Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Giusta causa di licenziamento
Mansioni promiscue e obbligo di repechage
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Sui “controlli difensivi occulti”
Orario di lavoro


Giusta causa di licenziamento

Cass. Sez. Lav. 24 maggio 2017, n. 13018

Pres. Napoletano; Rel. Lorito; Ric. B.d.N.; Controric. C.L.;

Lavoro - Lavoro subordinato - Licenziamento - Licenziamento per giusta causa - Settore bancario - Vincolo fiduciario - Lesione - Sussistenza - Danno patrimoniale subìto dal datore di lavoro - Rilevanza - Esclusione.

L’accertamento della giusta causa di recesso va condotto alla stregua della speciale consistenza che assume il vincolo fiduciario nel rapporto di lavoro bancario, in relazione al quale l’idoneità lesiva del comportamento contestato deve essere valutata con particolare rigore ed a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo per la parte datoriale o dal conseguimento di un utile, rilevando la lesione dell’affidamento che, non solo il datore di lavoro, ma anche il pubblico, ripongono nella lealtà e correttezza dei funzionari.

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte ribadisce che, ai fini dell’accertamento della giusta causa di licenziamento, é necessario valutare la peculiare consistenza che - in taluni settori produttivi e, segnatamente, in quello bancario - viene ad assumere il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro.

Nel caso di specie, un dipendente di un istituto di credito era stato licenziato per giusta causa per aver omesso di denunziare, al termine della giornata lavorativa precedente alla verifica effettuata dalla banca, un ammanco di cassa di duemilatrecento Euro.

La Corte territoriale, in parziale riforma della pronuncia di prime cure, dichiarava l’illegittimità del recesso, valorizzando la circostanza per cui la mancata segnalazione dell’ammanco non sarebbe stata dettata dall’intento di appropriarsi della somma erogata dal lavoratore in favore di una parente per far fronte ad urgenti esigenze di carattere familiare, essendo il dipendente certo di potere, il giorni successivo, depositare assegno di pari importo. Pertanto - concludevano i Giudici d’appello - la condotta addebitata al prestatore non si atteggiava in termini di tale gravità da impedire la prosecuzione, anche temporanea del rapporto di lavoro, sì da giustificare l’irrogazione della massima sanzione disciplinare.

La banca proponeva ricorso per Cassazione, lamentando l’errata concretizzazione, da parte della Corte di merito, del concetto di giusta causa di recesso e, precisamente, senza tenere conto della peculiare intensità del vincolo fiduciario nel rapporto di lavoro bancario.

I Giudici di legittimità accolgono il ricorso, rammentando, anzitutto, che, l’accertamento della giusta causa di recesso va condotto alla stregua della speciale consistenza che assume il vincolo fiduciario nel rapporto di lavoro bancario, in relazione al quale l’idoneità lesiva del comportamento contestato deve essere valutata con particolare rigore ed a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo per la parte datoriale o dal conseguimento di un utile (cfr. Cass. 8 aprile 2016, n. 6901), rilevando la lesione dell’affidamento che, non solo il datore di lavoro, ma anche il pubblico, ripongono nella lealtà e correttezza dei funzionari.

Principi, questi, che la Cassazione reputa esser stati disattesi dalla Corte territoriale, la quale ha valutato, essenzialmente, la mera assenza di un profilo doloso nella condotta posta in essere dal lavoratore. Nell’applicazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. i giudici di appello avrebbero dovuto, invece, far riferimento agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale e cristallizzati nei summenzionati precetti, trascurando ogni considerazione circa la coscienza e la volontà del comportamento assunto dal dipendente e l'idoneità dello stesso, anche a prescindere dalla sussistenza di un dolo, a vulnerare il vincolo fiduciario. Nel rapporto di lavoro bancario, infatti, secondo la Corte di Cassazione, assume peculiare intensità l’aspetto fiduciario soprattutto nel caso di un cassiere con specifici obblighi tra i quali la custodia del denaro.

