Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento disciplinare e pluralità di addebiti
Svolgimento di altra attività lavorativa durante la malattia e licenziamento
Qualifica dirigenziale
Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore di lavoro
Elementi di validità della conciliazione in sede sindacale

Licenziamento disciplinare e pluralità di addebiti

Cass. Sez. Lav. 28 luglio 2017, n. 18836

Pres. Nobile; Rel. Amendola; P.M. Ceroni; Ric. P.L.; Controric. C. S.P.A.;
 
Licenziamento disciplinare - Pluralità di addebiti - Sussistenza di uno solo dei fatti contestati - Legittimità

Qualora il licenziamento sia intimato per  giusta causa, consistente non in un fatto  singolo ma in una pluralità di fatti, ciascuno di essi costituisce autonomamente una base idonea per  giustificare la sanzione, a meno che colui che ne abbia interesse non provi che solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità  complessiva, essi sono tali da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro. Ne consegue che, salvo questo specifico caso, ove nel  giudizio di merito emerga l'infondatezza di uno o più degli addebiti contestati, gli addebiti residui conservano la loro astratta idoneità a giustificare il licenziamento.

Nota
La Corte di Appello di Roma confermava la pronuncia di primo grado che aveva rigettato la domanda avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento disciplinare proposta dal lavoratore.
La Corte territoriale, conformemente al giudice di primo grado, riteneva sussistente l’addebito contestato, consistente nell’aver aggredito un collega, dapprima verbalmente e poi fisicamente, con un colpo di testa inferto al volto. I giudici di secondo grado ritenevano, pertanto, integrata la giusta causa di licenziamento, osservando che il contrasto che sfoci nell’aggressione fisica, oltre che verbale, non può non incidere sulla vita aziendale, in quanto idoneo a scuotere la serenità e la normalità, sia dei rapporti di colleganza tra i lavoratori sia di  quelli di collaborazione tra questi ed il datore di lavoro.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso il lavoratore, fondato su due motivi. La società resisteva con controricorso.
Con il primo motivo di ricorso il lavoratore sosteneva che la Corte di appello avesse violato il principio della immodificabilità della contestazione e della domanda, in quanto aveva dichiarato legittimo il licenziamento pur avendo ritenuto sussistente soltanto uno degli addebiti contestati. In particolare, il lavoratore lamentava che in nessuno degli atti difensivi di primo grado la società avesse affermato che ciascuno dei fatti contestati, anche se considerati singolarmente e non congiuntamente, poteva essere ritenuto idoneo a costituire giusta causa di risoluzione del rapporto.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
I giudici di legittimità hanno osservato che la Corte di  appello aveva correttamente applicato il  principio secondo il quale, qualora il licenziamento sia intimato per  giusta causa, consistente non in un fatto  singolo ma in una pluralità di fatti, ciascuno di essi costituisce autonomamente una base idonea per  giustificare la sanzione, a meno che colui che ne abbia interesse non provi che solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità  complessiva, essi sono tali da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro. Ne consegue che, salvo questo  specifico caso, ove nel  giudizio di merito emerga l'infondatezza di uno o più degli addebiti contestati, gli addebiti residui conservano la loro astratta idoneità a giustificare il licenziamento (Cass. 30 maggio 2014, n. 12195; Cass. 31 ottobre 2013, n. 24574; Cass. 14 gennaio 2003, n. 454).
Applicando tali principi al caso in esame, la Suprema Corte ha ritenuto che non gravasse sul datore di lavoro l’onere di provare che i singoli fatti, anche se autonomamente considerati, fossero idonei ad integrare una giusta causa di recesso, ma che fosse onere della parte che ne aveva interesse, e cioè del lavoratore, dimostrare che, solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità complessiva, i singoli  episodi fossero tali da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di  lavoro.
Pertanto, i giudici di secondo grado avevano correttamente considerato anche l'unico addebito, ritenuto effettivamente sussistente, idoneo ad integrare la giusta causa di recesso.


Svolgimento di altra attività lavorativa durante la malattia e licenziamento


Cass. Sez. Lav. 1° agosto 2017, n. 19089

Pres. Nobile; Rel. De Gregorio; P.M. Ceroni; Ric. D.L.; Controric. R.F.I.;

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia - Giusta causa - Configurabilità - Condizioni - Fattispecie

Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro non solo per la violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, ma anche perché tale attività esterna è di per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione.

