Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Tempestività della contestazione disciplinare
Procedimento disciplinare e richiesta di audizione personale del lavoratore
Licenziamento di dirigente
Trasferimento illegittimo e assenza ingiustificata
Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore


Tempestività della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 26 giugno 2017, n. 15858

Pres. Manna; Rel. De Gregorio; P.M. Matera; Ric. B.M.D.P.D.S. S.P.A.; Controric. G.A.D.;

Licenziamento per giusta causa - Contestazione disciplinare - Tempestività - Riconoscimento di responsabilità da parte del dipendente nel corso delle indagini interne - Attesa degli esiti del processo penale - Illegittimità

La rilevanza penale dei fatti contestati e la conseguente denuncia all’autorità inquirente non fanno venir meno l’obbigo di immediata contestazione, in considerazione della rilevanza che esso assume rispetto alla tutela dell’affidamento e del diritto di difesa dell’incolpato, sempre che i fatti riscontrati facciano emergere, in termini di ragionevole certezza, significativi elementi di responsabilità a carico del lavoratore. Di conseguenza il differimento dell’incolpazione può dirsi giustificato soltanto dalla necessità, per il datore di lavoro, di acquisire conoscenza della riferibilità dei fatti, nelle linee essenziali, al lavoratore e non anche dall’integrale accertamento degli stessi.

Nota

La Corte di Appello di Bologna confermava la sentenza del giudice di primo grado che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato dalla banca ad un proprio direttore di agenzia, in ordine ad operazioni irregolari svolte da quest’ultimo, rispetto alle quali il dipendente risultava anche inquisito in sede penale, disponendo la reintegra del lavoratore ex art. 18 Stat. Lav..

La Corte territoriale respingeva, invece, le domande di risarcimento danni non patrimoniali formulate dal dipendente, nonché la domanda riconvenzionale spiegata dalla banca per gli asseriti danni patiti dalla stessa in relazione alle operazioni irregolari che avevano provocato il licenziamento per giusta causa oggetto di impugnativa.

Avverso tale pronuncia proponeva gravame la banca, fondato su due motivi.

Nello specifico, parte ricorrente denunciava violazione e falsa applicazione dell’articolo 7 della legge n. 300 del 1970, nonché degli articoli 2119, 1175, 1375 c.c., anche in relazione all’art. 38 CCNL 12 febbraio 2005 per i quadri direttivi e per il personale delle aree professionali dipendenti delle imprese creditizie finanziarie e strumentali, con particolare riguardo al principio dell’immediatezza della contestazione disciplinare. La banca sosteneva che il lasso di tempo intercorso tra la conclusione dell’accertamento ispettivo interno (1° giugno 2007) e l’avvio del procedimento disciplinare (4 aprile 2008), fosse dovuto all’esigenza di ricostruire i fatti emersi a seguito delle indagini penali.

La Suprema Corte rigettava il ricorso.

La Cassazione ha osservato che, diversamente da quanto ritenuto da parte ricorrente, la Corte territoriale aveva considerato i motivi di appello sollevati sul punto dalla banca ed, in particolare, aveva tenuto conto del fatto che: a) l’ispezione interna si era conclusa in data 1° giugno 2007; b) a seguito dell’inizio delle indagini in sede penale da parte del pubblico ministero, avvenuto in data 18 ottobre 2007, l’avviso di garanzia per il reato di appropriazione indebita era stato notificato al lavoratore in data 11 dicembre 2007; c) la contestazione disciplinare era stata notificata al dipendente il 4 aprile 2008.

La Suprema Corte ha rilevato, quindi, che del tutto correttamente la Corte territoriale, richiamando peraltro la giurisprudenza di legittimità secondo cui l’immediatezza si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, aveva escluso che il considerevole lasso di tempo trascorso tra l’accertamento ispettivo e la formulazione dell’addebito fosse dovuto all’esigenza di ricostruire i fatti emersi a seguito delle indagini penali. Ciò considerato che, per un verso, come evidenziato dai giudici di secondo grado, nella stessa lettera di contestazione disciplinare parte datoriale aveva evidenziato un riconoscimento di responsabilità da parte del dipendente nelle dichiarazioni rese dal medesimo in data 15 e 17 maggio 2007 e tenuto conto, per altro verso, che era stata sempre la banca ad ammettere di aver temporeggiato, dopo la conclusione dell’ispezione interna, nella speranza che le criticità accertate rientrassero.