In definitiva - conclude il Supremo Collegio - la Corte d’Appello ha trascurato di considerare il rapporto fra il modus operandi del lavoratore, pur nella più favorevole ipotesi accreditata nella sentenza di merito di assenza di dolo, e i doveri che gravano sul dipendente, alla cui stregua va individuata la ricorrenza dell’affidamento datoriale sul futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa.

 

Mansioni promiscue e obbligo di repechage

Cass. Sez. Lav. 26 maggio 2017, n. 13379

Pres. Di Cerbo; Rel. Patti; P.M. Sanlorenzo; Ric. B.M.; Contr. M.D. s.r.l.;

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Mansioni promiscue - Obbligo di repechage - Sussiste in relazione a tutte le mansioni espletate dal lavoratore - Gruppo di imprese - Unico centro di imputazione del rapporto di lavoro - Condizioni

In caso di svolgimento di mansioni promiscue, l’obbligo di repechage sussiste anche in relazione alle mansioni che, pur inferiori a quelle in effetti soppresse, venivano comunque svolte in via ordinaria dal lavoratore, con gli unici limiti del rispetto dell’assetto organizzativo dell’impresa insindacabilmente stabilito dall’imprenditore e del consenso del lavoratore all’adibizione a tali mansioni.

Nota

Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione affronta l’interessante questione dell’ambito di estensione dell’obbligo di repechage in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un lavoratore che svolgeva mansioni promiscue.

In particolare, un lavoratore licenziato per g.m.o. aveva impugnato la sentenza sfavorevole di appello, lamentando il mancato espletamento, da parte della società, dell’obbligo di repechage in relazione: a) a mansioni inferiori rispetto al proprio livello di inquadramento, ancorché comunque rese dallo stesso lavoratore; b) ad altre società del gruppo.

In relazione al punto sub a), la Corte cassa la sentenza di appello, applicando estensivamente il noto orientamento che afferma la prevalenza delle esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto su quelle di tutela della professionalità del prestatore di lavoro; il tutto, naturalmente, con riferimento alla formulazione dell’art. 2103 c.c. precedente a quella introdotta con il d.lgs. n. 81/2015 (meglio noto come Jobs Act).

Alla base del ragionamento della Cassazione si pone la considerazione secondo cui il lavoratore svolgeva mansioni promiscue: vale a dire tra loro non equivalenti e - parrebbe, dal tenore della sentenza - riconducibili a più di un livello di inquadramento. Tutte le predette mansioni - sia quelle di livello superiore, soppresse perché esternalizzate, sia quelle di livello inferiore - erano rese dal lavoratore in via ordinaria e, quindi, pienamente esigibili da parte del datore di lavoro.

Tale circostanza, a parere della Corte, é sufficiente affinché l’obbligo di repechage possa ritenersi esteso a tutto l’arco delle mansioni svolte dal lavoratore e non solo a quelle prevalenti (nel caso di specie, di livello superiore e, in effetti, soppresse), così inficiando la validità del ragionamento fatto proprio dai giudici di appello.

Venendo al punto sub b), la Corte ha ribadito il proprio orientamento relativamente alle condizioni necessarie ai fini della configurabilità, nell’ambito di un gruppo di imprese, di un unico centro di imputazione di interessi, affermando: "Tale situazione ricorre ogni volta che vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un'unica attività fra i vari soggetti del collegamento economico-funzionale e ciò venga accertato in modo adeguato, attraverso l'esame delle attività di ciascuna delle imprese gestite formalmente da quei soggetti, che deve rivelare l'esistenza dei seguenti requisiti: a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; c) coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori".

Ciò premesso, la Cassazione ha rigettato il motivo di ricorso spiegato dal lavoratore, ritenendo che questi non abbia fornito prova della sussistenza di tali presupposti.

 

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 24 maggio 2017, n. 13015

Pres. Di Cerbo; Rel. Manna; P.M. Sanlorenzo; Ric. C. G. Contr. S.A. eredi G. M. S.p.A.;

Licenziamento giustificato motivo oggettivo - Ricerca del profitto attraverso la riduzione del costo del lavoro - Ammissibilità - Presenza di utili di bilancio - Irrilevanza - Effettiva riorganizzazione - Necessità.

