Contenzioso

Il concetto di «nuova malattia» ai fini della prescrizione della rendita Inail

di Silvano Imbriaci

La questione affrontata dalla sentenza della sezione Lavoro della Corte di cassazione del 10 maggio 2017, n. 11418, riguarda la pretesa di un lavoratore di ottenere dall'Inail il riconoscimento del diritto alla percezione della rendita per malattia professionale, a fronte del diniego dell'Istituto (confermato dalla sentenza del Tribunale) motivato in punto di prescrizione ex articolo 112 del dpr n. 1124/1965. Il lavoratore aveva infatti presentato una prima domanda nel febbraio 1998, e denunciato poi successivo stato di malattia nel 2003, che secondo l'Inail, in accordo con quanto ritenuto dai giudici di merito, non poteva ritenersi di natura diversa rispetto a quella oggetto della richiesta del 1998, trattandosi semplicemente di una più ampia e dettagliata descrizione della stessa malattia.

Il lavoratore propone ricorso in Cassazione, rilevando la sostanziale novità e diversità tra i due stati patologici a fondamento delle domande, anche con riferimento al principio espresso dalla Corte costituzionale (sentenza n. 46/2010) in base al quale il maggior grado di inabilità derivato dalla protrazione dell'esposizione al rischio patogeno deve essere considerato nuova malattia ai fini assicurativi. Occorre peraltro brevemente ricordare che ai sensi dell'articolo 112 del dpr l'azione per conseguire le prestazioni di cui si discute si prescrive nel termine di tre anni dal giorno dell'infortunio o da quello della manifestazione della malattia professionale e che ai sensi dell'articolo 111 dello stesso dpr n. 1124 la prescrizione rimane sospesa durante la liquidazione in via amministrativa dell'indennità, che deve essere esaurita nel termine di centocinquanta giorni, per il procedimento previsto dall'articolo 104, e di duecentodieci, per quello indicato nell'articolo 83. Trascorsi tali termini senza che la liquidazione sia avvenuta, l'interessato ha facoltà di proporre la azione giudiziaria.

Sono interessanti le considerazioni contenute nella sentenza della Cassazione, in risposta soprattutto alle sollecitazioni circa la presunta novità della malattia da un punto di vista normativo e interpretativo, essendo la diversità in concreto dei due stati patologici, sotto il profilo strettamente sanitario, questione attinente al merito, risolvibile dal giudice di merito anche senza necessariamente far ricorso a Ctu medico-legale. Quanto, dunque, alla rilevanza del principio espresso dalla Corte costituzionale, secondo la Sezione Lavoro la questione di illegittimità in realtà riguardava la denunciabilità dell'aggravamento di una malattia oltre il limite temporale delle variazioni delle condizioni fisiche dell'assicurato; e quindi una situazione ben diversa da quella posta oggi alla sua attenzione. In ogni caso, la situazione fattuale appare comunque diversa, in quanto l'oggetto dell'indagine di legittimità riguardava norme (articolo 80 e 131 del dpr n. 1124/65) relative al protrarsi di un esposizione al rischio patogeno dopo la costituzione di una rendita vitalizia, da considerarsi dunque vecchia in confronto al nuovo stato di malattia derivato dal prolungamento dell'esposizione a rischio. L'articolo 137, invece, si riferisce esclusivamente all'aggravamento eventuale rispetto all'inabilità derivante dall'evoluzione in senso patologico della malattia originaria. Ove, invece, il maggior grado di inabilità derivi dalla protrazione all'esposizione al rischio, è lecito parlare di nuova malattia, seppure della stessa natura della precedente. Da una parte abbiamo quindi una naturale evoluzione della malattia; dall'altra una esposizione protratta al rischio patogeno rispetto ad una malattia professionale già riconosciuta. Nel caso di specie, invece, la prima malattia non è stata mai riconosciuta come tale, essendo stata peraltro esclusa l'esistenza del nesso di causa.

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