La Suprema Corte ha, dunque, conclusivamente richiamato il proprio orientamento giurisprudenziale costante in tema di tempestività della contestazione disciplinare, secondo cui il principio di immediatezza, pur dovendo essere inteso in senso relativo, comporta che l’imprenditore porti a conoscenza del lavoratore i fatti contestati non appena essi gli appaiono ragionevolmente sussistenti, non potendo egli legittimamente dilazionare la contestazione fino al momento in cui ritiene di averne assoluta certezza, pena l’illegittimità del licenziamento. La Suprema Corte ha altresì chiarito che la rilevanza penale dei fatti contestati e la conseguente denuncia all’autorità inquirente non fanno venire meno l’obbligo di immediata contestazione, sempre che i fatti riscontrati facciano emergere, in termini di ragionevole certezza, significativi elementi di responsabilità a carico del lavoratore (cfr. in tal senso Cass. 27 febbraio 2014, n. 4724; 20 settembre 2013, n. 21633; 13 febbraio 2013, n. 3532; 18 gennaio 2007, n. 1101). 

 

Procedimento disciplinare e richiesta di audizione personale del lavoratore

Cass. Sez. Lav. 9 giugno 2017, n. 14450

Pres. Nobile; Rel. Curcio; P.M. Ceroni; Ric. P.I. S.p.A.; Controric. D.C.;

Procedimento disciplinare - Scadenza del termine per rendere le giustificazioni - Mancata irrogazione della sanzione - Richiesta di audizione personale del lavoratore - Principî di buona fede e correttezza - Obbligo del datore di lavoro di dar corso alla richiesta - Irrogazione sanzione disciplinare in mancanza dell’audizione personale - Illegittimità.

In osservanza dei principî di buona fede e correttezza, in caso di richiesta di audizione personale da parte del dipendente sottoposto a procedimento disciplinare ricevuta, successivamente al termine concesso per rendere le giustificazioni, lo stesso giorno dell'adozione del provvedimento, in assenza di prova - di cui è onerata la parte datoriale - dell'anteriorità dell’adozione del licenziamento rispetto alla ricezione della richiesta, il datore di lavoro deve sospendere l’irrogazione della sanzione e disporre l'audizione del dipendente.

Nota

Un impiegato, ricevuta una lettera di contestazione, richiedeva di essere sentito a sua discolpa dopo che era scaduto il termine di cinque giorni per giustificarsi. Lo stesso giorno di ricezione di tale richiesta, il datore di lavoro irrogava il licenziamento per giusta causa, senza sentire le giustificazioni del lavoratore.

A seguito dell’impugnazione del licenziamento, il giudizio giungeva avanti alla Suprema Corte nel 2012 che cassava con rinvio, affermando il seguente principio di diritto: qualora il datore di lavoro procrastini l'adozione della sanzione rispetto ai cinque giorni previsti per legge, la richiesta di audizione personale da parte del lavoratore, pervenuta lo stesso giorno dell'adozione della sanzione, impone al datore di lavoro di dar corso a tale richiesta, in base ai principi di correttezza e di buona fede, eventualmente sospendendo l'irrogazione della sanzione disciplinare.

La Corte d’Appello di Roma, in sede di rinvio, riformava la sentenza di primo grado, accertando l’illegittimità del licenziamento, con conseguente condanna della società alla reintegrazione e al risarcimento del danno. A fronte della contestazione disciplinare del 3 luglio 2003, la società aveva atteso sino al 15 luglio successivo per irrogare il licenziamento, giorno in cui aveva ricevuto la richiesta di audizione da parte del dipendente. Di conseguenza, in base al principio statuito dalla Cassazione, il datore avrebbe dovuto sospendere l’applicazione della sanzione e disporre l’audizione del lavoratore per consentirgli di rendere le proprie giustificazioni orali.

Avverso tale sentenza, la società ricorreva in Cassazione; il dipendente resisteva con controricorso.