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro, nel procedere al riassetto della sua impresa, può ricercare il profitto anche attraverso la riduzione del costo del lavoro o di altri fattori produttivi, fermo restando il divieto di perseguire tale obiettivo con il mero abbattimento del costo del lavoro, realizzato attraverso la sostituzione di un dipendente con un altro meno retribuito, e non giustificato da un effettivo mutamento organizzativo. Con la conseguenza che, in caso di riorganizzazione aziendale, il datore di lavoro, non é tenuto a dimostrare l'esistenza di situazioni sfavorevoli di mercato, trattandosi di requisiti non richiesti dall'art. 3, L. 604/66, né rileva, in senso contrario, la presenza di eventuali utili di bilancio.

Nota

La Corte di appello di Brescia, confermando la sentenza di primo grado, aveva respinto la domanda avanzata da un lavoratore tesa ad ottenere la declaratoria di illegittimità di un licenziamento intimatogli per giustificato motivo oggettivo.

Il lavoratore propone ricorso per cassazione, denunciando l'erroneità della sentenza di appello nella parte in cui aveva ritenuto irrilevante la circostanza che, al momento del recesso, la società presentasse utili di bilancio ed avesse appena effettuato investimenti per milioni di euro.

La Cassazione respinge il ricorso sostenendo che, come di recente affermato dalla sezione, il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ex art. 3, L. 604/66, é ravvisabile anche qualora vi sia soltanto una diversa ripartizione di determinate mansioni fra i dipendenti in servizio, attuata al fine di rendere più efficiente e produttiva la gestione aziendale (cfr. Cass. 28 settembre 2016, n. 19185).

Nel caso in esame, a parere dei giudici di legittimità, la corte di merito aveva accertato la genuinità del riassetto organizzativo che aveva portato ad assegnare ad altro lavoratore, con più anzianità di servizio e con maggiori carichi di famiglia, le mansioni prima svolte dal ricorrente.

La Cassazione, inoltre, precisa che non rileva l'eventuale esistenza di utili di bilancio atteso che, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro, nel procedere al riassetto della sua impresa, può ricercare il profitto anche attraverso la riduzione del costo del lavoro o di altri fattori produttivi, fermo restando il divieto di perseguire tale obiettivo con il mero abbattimento del costo del lavoro, realizzato attraverso la sostituzione di un dipendente con un altro meno retribuito, e non giustificato da una effettiva riorganizzazione. Con la conseguenza che, in caso di riorganizzazione aziendale, il datore di lavoro non é tenuto a dimostrare l'esistenza di situazioni sfavorevoli di mercato, trattandosi di requisiti non richiesti dall'art. 3, L. 604/66. Ammettere il licenziamento per giustificato motivo oggettivo solo ove esso tenda a evitare perdite e non anche a migliore la produttività - come prenderebbe il ricorrente - secondo la Suprema Corte, non si ricava né dal predetto art. 3 L. 604, né dall'art. 41 Cost. e sarebbe in astratto concepibile solo con riferimento ad un ente pubblico economico che agisse in regime di monopolio e non per un'impresa privata che opera all'interno di un regime di concorrenza nel quale, nel lungo periodo, sarebbe destinata ad essere espulsa dal mercato (Cass. 1 luglio 2016, n. 13516).

Conclusivamente, la Cassazione ribadisce che il giustificato motivo oggettivo di licenziamento previsto dall'art. 3, L. 604/66 é ravvisabile anche in caso di diversa ripartizione di determinate mansioni fra i dipendenti, all'esito della quale una o più posizioni lavorative risultino in esubero e non riassorbibili attraverso il ricorso al c.d. repechage.

Tale circostanza, ovviamente, non esime il giudice dal verificare che la predetta riorganizzazione, pur non sindacabile nel merito, sia genuina (vale a dire effettiva e non meramente apparente o pretestuosa), preceda logicamente e/o cronologicamente il recesso e derivi da necessità non meramente contingenti e transeunti, quindi non destinate ad essere riassorbite in un breve arco di tempo.

