civ., se l'invalido sia stato adibito, in violazione dell'art. 20 della legge n. 482 del 1968, a mansioni incompatibili con le proprie condizioni di salute. In tal caso, infatti, la impossibilità della prestazione deriva dalla violazione, da parte del datore di lavoro, dell'obbligo di tutelare l'integrità fisica del lavoratore. La Suprema Corte ha, inoltre, chiarito che il lavoratore è tuttavia gravato dell'onere di provare gli elementi oggettivi della fattispecie, sulla quale si fonda la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, dimostrandone l'inadempimento, nonché il nesso di causalità tra l'inadempimento stesso, il danno alla salute e le assenze dal lavoro che ne conseguano (cfr. in tal senso Cass. 23/4/2004 n.7730, Cass. 15/12/1994 n.10769).

Con specifico riferimento al caso in oggetto, la Suprema Corte ha dunque ritenuto che la Corte territoriale, conformemente a detti principi, avesse correttamente escluso il nesso eziologico tra lo stato morboso in cui versava il lavoratore nel periodo considerato e lo svolgimento delle mansioni cui lo stesso era stato adibito, tenuto conto che il lavoratore non aveva dimostrato, come era suo onere, l’adibizione a mansioni incompatibili col proprio stato di salute.

 

Il principio di immediatezza della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 11 aprile 2017, n. 9285

Pres. Amoroso; Rel. Esposito; P.M. Mastroberardin; Ric. U.L.; Controric. S.E.V.E.L. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento disciplinare - Principio di immediatezza della contestazione - Fondamento - Carattere relativo - Accertamento del giudice circa la tempestività del licenziamento - Insindacabilità in sede di legittimità - Limiti - Fattispecie.

Il principio di immediatezza della contestazione disciplinare deve essere inteso in senso relativo, specie nelle ipotesi in cui l'accertamento e la conseguente valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale più ampio oppure quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso; in tali ipotesi, dunque, il citato principio è compatibile con il trascorrere di un intervallo di tempo, più o meno lungo, restando in ogni caso riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto possono giustificare o meno il ritardo in questione.

Nota

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione, confermando le precedenti pronunce di primo e secondo grado, ha rigettato il ricorso promosso da un dipendente al fine di ottenere la declaratoria d’illegittimità del licenziamento disciplinare irrogatogli.

Nello specifico, il suddetto licenziamento era stato fondato sugli stessi fatti costituenti oggetto dell’imputazione penale (per estorsione) formulata nei confronti del dipendente, consistenti nell’aver ripetutamente fatto in modo da evitare il mancato superamento del controllo di qualità per alcuni prodotti ceduti da un fornitore della società, a fronte di pagamenti in contanti ricevuti da quest’ultimo.

Il dipendente ha impugnato la sentenza di secondo grado deducendo che, erroneamente, era stata dalla Corte d’Appello esclusa la tardività del procedimento disciplinare e del conseguente licenziamento.

La Corte di Cassazione ha ritenuto tale motivo di ricorso infondato, ribadendo il consolidato principio secondo cui "il principio dell'immediatezza della contestazione disciplinare, la cui "ratio" riflette l'esigenza dell'osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell'attuazione del rapporto di lavoro, non consente all'imprenditore-datore di lavoro di procrastinare la contestazione medesima in modo da rendere difficile la difesa del dipendente o perpetuare l'incertezza sulla sorte del rapporto, in quanto nel licenziamento per giusta causa l'immediatezza della contestazione si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro. Peraltro, il criterio di immediatezza va inteso in senso relativo, dovendosi tener conto della specifica natura dell'illecito disciplinare, nonché del tempo occorrente per l'espletamento delle indagini, tanto maggiore quanto più è complessa l'organizzazione aziendale. La relativa valutazione del giudice di merito è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici" (cfr. da ultimo Cass. n. 14103/2014).