Il datore di lavoro lamentava violazione e falsa applicazione dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori e dell’art. 1375 c.c. nella parte in cui la Corte territoriale aveva omesso di verificare la successione temporale tra la ricezione della lettera di richiesta di audizione e la spedizione della lettera di licenziamento, tenuto anche conto della previsione del contratto collettivo applicato che imponeva l’irrogazione della sanzione disciplinare entro trenta giorni dal termine per rendere le giustificazioni.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso affermando che il giudice del rinvio si era attenuto al chiaro principio di diritto affermato dalla sentenza rescindente secondo cui, in osservanza dei principî di buona fede e correttezza, qualora il datore di lavoro riceva una richiesta di audizione personale da parte del dipendente incolpato, pur successiva al termine di cinque giorni per giustificarsi, ma ricevuta lo stesso giorno dell'adozione del provvedimento, in assenza di prova dell'anteriorità dell’adozione del licenziamento rispetto alla ricezione della richiesta, deve sospendere l’irrogazione della sanzione e disporre l'audizione.

La Suprema Corte ha inoltre affermato che è onere del datore di lavoro provare la ricezione della richiesta di audizione in un momento successivo all’invio della lettera di licenziamento, mentre nessun onere di deduzione o di prova poteva essere addossato al lavoratore, tenuto anche conto della prossimità della società alla relativa fonte probatoria.

Il riferimento al termine di decadenza, previsto dalla contrattazione collettiva, entro il quale irrogare la sanzione disciplinare è stato considerato irrilevante, in quanto la Corte territoriale si è limitata ad applicare il principio precedentemente affermato dalla Cassazione, la quale aveva posto in evidenza che il datore di lavoro aveva procrastinato per un tempo apprezzabile l'adozione della sanzione rispetto al termine di cinque giorni per rendere le giustificazioni, così che, alla luce dei principî di correttezza e di buona fede, si imponeva l'audizione del dipendente. 

 

Licenziamento di dirigente

Cass. Sez. Lav. 4 luglio 2017, n. 16380

Pres. Napoletano; Rel. Curcio; P.M. Finocchi Ghersi; Ric. D.L.V. + altri; Controric. S. S.p.A;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Dirigente d'azienda - Licenziamento individuale - Giustificatezza - Ragioni oggettive - Nozione - Fattispecie

Il rapporto di lavoro del dirigente non è assoggettato alle norme limitative dei licenziamenti individuali di cui agli artt. 1 e 3 della legge n. 604 del 1966 e la nozione di "giustificatezza" del licenziamento del dirigente, posta dalla contrattazione collettiva di settore, non coincide con quella di giustificato motivo di licenziamento contemplata dall'art. 3 della stessa legge 15 luglio 1966, n. 604. Pertanto, poiché il licenziamento del dirigente non richiede necessariamente un giustificato motivo oggettivo, esso è consentito in tutti i casi in cui sia stato adottato in funzione di una ristrutturazione aziendale dettata da scelte imprenditoriali non arbitrarie, non pretestuose e non persecutorie.

Nota

Il caso di specie riguarda il licenziamento per motivi oggettivi di un dirigente.

La Corte d’Appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva ritenuto legittimo il licenziamento, ritenendo che lo stesso trovasse giustificazione nell’ambito di una riorganizzazione aziendale attuata dal datore di lavoro.

Ricorre per Cassazione il lavoratore, deducendo che il licenziamento potrebbe ritenersi giustificato solo in presenza di scelte organizzative che risultino sostenute da un motivo serio e ragionevole, alla luce di un equo contemperamento degli interessi contrapposti della libertà di iniziativa economica, da una parte, e del diritto al lavoro del dirigente, dall'altra. Nel caso in esame invece, secondo il ricorrente, la scelta della società era stata dettata da ragioni di mera convenienza, ossia da motivi estranei ad una effettiva riorganizzazione aziendale, con conseguente illegittimità del licenziamento e diritto a ricevere l’indennità supplementare.