Nota
La Corte di Appello di Roma ha rigettato il ricorso proposto dal dipendente avverso la sentenza di primo grado che aveva accertato la sussistenza di una giusta causa di licenziamento per aver il dipendente lavorato durante il periodo in cui risultava assente per malattia.
Avverso la sentenza della Corte d'Appello ha proposto ricorso per Cassazione il dipendente contestando che il comportamento posto a fondamento del licenziamento non integrava una giusta causa di recesso. Secondo il dipendente era evidente l'assenza di proporzionalità tra il recesso intimato e la condotta contestata, non emergendo la presunta gravità dell'inadempimento in capo al dipendente, che non era mai venuto meno agli obblighi di fedeltà di buona fede nei confronti del suo datore di lavoro.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
Per la Cassazione costituisce illecito disciplinare l'espletamento di attività extra-lavorativa durante il periodo di assenza per malattia non solo se da tale comportamento derivi un'effettiva impossibilità temporanea della ripresa del lavoro, ma anche quando la ripresa sia solo messa in pericolo dalla condotta imprudente (di per se idonea a compromettere il legame di fiducia tra le parti), costituendo il comportamento indisciplinato in questione, illecito di pericolo e non di danno.
Con particolare riferimento al caso in esame, per la Cassazione la Corte territoriale avrebbe correttamente considerato che l’attività svolta dal ricorrente presso la farmacia della moglie, fosse indice di scarsa attenzione non solo alla propria salute, ma anche ai doveri di cura e di non ritardata guarigione e fosse tale da far presumere, in relazione alla natura della patologia e alla gravosità dell'attività espletata, di poter pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio. Anche per la Cassazione, la condotta tenuta dal dipendente aveva posto in dubbio la futura correttezza nell'adempimento della prestazione lavorativa e quindi aveva fatto venir meno il vincolo necessario alla prosecuzione del rapporto.

Qualifica dirigenziale

Cass. Sez. Lav. 4 agosto 2017, n. 19579

Pres. Bronzini; Rel. Garri; P.M. Celeste; Ric. L.G.Z.; Contr. I.P.C.S.;

Lavoro subordinato - Categorie e qualifiche dei prestatori di lavoro - Qualifiche - Dirigente - Caratteristiche dell'attività svolta - "Alter ego" dell'imprenditore - Necessità - Esclusione - Requisiti - Qualificazione professionale, autonomia e responsabilità - Riferimento alla contrattazione collettiva - Necessità

La qualifica di dirigente non spetta al solo prestatore di lavoro che, come “alter ego” dell'imprenditore, ricopra un ruolo di vertice nell’organizzazione o, comunque, occupi una posizione tale da poter influenzare l'andamento aziendale, essendo invece sufficiente che il dipendente, per l'indubbia qualificazione professionale, nonché per l'ampia responsabilità in tale ambito demandata, operi con un corrispondente grado di autonomia e responsabilità, dovendosi, a tal fine, far riferimento, in considerazione della complessità della struttura dell’azienda, alla molteplicità delle dinamiche interne nonché alle diversità delle forme di estrinsecazione della funzione dirigenziale.

Lavoro subordinato - Diritti ed obblighi del datore e del prestatore di lavoro - Libertà e dignità del lavoratore - Sanzioni disciplinari - Contestazione disciplinare - Specificità dell’addebito - Finalità - Esercizio del diritto di difesa - Schema prestabilito di contestazione - Esclusione - Specificità dei fatti - Necessità - Fattispecie

In tema di sanzioni disciplinari a carico del lavoratore subordinato, il canone della specificità, nella contestazione dell'addebito, non richiede l'osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, come accade nella formulazione dell'accusa nel processo penale, assolvendo esclusivamente alla funzione di consentire al lavoratore incolpato di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa e tuttavia la contestazione dell'addebito deve avere per oggetto fatti specifici, attesa la funzione di garanzia a tutela del diritto di difesa del lavoratore cui è preordinata l'immutabilità' degli stessi fatti, anche ai fini del pieno svolgimento del contraddittorio.