 

Sui "controlli difensivi occulti"

Cass. Sez. Lav. 2 maggio 2017 n. 10637

Pres. Nobile; Rel. Lorito; P.M. Ceroni; Ric. T.P.; Controric. C.C.I. s.c..

"Controllo difensivo" del datore di lavoro - Ammissibilità - Condizioni - Applicabilità del divieto ex art. 4 c. 2 St. Lav. - Esclusione - Fattispecie.

Non è soggetta alla disciplina dell'art. 4, comma 2, dello Statuto dei Lavoratori l'installazione di impianti e apparecchiature di controllo poste a tutela del patrimonio aziendale dalle quali non derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività lavorativa, né risulti in alcun modo compromessa la dignità e la riservatezza dei lavoratori. (Nel caso di specie la Corte ha dichiarato la legittimità del licenziamento per giusta causa di un lavoratore addetto alle vendite al quale era stato contestato di aver prelevato e utilizzato reiteratamente prodotti del reparto dolciumi del magazzino, sulla base di quanto era emerso da un filmato ricavato da una telecamera collocata per la sorveglianza del magazzino stesso).

Nota

La Corte di legittimità torna a pronunciarsi in materia di "controlli difensivi", cioé quei controlli che il datore di lavoro pone in essere al fine di accertare il compimento di condotte illecite da parte dei propri dipendenti; fattispecie che é stata ampiamente scrutinata dalla giurisprudenza di legittimità, nella vigenza del testo dell’art. 4 L. n. 300/1970 anteriore alla riscrittura operata dall’art. 23 D.Lgs. n. 151/2015.

La fattispecie al vaglio della Suprema Corte attiene ad un licenziamento per giusta causa irrogato a un addetto alle vendite di un ipermercato per aver sottratto, per ben tre volte in un arco temporale di circa un mese, prodotti dal reparto dolciumi del magazzino. Tale condotta é risultata comprovata dalle riprese, effettuate da una società di investigazione incaricata dall’azienda, di una telecamera installata nei locali ove si erano verificati i furti contestati. La telecamera era stata collocata per riprendere unicamente lo scaffale sul quale erano collocati i prodotti dolciari che venivano movimentati da addetti di agenzie esterne e non da dipendenti della società.

La Corte d’Appello di Perugia, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava le domande del lavoratore e dichiarava legittimo il licenziamento atteso che la registrazione delle immagini integrava una ipotesi di cd. "controllo difensivo occulto" attuato con modalità non invasive e rispettose della dignità e libertà dei dipendenti e non avente ad oggetto l’attività lavorativa in sé ed il suo esatto adempimento e, come tale, estraneo all’ambito di applicazione dell’art. 4 Stat. Lav.. La Corte territoriale ha dunque ritenuto siffatto controllo legittimo e idoneo a sorreggere il licenziamento intimato per giusta causa.

Ricorreva in Cassazione il lavoratore che denunciava in particolare la violazione dell’art. 4 St. Lav. e degli artt. 3 e 11 D.Lgs. n. 196/2003 che stabiliscono i principi di necessità, liceità e pertinenza dei controlli difensivi occulti, affermando che, ai fini dell’inapplicabilità dell’art. 4 St. Lav., non é sufficiente il perseguimento di una finalità di tutela del patrimonio aziendale, ma é necessario un quid pluris rappresentato dall’attualità della minaccia, sì da giustificare l’esercizio di una legittima e proporzionata esigenza difensiva, nella specie ritenuta insussistente.

La Corte di legittimità ha rigettato il ricorso aderendo così a quelle pronunce (ex plurimis Cass. 27/05/2015 n. 10955 e Cass. 08/11/2016 n. 22662) secondo cui sono legittimi i "controlli difensivi occulti", anche ad opera di personale estraneo all’organizzazione aziendale, purché diretti all’accertamento di comportamenti illeciti diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa e sempre che le attività di accertamento siano esplicate mediante modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti, con le quali l’interesse del datore di lavoro al controllo e alla difesa della organizzazione produttiva aziendale deve pur sempre contemperarsi.

