Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa
Infortuni sul lavoro e responsabilità a carico del caposquadra
Risoluzione consensuale del rapporto di lavoro dirigenziale
Comunicazione di provvedimento disciplinare
Sull'inesistenza di un danno professionale in re ipsa

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 11 settembre 2017, n. 21062

Pres. Bronzini; Rel. Patti; Ric. M.G.; Controric. F.I.H. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Licenziamento per giusta causa - Valutazione circa la sussistenza della giusta causa - Rilevanza di tutte le circostanze oggettive e soggettive

La sussistenza in concreto di una giusta causa di licenziamento va accertata in relazione sia alla gravità dei fatti addebitati al lavoratore (desumibile dalla loro portata oggettiva e soggettiva, dalle circostanze nelle quali sono stati commessi nonché dall'intensità dell'elemento intenzionale), sia alla proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta: per la quale ultima, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Licenziamento per giusta causa - Fattispecie punita con sanzione conservativa dal CCNL - Vincolo per il giudice salvo possibilità della sanzione espulsiva per i casi più gravi

Qualora un determinato comportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, sia contemplato dal contratto collettivo come integrante una specifica infrazione disciplinare cui corrisponda una sanzione conservativa, non può formare oggetto di una autonoma e più grave valutazione da parte del giudice, salvo che non si accerti che le parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva

Nota

Il caso in esame, presumibilmente precedente all’introduzione della cd. riforma Fornero, riguarda il giudizio di proporzionalità tra licenziamento e contestazione disciplinare relativamente ad una fattispecie per la quale la contrattazione collettiva prevede espressamente una sanzione conservativa.

Nel caso che ci occupa al lavoratore veniva contestato di essersi assentato dal lavoro ingiustificatamente. Lo stesso, infatti, aveva fatto pervenire alla società datrice di lavoro, successivamente all’assenza, un certificato di malattia della figlia di anni due, giustificando l’assenza stessa con la necessità di accudire quest’ultima. Dalle foto riportate su alcuni quotidiani, però, era emerso che, nella medesima giornata di cui sopra, il lavoratore non fosse a casa per accudire la figlia ma che si era recato presso uno stabilimento della società per partecipare ad un referendum sindacale. 

La Corte d’Appello di Campobasso, ribaltando il giudizio di primo grado, rigettava la domanda d’illegittimità del licenziamento intimato. La Corte d’Appello, infatti, riteneva indubbia la sussistenza della giusta causa di licenziamento e la proporzionalità della sanzione al fatto. 

Il lavoratore impugnava per Cassazione la decisione della Corte d’Appello articolando vari motivi tra i quali, per quanto qui interessa, la violazione e falsa applicazione degli artt. 9 e 10 CCNL per difetto di proporzionalità della sanzione applicata, senza tenere conto della sanzione conservativa prevista dal CCNL per l’abbandono o l’assenza dal lavoro senza giustificazione. 

La Corte di Cassazione ha giudicato fondato tale motivo e cassato con rinvio la sentenza impugnata. 

La Suprema Corte ha, infatti, ribadito un suo costante orientamento secondo il quale «la sussistenza in concreto di una giusta causa di licenziamento va accertata in relazione sia alla gravità dei fatti addebitati al lavoratore (desumibile dalla loro portata oggettiva e soggettiva, dalle circostanze nelle quali sono stati commessi nonché dall'intensità dell'elemento intenzionale), sia alla proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta (…)». 

In aggiunta la Corte ha affermato che, sebbene il giudice non sia vincolato - in genere - dalle tipizzazioni di giusta causa operate dalla contrattazione collettiva, «qualora un determinato comportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, sia contemplato dal contratto collettivo come integrante una specifica infrazione disciplinare cui corrisponda una sanzione conservativa, non può formare oggetto di una autonoma e più grave valutazione da parte del giudice, salvo che non si accerti che le parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva».

Ebbene, al Corte di Cassazione ha ritenuto che la Corte d’Appello nell’effettuare il giudizio sulla proporzionalità della sanzione intimata non abbia tenuto fede ai principi di cui sopra, omettendo di valutare il fatto nella sua complessità, con specifico riferimento ad elementi oggettivi emersi dall’ampia istruttoria espletata (quali la durata dell’assenza di un solo giorno) o soggettivi (il fatto che il lavoratore si fosse recato al referendum sindacale solo nel pomeriggio, quando orami era troppo tardi per svolgere il turno assegnatogli e dopo aver ottenuto il certificato e le rassicurazioni del medico circa le condizioni non gravi della figlia). 