Nota
La sentenza in commento trae spunto da una pronuncia della Corte d’Appello di Roma che aveva confermato la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva accertato che il licenziamento intimato a un dirigente dalla società sua datrice di lavoro era ingiustificato per genericità della contestazione disciplinare, condannando la società stessa al pagamento dell’indennità supplementare. In secondo luogo, la Corte d’Appello, al pari del giudice di primo grado, aveva negato la reintegrazione del lavoratore, sul rilievo che non vi fossero elementi per ritenere che la qualifica dirigenziale attribuitagli fosse fittizia.
Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione lamentando l’erronea attribuzione della qualifica dirigenziale e, conseguentemente, la violazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, insistendo per la reintegrazione nel posto di lavoro.
La società resisteva con controricorso e proponeva ricorso incidentale, con il quale insisteva per la giustificatezza del licenziamento.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso incidentale, richiamando un proprio orientamento secondo il quale il canone della specificità, nella contestazione dell’addebito, non richiede l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, come accade nella formulazione dell’accusa nel processo penale, assolvendo esclusivamente alla funzione di consentire al lavoratore incolpato di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa; tuttavia - afferma la Cassazione - la contestazione dell’addebito deve avere per oggetto fatti specifici, attesa la funzione di garanzia a tutela del diritto di difesa del lavoratore cui è preordinata l’immutabilità degli stessi fatti, anche ai fini del pieno svolgimento del contraddittorio.
La Cassazione ha rigettato, altresì, il ricorso principale affermando come la Corte di merito avesse correttamente accertato che la qualificazione professionale e il livello di responsabilità nel settore di pertinenza, in diretto rapporto con i vertici aziendali, giustificassero l’inquadramento dirigenziale attribuito al lavoratore, in adesione a quell’orientamento giurisprudenziale in base al quale tratto caratterizzante della esistenza di una qualifica dirigenziale è il collegamento diretto tra il dipendente ed il vertice dell’azienda. Secondo la Cassazione, tale valutazione della Corte d’Appello si pone in continuità con quella giurisprudenza secondo la quale la qualifica di dirigente non spetta al solo prestatore di lavoro che, come “alter ego” dell'imprenditore, ricopra un ruolo di vertice nell’organizzazione o, comunque, occupi una posizione tale da poter influenzare l’andamento aziendale, essendo invece sufficiente che il dipendente, per l’indubbia qualificazione professionale, nonché per l’ampia responsabilità in tale ambito demandata, operi con un corrispondente grado di autonomia e responsabilità, dovendosi, a tal fine, far riferimento, in considerazione della complessità della struttura dell’azienda, alla molteplicità delle dinamiche interne nonché alle diversità delle forme di estrinsecazione della funzione dirigenziale.

Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore di lavoro

Cass. Sez. Lav. 8 agosto 2017, n. 19709

Pres. Mammone; Rel. Riverso; P.M. Matera; Ric. I.N.A.I.L.; Controric. S.P.;

Infortunio sul lavoro – Azione di regresso dell’INAIL – Responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 – Principio della massima protezione tecnologicamente fattibile – Nozione.  

Il sistema di protezione della salute del lavoratore, ispirato al principio della massima protezione tecnologicamente fattibile di cui all’art.2087 c.c., non consente al datore di lavoro - qualora esista sul mercato un sistema di lavorazione atto a proteggere più efficacemente il lavoratore - di abbassare il livello di protezione mantenendo in essere sistemi obsoleti, comportanti un livello di protezione minore; e ciò, quand'anche si tratti di una nuova macchina la cui adozione incida sulle caratteristiche del prodotto e sulle preferenze di mercato.