La Suprema Corte ha rimarcato come la pronuncia della Corte di merito avesse fatto corretta applicazione di detto principio, laddove ha evidenziato che l’attività di controllo posta in essere dall’azienda a mezzo di impianti audiovisivi: a) non aveva avuto ad oggetto l’attività lavorativa ed il suo corretto adempimento (non rientrando le operazioni relative al magazzino nell’ambito delle mansioni di competenza dei dipendenti della società, trattandosi di compiti affidati agli addetti di agenzie esterne); b) era stata attuata con modalità non invasive (essendo stata la telecamera installata solo nel locale magazzino, ove erano collocati i prodotti dolciari di marca Ferrero); c) era giustificata esclusivamente dalla necessità di tutelare il patrimonio aziendale.


Orario di lavoro

Cass. Sez. Lav. 26 aprile 2017, n. 10318

Pres. Nobile; Rel. Curcio; Ric. S.M.; Controric. R. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Orario di lavoro - Lavoro straordinario del personale con funzioni direttive - Configurabilità - Condizioni - Accertamento relativo - Onere di allegazione e prova

Il personale con funzioni direttive, escluso dalla disciplina legale delle limitazioni dell'orario di lavoro, ha diritto al compenso per lavoro straordinario se la prestazione superi il limite della ragionevolezza e sia particolarmente gravosa e usurante, con onere di allegazione e prova gravante sul dipendente. L’allegazione della sola permanenza sul luogo di lavoro oltre l’orario normale non é sufficiente ad integrare tali requisiti.

Nota

La decisione in commento riguarda le condizioni alle quali al personale con funzioni direttive, escluso dalla disciplina relativa alle limitazioni sull’orario di lavoro, debba essere riconosciuto il diritto al compenso per il lavoro straordinario, nonché il relativo onere di allegazione e prova in giudizio. Nel caso in esame il ricorrente aveva lavorato presso un Hotel, prima come vice direttore e poi come direttore e, a seguito del licenziamento intimatogli, aveva richiesto il risarcimento del danno relativo al licenziamento stesso oltre al pagamento di voci contrattuali non pagate, tra le quali il compenso per una significativa mole di lavoro straordinario svolto.

La domanda concernente il licenziamento veniva respinta tanto in primo quanto in secondo grado, mentre la domanda relativa allo straordinario veniva accolta in primo grado ma respinta in grado d’Appello, tenuto conto che non poteva applicarsi al dipendente alcuna limitazione di orario e che non risultava provato che fosse stato superato il limite della ragionevolezza e la gravosità della prestazione resa oltre l’orario normale.

Il lavoratore impugnava tale decisione in Cassazione sotto vari profili. In particolare, per quanto qui interessa, lo stesso contestava l’erronea valutazione da parte della Corte territoriale in merito al superamento della ragionevolezza nello svolgimento dello straordinario.

La Cassazione ha respinto tale censura e rigettato l’intero ricorso.

In tema di riconoscimento del compenso dello straordinario al personale con funzioni direttive, escluso dalla disciplina legale delle limitazioni dell'orario di lavoro, la Suprema Corte ha ribadito che tale diritto matura se la prestazione superi il limite della ragionevolezza e sia particolarmente gravosa e usurante, con onere di allegazione e prova in merito gravante sul dipendente.

Nel caso di specie la Cassazione ha ritenuto che lo svolgimento di attività impegnative o gravose non era stato né provato né addirittura dedotto dal lavoratore, con la conseguenza che non poteva dirsi maturato il diritto al pagamento dello straordinario. Sul punto, infatti, l’allegazione della sola permanenza sul luogo di lavoro oltre l’orario normale (nel caso in esame per ben cinque ore al giorno) non é stata ritenuta sufficiente alla maturazione del diritto. Al contrario, la Cassazione ha rilevato che erano emersi in corso di causa elementi contrastanti con l’irragionevolezza della prestazione richiesta, come la possibilità per il lavoratore di godere di pause e riposi, di usufruire di un alloggio e di consumare i pasti in albergo, nonché la non vincolatività dell’orario di lavoro osservato.

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