Ebbene, a detta della Corte, nel caso di specie la Corte d’Appello aveva congruamente motivato le ragioni in forza delle quali doveva escludersi la tardività della contestazione, ovvero le considerevoli dimensioni aziendali, la complessità dei fatti di cui all’imputazione penale, le difficoltà delle indagini investigative e la molteplicità di soggetti coinvolti nell’indagine. Il ragionamento dei giudici di merito risulta, quindi, sorretto da congrue argomentazioni, nonché conforme al dictum della Corte di legittimità.

Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.

Dirigenti e compenso per lavoro straordinario

Cass. Sez. Lav. 12 aprile 2017, n. 9380

Pres. Di Cerbo; Rel. De Gregorio; P.M. Celeste; Ric. G.N.; Controric. e Ric inc. E.L. s.p.a.;

Personale con funzioni direttive - Remunerabilità lavoro straordinario - Condizioni

Al dirigente o all'impiegato con funzioni direttive spetta un compenso per il lavoro straordinario solo se la prestazione lavorativa si protragga oltre il limite globale di ragionevolezza del normale orario, a causa della maggiore gravosità e della natura usurante dell'attività lavorativa.

Nota

Nella sentenza in commento sono contenuti una serie di principi su diverse tematiche, tutti sostanzialmente conformi ai prevalenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità. La vicenda trae origine dal ricorso presentato da un lavoratore con il quale veniva chiesto: l’accertamento del diritto ad un superiore inquadramento, la condanna ad una serie di differenze retributive, la condanna al pagamento del lavoro straordinario, l’accertamento del mobbing e della dequalificazione subita e la condanna al risarcimento dei connessi danni, l’illegittimità di alcuni trasferimenti ex art. 2103 c.c.

Limitando l’analisi alla parte della decisione inerente la remunerabilità del lavoro straordinario del personale direttivo - contenente affermazioni già sancite, ma meno frequenti - la Corte territoriale ha respinto la richiesta di condanna al pagamento del un compenso aggiuntivo per il lavoro straordinario, con una motivazione ritenuta dalla Suprema Corte corretta ed immune da censure, con conseguente rigetto del ricorso proposto dal dipendente in ordine a tale aspetto.

In proposito la Cassazione afferma il principio di cui alla massima già ribadito in precedenti specifici (Cass. 22 agosto 2003, n. 12367), riconoscendo la correttezza della decisione emessa sul punto dalla Corte territoriale laddove ha ritenuto che le mansioni svolte dal dipendente, avendo natura direttiva, non erano soggette a limitazione di orario e non davano conseguentemente diritto alla maturazione di compensi ulteriori ed aggiuntivi, se non in ipotesi di "lavoro usurante" ed "irragionevole". Aggiunge, inoltre, la Corte che, nel caso di specie, l’espletamento di lavoro straordinario era anche difficilmente verificabile, essendo il ricorrente il capo-negozio, come tale privo di controllo in loco da parte di superiori gerarchici, sicché andava considerata una remunerazione sufficiente lo straordinario forfettizzato pacificamente corrispostogli.

Sempre in ordine a tale aspetto, richiamando precedenti decisioni (Cass. 10 febbraio 2000, n. 1491) la Cassazione precisa anche che, ai fini dell'esclusione della limitazione dell'orario di lavoro e della conseguente negazione del diritto a compenso per lavoro straordinario, il concetto di "personale direttivo" comprende non soltanto di tutti i dirigenti che rivestono qualità rappresentative e vicarie, bensì anche, in difetto di una pattuizione contrattuale in deroga, il personale dirigente cd. "minore", ovvero gli impiegati di prima categoria con funzioni direttive, i capi di singoli servizi o sezioni di azienda ed i capi-ufficio e i capi-reparto.

Il ricorso svolto sul punto viene, pertanto, respinto.

 

Prestazioni intellettuali fra autonomia e subordinazione

Cass. Sez. Lav. 10 aprile 2017, n. 9173

Pres. Bronzini; Rel. Cinque; P.M. Celentano; Ric. M. S.r.l.; Controric. F.C.;

Autonomia e subordinazione - Prestazioni intellettuali - Subordinazione attenuata - Ricorso ad elementi sussidiari - Legittimità.