Nota
Il Tribunale di Nuoro accoglieva l’azione di regresso dell’I.N.A.I.L. nei confronti del titolare di un’impresa individuale, specializzata nella produzione del torrone, condannando quest’ultimo al rimborso di quanto liquidato a favore di una sua dipendente in conseguenza di un infortunio sul lavoro. La lavoratrice, al suo primo giorno di lavoro, mentre tentava impulsivamente di recuperare una spatola che le era caduta nell’impastatrice alla quale era addetta, vi rimaneva impigliata con le mani fino a quando i colleghi non riuscirono a liberarla dopo aver azionato il pulsante di arresto.
La Corte d’Appello di Cagliari, in accoglimento dell’impugnazione promossa dal datore di lavoro, pur considerando provata la responsabilità datoriale per l’infortunio occorso alla lavoratrice, rigettava l’azione di regresso dell’Istituto assicuratore  affermando che non vi fosse prova dell’esistenza, sul piano civilistico, di alcun danno patrimoniale aggredibile in sede di regresso.
L’I.N.A.I.L. ricorreva in Cassazione; il datore resisteva con controricorso promuovendo altresì ricorso incidentale, al quale l’Istituto assicuratore resisteva con controricorso.
Il ricorrente principale lamentava violazione degli artt. 10 e 11 del d.p.r. n. 1124/1965, dell'art. 13 d.lgs. 38/2000, del d.m. 12/7/2000 del Ministero del Lavoro e della previdenza sociale; nonché falsa applicazione degli articoli 74-78 d.p.r. n. 1124/1965, nella parte in cui la Corte territoriale non aveva applicato la disciplina di cui al d.lgs 38/2000, nonostante l’infortunio fosse avvenuto nel luglio 2001.
La Suprema Corte ha accolto tale motivo di ricorso cassando con rinvio la sentenza impugnata, rilevando che l’infortunio rientrava ratione temporis nella disciplina del d.lgs. 38/2000, per espressa previsione dell’art. 13, comma 2 (a norma del quale: le disposizioni sul nuovo sistema di liquidazione che ha introdotto l'indennizzo del danno biologico riguardano «i danni conseguenti ad infortuni sul lavoro e a malattie professionali verificatisi o denunciati a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale di cui al comma 3» che è stato pubblicato nella G.U. del 25 luglio 2000). La Corte d'Appello ha errato a sostenere che rilevasse solo il danno patrimoniale, in quanto in base al citato art. 13, comma 2, per gli infortuni che danno luogo ad una menomazione di grado pari o superiore al 16%, l'INAIL è tenuto ad erogare una doppia rendita commisurata sia al danno biologico (nella misura indicata nell'apposita "tabella indennizzo danno biologico"); sia alle conseguenze patrimoniali dell'infortunio. Di conseguenza, nella determinazione del danno civilistico aggredibile in sede di regresso il giudice di rinvio dovrà tener conto anche del danno biologico.
Col primo motivo del ricorso incidentale, il datore di lavoro denunciava violazione e falsa applicazione degli artt. 69, 70 e 71 d.p.r. 547/1955, sostenendo che l’azione di regresso non potesse essere accolta in mancanza della colpa datoriale e che la stessa dovesse essere esclusa in ragione del fatto che la macchina torroniera (presso la quale si è verificato l’infortunio) non potesse essere segregata, né che esistesse sul mercato una macchina simile.
Sul punto, è utile dar preliminarmente conto dei fatti di causa, così come accertati dai giudici del merito e, in particolare, che la lavoratrice, al suo primo giorno di lavoro, non era stata vigilata da nessuno; che non aveva ricevuto alcuna istruzione; che il datore di lavoro non utilizzasse per produrre il torrone la macchina di più recente concezione, di cui si era pure dotato (contenente il pulsante di arresto in caso di emergenza, un coperchio grigliato provvisto di dispositivo di blocco automatico e un carter di protezione della cinghia di trasmissione, tutti strumenti che avrebbero consentito di evitare l’infortunio della lavoratrice) preferendo utilizzare il vecchio macchinario, poiché quello nuovo non consentiva di mantenere immutate le caratteristiche del prodotto artigianale.
La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato il ricorso incidentale ribadendo il principio di diritto secondo cui il sistema di protezione della salute del lavoratore, ispirato al principio della massima protezione tecnologicamente fattibile di cui all’art.2087 c.c., non consente al datore di lavoro, qualora esista sul mercato un sistema di lavorazione atto a proteggere più efficacemente il lavoratore, di abbassare il livello di protezione mantenendo in essere sistemi obsoleti, comportanti un livello di protezione minore; e ciò, quand'anche si tratti di una nuova macchina la cui adozione incida sulle caratteristiche del prodotto e sulle preferenze di mercato. Infatti, l'art. 41 Cost., nel riconoscere la libertà dell'iniziativa economica privata, ne assoggetta l'esercizio all'interno di un quadro di limiti e controlli, disponendo che non possa  “svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana”. Non può quindi ipotizzarsi un conflitto tra esercizio dell'impresa e diritto alla salute, posto che quest'ultimo, in quanto diritto fondamentale dell'individuo, risulta preminente rispetto all'esigenza di tipo prettamente economico; ed in caso di incompatibilità deve discenderne non tanto un obbligo di gestire il rischio esistente, ma un dovere di astensione dai comportamenti rischiosi e di adottare le più stringenti misure di protezione disponibili.