La Corte di Cassazione ha ritenuto il ricorso infondato, affermando innanzitutto che, poiché il rapporto di lavoro del dirigente non è assoggettato alle norme limitative dei licenziamenti individuali dettate dagli artt. 1 e 3 della L. 15 luglio 1966 n. 604, la nozione di "giustificatezza" del licenziamento del dirigente, posta dalla contrattazione collettiva di settore, non coincide con quella di giustificato motivo di licenziamento contemplata dalla citata legge n. 604 del 1966 all'art. 3 e dunque non deve necessariamente coincidere con una situazione di grave crisi aziendale tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa la prosecuzione del rapporto di lavoro, posto che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con quello della libertà di iniziativa economica, garantita dall'art. 41 Cost., che verrebbe radicalmente negata ove si impedisse all'imprenditore, a fronte di razionali e non arbitrarie ristrutturazioni aziendali, di scegliere discrezionalmente le persone idonee a collaborare con lui ai più alti livelli della gestione dell'impresa (cfr. Cass. n. 3628/2012). Ne consegue che il licenziamento del dirigente è consentito in tutti i casi in cui sia stato adottato in funzione di una ristrutturazione aziendale dettata da scelte imprenditoriali non arbitrarie, non pretestuose e non persecutorie (cfr. Cass. n. 21748/2010).

Ebbene, la Corte d’Appello di Bologna aveva accertato, sulla base di una valutazione complessiva delle risultanze istruttorie, che il ruolo svolto dal dirigente era stato effettivamente soppresso, nell’ambito di una riorganizzazione aziendale finalizzata ad un risparmio di costi. Le conclusioni alle quali è pervenuta la Corte, inoltre, risultano aderenti ai principi sopra richiamati e, in quanto sorrette da motivazione adeguata e immune da vizi logici e giuridici, non sono censurabili in sede di legittimità.

Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Trasferimento illegittimo e assenza ingiustificata

Cass. Sez. Lav. 3 luglio 2017, n. 16331

Pres. Venuti; Rel. Leo; P.M. Sanlorenzo; Ric. D.E.I.; Controric. B.N.

Lavoro subordinato - Demansionamento - Ordine del giudice di riassegnare la lavoratrice a mansioni equivalenti - Mancato adempimento della società - Assenza ingiustificata - Licenziamento per giusta causa - Illegittimità

Il rifiuto della lavoratrice di prendere servizio presso una diversa sede della società cui era illegittimamente assegnata non può integrare, da solo, una giusta causa di licenziamento.

Nota

La Corte di Appello di Roma respingeva il ricorso proposto dalla società avverso la sentenza di primo grado che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento ed ordinato la reintegrazione della lavoratrice.

Avverso la sentenza della Corte di Appello proponeva ricorso in Cassazione la società contestando la violazione e falsa applicazione dell'art. 41 della Costituzione e dell’art. 2103 c.c. e lamentando che la Corte territoriale avrebbe errato nel fondare la propria decisione sull'illegittimità del trasferimento della dipendente presso un’altra filiale.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Per la Cassazione, la Corte d'Appello avrebbe dapprima correttamente accertato che la lavoratrice era stata demansionata e che a seguito di ricorso giudiziale la società era stata condannata a riassegnare la lavoratrice alle mansioni corrispondenti al livello professionale per cui era stata assunta e che nel periodo successivo l’obbligo scaturente dalla menzionata pronunzia era stato disatteso dalla società.

Per la Cassazione, anche alla stregua del principio scaturente dal disposto dell'art. 1460 c.c. (inadimplenti non est adimplendum) e tenuto conto del fatto che nello svolgimento del rapporto di lavoro non possono essere pretermessi i principi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. , il rifiuto della lavoratrice di prendere servizio presso la diversa sede della società non può integrare, da solo, una giusta causa di licenziamento.

In questo senso, la dottrina e la giurisprudenza più attente hanno sottolineato come le disposizioni della Carta costituzionale abbiano segnato anche nella materia giuslavoristica un momento di rottura rispetto al sistema precedente "ed abbiano consacrato, di conseguenza, il definitivo ripudio dell'ideale produttivistico quale unico criterio cui improntare l'agire privato", in considerazione del fatto che l'attività produttiva è subordinata, ai sensi del secondo comma della medesima disposizione, alla utilità sociale che va intesa non tanto e soltanto come mero benessere economico e materiale, quanto, soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, di libertà e dignità.

Con riferimento al caso in esame, la Cassazione ha ritenuto che la società avesse violato i summenzionati principi e valori apicali dell’ordinamento licenziando per giusta causa la lavoratrice che a tutela della propria posizione e in esecuzione di quanto previsto dalla sentenza del Tribunale, si era rifiutata di svolgere la propria prestazione di lavoro.