In caso di prestazioni che, per la loro natura intellettuale, mal si adattano ad essere eseguite sotto la direzione del datore di lavoro e con regolare continuità, anche negli orari, ai fini della qualificazione del rapporto come subordinato oppure autonomo, sia pure quale collaborazione coordinata e continuativa, il primario elemento distintivo della subordinazione, intesa come assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro, deve essere necessariamente accertato o escluso mediante il ricorso ad elementi sussidiari che il giudice deve individuare in concreto - con accertamento di fatto incensurabile in cassazione se immune da vizi giuridici ed adeguatamente motivato - accordando prevalenza ai dati fattuali emergenti dal concreto svolgimento del rapporto.

Nota

Un lavoratore autonomo citava il proprio committente avanti al Tribunale di Torino, al fine di accertare la natura subordinata del proprio rapporto di lavoro, durato circa sei anni e mezzo, avente ad oggetto l’attività di programmazione delle macchine a controllo numerico, con conseguente condanna del convenuto al pagamento delle differenze retributive e del trattamento di fine rapporto.

La Corte d’Appello di Torino, in riforma della sentenza di primo grado che aveva rigettato la domanda principale del lavoratore, accertava la natura subordinata del rapporto in quanto caratterizzato, anche in ragione delle qualità soggettive del ricorrente e del legale rappresentante dell’azienda committente, da un vincolo di subordinazione attenuata che veniva desunto dai seguenti indici sussidiari: continuità dell’attività; l’orario di lavoro; luoghi e mezzi di svolgimento della prestazione; modalità di pagamento del corrispettivo.

La Corte d’Appello rigettava la domanda di condanna al pagamento delle differenze retributive, poiché, in applicazione del c.d. principio di assorbimento, il trattamento economico complessivamente erogato era superiore a quello minimo dipendente dalla (ri)qualificazione del rapporto come subordinato, vale a dire i minimi tabellari previsti dalla contrattazione collettiva applicabile ex art. 36 Cost. Veniva invece accolta la domanda di pagamento del TFR, in quanto il relativo importo non era stato specificamente contestato dal committente/convenuto.

Avverso tale sentenza l’azienda ricorreva in Cassazione; il lavoratore resisteva con controricorso.

Il committente lamentava violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c. (recante, come noto, la definizione di prestatore di lavoro subordinato) sostenendo l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha desunto la natura subordinata del rapporto sulla base di meri indici sussidiari, omettendo di accertare l’elemento principale della subordinazione e cioè l’assoggettamento personale del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso. Pur ribadendo che la subordinazione debba essere intesa come assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro, la Suprema Corte ha applicato il principio (già affermato in Cass. 5886/2012 e 4770/2003) secondo cui, in caso di prestazioni che, per la loro natura intellettuale, mal si adattano ad essere eseguite sotto la direzione del datore di lavoro e con regolare continuità, anche negli orari, ai fini della qualificazione del rapporto come subordinato oppure autonomo, il primario elemento distintivo della subordinazione deve essere necessariamente accertato o escluso mediante il ricorso ad elementi sussidiari che il giudice di merito deve individuare in concreto, accordando prevalenza ai dati fattuali emergenti dal concreto svolgimento del rapporto.

La Corte non è entrata nel merito degli indici sussidiari concretamente utilizzati dal giudice di secondo grado, limitandosi ad affermare che la Corte d’Appello ha dato corretta attuazione al principio sopra evidenziato, esaminando, in modo completo e logico, le risultanze istruttorie e pervenendo alla conclusione che nel caso di specie si fosse configurata una forma di subordinazione attenuata.