Elementi di validità della conciliazione in sede sindacale

Cass. Sez. Lav. 18 agosto 2017, n. 20201

Pres. Bronzini; Rel. Balestrieri; P.M. Matera; Ric. S.I. S.r.l.; Controric. D.L.A.;

Lavoro subordinato - Conciliazione in sede sindacale - Assistenza del lavoratore da parte del rappresentante sindacale - Necessità - Fattispecie.

Con riferimento alla conciliazione in sede sindacale ex art. 411, comma 3, c.p.c., al fine di verificare che l'accordo sia raggiunto con un'effettiva assistenza del lavoratore da parte di esponenti della propria organizzazione sindacale occorre valutare se, in base alle concrete modalità di espletamento della conciliazione, sia stata correttamente attuata quella funzione di supporto che la legge assegna al sindacato nella fattispecie conciliativa.

Nota
Il caso di specie riguarda una lavoratrice che aveva agito in giudizio chiedendo l’accertamento dell’illegittimità dei vari contratti a termine stipulati con la propria datrice di lavoro, previo annullamento del verbale di conciliazione stragiudiziale sottoscritto in sede sindacale con cui la lavoratrice stessa, in cambio di un nuovo contratto a termine, rinunciava espressamente a qualsiasi pretesa relativa o comunque connessa con l’attività lavorativa prestata alle dipendenze della società in forza dei precedenti contratti a termine.
La Corte d’Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza impugnata, dichiarava valida la transazione in questione, dichiarando quindi illegittimi solo i contratti a termine successivi.
Ricorreva per Cassazione la società, mentre la lavoratrice proponeva ricorso incidentale, deducendo l’erroneità della sentenza con riferimento alla ritenuta validità della transazione.
Nello specifico, la lavoratrice lamentava innanzitutto la mancata effettiva assistenza sindacale al momento della stipula della transazione, nonché la nullità della transazione stessa per avere ad oggetto diritti derivanti da norme imperative non ancora maturati e quindi irrinunciabili.
Con riferimento al primo punto, la Corte di Cassazione ha affermato che la sede sindacale stessa depone, anche a livello presuntivo, per l'esistenza di un’effettiva assistenza e dunque per una volontà non coartata del lavoratore; sul punto, la sentenza richiama una precedente pronuncia, secondo cui «con riferimento alla conciliazione in sede sindacale ex art. 411, terzo comma,  cod. proc. civ., al fine di verificare che l'accordo sia raggiunto con un'effettiva assistenza del lavoratore da parte di esponenti della propria organizzazione sindacale occorre valutare se, in base alle concrete modalità di espletamento della conciliazione, sia stata correttamente attuata quella funzione di supporto che la legge assegna al sindacato nella fattispecie conciliativa» (Cass. n. 4730/2002).
Ebbene, a detta della Corte, la lavoratrice non aveva dedotto al riguardo nulla di specifico e, del resto, la sentenza impugnata aveva comunque accertato che vi era un sindacalista che assisteva la lavoratrice.
Con riferimento al secondo punto, la Corte di Cassazione ha precisato che non è nulla la transazione avente ad oggetto diritti derivanti da norme inderogabili, ma solo quella che sia in contrasto con norme imperative inderogabili; in ogni caso, nella fattispecie, non si trattava di lesione di diritti inderogabili, non essendo tale quello di rinuncia al posto di lavoro.
Per tali motivi, la Corte di Cassazione ha concluso per il rigetto del ricorso incidentale proposto dalla lavoratrice.

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