 

Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore

Cass. Sez. Lav. 9 giugno 2017, n. 14468

Pres. Macioce; Rel. Tricomi; P.M. Celeste; Ric. A.M.; Controric. A. s.r.l.;

Infortunio sul lavoro - Responsabilità - Onere prova - Esistenza marchiatura conformità CE - Insufficienza - Accertamento della corrispondenza dei macchinari ai requisiti di legge - Necessità

Secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza penale di legittimità il datore di lavoro, quale responsabile della sicurezza dell'ambiente di lavoro, è tenuto ad accertare la corrispondenza ai requisiti di legge dei macchinari utilizzati e risponde dell'infortunio occorso a un dipendente a causa della mancanza di tali requisiti, senza che la presenza sul macchinario della marchiatura di conformità CE o l'affidamento riposto nella notorietà e nella competenza tecnica del costruttore, valgano a esonerarlo dalla sua responsabilità.

Nota

La Corte d’Appello di Brescia, confermando la sentenza di primo grado, ha rigettato la richiesta di un operaio volta ad ottenere il risarcimento dei danni per un infortunio sul lavoro. Secondo la Corte non poteva ravvisarsi in capo al datore alcun profilo di imprudenza, negligenza o imperizia ed eventuali responsabilità dovevano ascriversi al costruttore o alla ditta incaricata della manutenzione del macchinario. I giudici del merito pervenivano a tale giudizio condividendo la valutazione di imprevedibilità dell'evento formulata dagli ispettori della ASL e ritenendo che il datore di lavoro, vincendo la presunzione ex art. 1218 cod. civ., avesse fornito la prova dell'assenza di colpa e avesse adottato tutte le misure necessarie, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, a tutelare il lavoratore.

Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, censurando, in particolare, la sentenza laddove ha ritenuto che la sussistenza della certificazione amministrativa CE esentasse il giudice dal compito di verificare l’adozione da parte del datore di misure di sicurezza necessarie alla salvaguardia dei lavoratori.

La Suprema Corte accoglie il ricorso riportando il principio di cui alla massima, più volte sancito dalle sezioni penali (Cass. 21 dicembre 2016, n. 54480; Cass. 27 gennaio 2016, n. 3626), e ribadendo che, ai fini della configurabilità della responsabilità del datore, grava sul dipendente l'onere di provare la sussistenza del rapporto di lavoro, dell'infortunio ed il nesso causale tra l'utilizzazione del macchinario o la nocività dell'ambiente di lavoro e l'evento dannoso, e grava sul datore di lavoro l'onere di dimostrare di aver rispettato le norme specificamente stabilite in relazione all'attività svolta nonché di aver adottato, ex art. 2087 cod. civ., tutte le misure che - in considerazione della peculiarità dell'attività e tenuto conto dello stato della tecnica - siano necessarie per tutelare l'integrità del lavoratore, vigilando altresì sulla loro osservanza, mentre il comportamento del lavoratore è idoneo ad escludere il rapporto causale tra inadempimento del datore di lavoro ed evento esclusivamente quando esso sia autosufficiente nella determinazione dell'evento, cioè se abbia il carattere dell'abnormità per essere assolutamente anomalo ed imprevedibile (Cass. 13 ottobre 2015, n. 20533). Il limite viene, pertanto, individuato nella imponderabilità, non potendosi esigersi dall’imprenditore la predisposizione di accorgimenti idonei a fronteggiare cause d'infortunio del tutto imprevedibili (Cass. 10 ottobre 2014, n. 312).

La Cassazione ritiene che la Corte territoriale non si fosse adeguata a tali principi in tema di assolvimento dell'onere della prova sull’adempimento degli obblighi di protezione specifici del datore di lavoro rispetto alle caratteristiche del macchinario ed alle modalità di uso, atteso che il vizio strutturale, quale fatto liberatorio, non può prescindere dalla prova circostanziata, offerta dal datore di lavoro, dell'assolvimento dei suddetti obblighi; prova, nel caso di specie, non soddisfatta dal mero rinvio fatto dalla Corte d'Appello alle rilevazioni degli ispettori dell'ASL.

Il ricorso viene, quindi, accolto e la sentenza cassata con rinvio.

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