Mancando uno specifico motivo di ricorso, nella sentenza annotata non vi è alcun accenno alla rilevanza della qualificazione del rapporto operata dalle parti, elemento che invece è stato, da ultimo, valorizzato in Cass. 206/2017 (che ha ribadito il principio secondo cui, ai fini della individuazione della natura autonoma o subordinata del rapporto di lavoro, la qualificazione operata dalle parti non è irrilevante, considerato che le manifestazioni negoziali e la qualificazione giuridica in esse data al rapporto assumono un valore quantomeno presuntivo sulla natura autonoma del rapporto stesso, valore che può essere superato solo nel caso in cui il lavoratore, che è gravato dal relativo onere, fornisca precisi elementi obiettivi idonei a dimostrare che, nel concreto svolgimento dell'attività lavorativa, sia stato sottoposto al potere organizzativo, gerarchico e disciplinare del datore di lavoro).

 

Licenziamento collettivo: procedura

Cass. Sez. Lav. 19 aprile 2017, n. 9876

Pres. Nobile; Rel. Amendola; P.M. Celeste; Ric.B. S.r.l.; Controric. C.

Licenziamento collettivo - Onere di comunicazione del datore di lavoro - Violazione del termine previsto dalla legge - Illegittimità del licenziamento.

In ipotesi di licenziamento collettivo per cessazione di attività, la violazione del termine di sette giorni per le comunicazioni di cui all’articolo 4, comma 9, della l. n. 223/1991, determina l’illegittimità del licenziamento e la sanzione del pagamento dell’indennità risarcitoria.

Nota

Nel caso in esame, il Tribunale di Benevento confermava l’ordinanza emessa all’esito della fase sommaria del rito Fornero con cui si dichiarava l’illegittimità del licenziamento del dipendente all’esito della procedura di licenziamento collettivo.

La Corte di appello di Napoli respingeva il reclamo proposto dalla società e confermava la sentenza del Tribunale.

La Corte aveva, infatti, accertato la violazione dell’obbligo del datore di lavoro di comunicazione agli enti regionali per l’impiego e alle associazioni di categoria dell’elenco dei lavoratori licenziati con tutte le altre notizie sull’attuazione delle procedure di mobilità, nel termine di sette giorni dalla comunicazione dell’atto di recesso di cui all’articolo 4 comma 9 L. 223/1991, termine ritenuto cogente ai fini della validità della procedura medesima.

Avverso la sentenza della Corte di Appello ha proposto ricorso in Cassazione la società deducendo violazione della L. 223/1991 articolo 4 comma 9 e 5 comma 3, sostenendo che la corte territoriale avrebbe omesso di considerare che, in presenza di un licenziamento collettivo per cessazione totale dell’attività produttiva ed azzeramento dell’intero organico, il mero superamento del termine di sette giorni per l’inoltro delle comunicazioni alle OO.SS. di categoria e agli uffici regionali non è di per se idonea ad inficiare la validità dei licenziamenti comminati ai lavoratori.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Per la Cassazione, la procedura regolata dalla legge 223/1991 trova applicazione anche ai licenziamenti conseguenti la chiusura dell’insediamento produttivo nei limiti della compatibilità di tale procedura con i risultati in concreto perseguibili in relazione alla cessazione dell’attività aziendale. Così, ad esempio, il datore di lavoro non è obbligato a specificare, nella comunicazione di cui all’articolo 4 L.223/1991, i motivi del mancato ricorso ad altre forme occupazionali, atteso che tale informazione si giustifica in relazione ad un possibile reimpiego dei lavoratori in alternativa al licenziamento, ovvero nella prospettiva di una mera riduzione di personale, ipotesi che sono da escludersi nel caso di cessazione dell’attività aziendale.

Viceversa, nel caso di specie, viene in rilievo la tardività delle comunicazioni ai soggetti indicati dalla legge e non già dei motivi del mancato ricorso ad altre forme occupazionali, per cui, conferma la Corte, in ipotesi di licenziamento collettivo per cessazione di attività, la violazione del termine di sette giorni per le comunicazioni di cui all’articolo 4, comma 9, della l. n. 223/1991, determina l’illegittimità del licenziamento e la sanzione del pagamento dell’indennità risarcitoria per effetto del richiamo dell’articolo 24 della predetta legge all’articolo 4 citato, operato al fine di consentire il controllo sindacale sull’effettività della scelta datoriale.

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