Secondo la Suprema Corte, dunque, tali circostanze costituiscono elementi costitutivi del fatto contestato e, come tali, devono essere oggetto della valutazione circa la gravità del fatto e la proporzione tra lo stesso e la sanzione. Per questo motivo la Suprema Corte ha rinviato alla Corte d’Appello affinché, alla luce e nel rispetto dei principi sopra enunciati, compari il fatto come risultante dalla valutazione di tutti i suoi elementi costitutivi con le sanzioni conservative previste dal CCNL per l’assenza ingiustificata.

 

Infortuni sul lavoro e responsabilità a carico del caposquadra

Cass. Sez. Lav. 3 agosto 2017, n. 19435  

Pres. Amoroso; Rel. De Gregorio; Ric. L.R.; Controric. T.I. S.p.A. nonché contro C.F. e altri;

Infortuni sul lavoro e malattie professionali - Infortunio - Danno provocato da più soggetti - Caposquadra - Preposto - Concorso di colpa - Responsabilità solidale - Sussistenza - Fondamento

In tema di infortuni sul lavoro, quando un danno di cui si chiede il risarcimento è determinato da più soggetti, ciascuno dei quali con la propria condotta contribuisce alla produzione dell'evento dannoso, si configura una responsabilità solidale ai sensi dell'art. 1294 cod. civ. fra tutti costoro, qualunque sia il titolo per il quale ciascuno di essi è chiamato a rispondere, dal momento che, sia in tema di responsabilità contrattuale che extracontrattuale, se un unico evento dannoso è ricollegabile eziologicamente a più persone, è sufficiente, ai fini della responsabilità solidale, che tutte le singole azioni od omissioni abbiano concorso in modo efficiente a produrlo, alla luce dei principi che regolano il nesso di causalità ed il concorso di più cause efficienti nella produzione dei danni (patrimoniali e non) da risarcire. 

Nota  

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte definisce i criteri d'imputazione della responsabilità a carico del caposquadra nella causazione di un infortunio occorso ad un apprendista. 

Nel caso di specie, un lavoratore minorenne, assunto con contratto di apprendistato, subiva un incidente mortale per folgorazione allorché stava eseguendo un allacciamento di impianto telefonico assieme ad un altro operaio provetto. 

Gli eredi proponevano ricorso, nell'ambito del giudizio in discorso, unicamente per l’accertamento della responsabilità del predetto operaio provetto nella verificazione del sinistro, chiedendo, conseguentemente, la condanna di quest’ultimo al risarcimento del danno. 

Entrambi i Giudici del merito accoglievano la domanda. Segnatamente, la Corte territoriale riteneva di non poter escludere il concorso di colpa, pur residuale (quantificata nella misura del 10%), dell’operaio provetto in quanto «di fatto, nell’occasione, fungeva da capo squadra, in quanto all’epoca egli era operaio qualificato con esperienza maturata fin dal 1970 nel settore della installazione e manutenzione di linee telefoniche anche in grandi imprese», essendogli, pertanto, affidata «la guida, la sorveglianza e la formazione» dell’apprendista minorenne. Né tale responsabilità – soggiungevano i Giudici del merito – poteva essere negata dal convenuto facendo valere il fatto di essere stato assunto con contratto a termine da poche settimane, trattandosi di aspetto giuridico irrilevante nella serie causale. D’altro canto, la Corte d’Appello negava qualsivoglia obbligo risarcitorio a carico del predetto operaio per aver abbandonato il luogo dell’infortunio, essendo stato dimostrato che egli aveva immediatamente chiamato i soccorsi e, solo dopo che erano sopraggiunte altre persone sul luogo dell’incidente ed era stato allertato il 118, si era allontanato sconvolto per avvertire il datore di lavoro dell’accaduto. 

Il lavoratore ritenuto responsabile proponeva ricorso per Cassazione, lamentando, tra il resto, di esser stato erroneamente ricompreso tra i soggetti preposti alla sicurezza, non avendo neppure ricevuto alcuna formale delega al riguardo e neppure formazione né addestramento per assumere tale responsabilità, contestando, pertanto, l’attribuzione della qualifica di «caposquadra di fatto», con conseguente inapplicabilità anche dell’art. 2055 cod. civ. Si doleva, altresì, che la folgorazione fosse dipesa dall’utilizzo da parte dell’infortunato di una scala telescopica estesa per tutta la sua lunghezza – nonostante i cavi oggetto dell’intervento fossero collocati più in basso – andando così ad urtare il cavo elettrico in tensione; sicché – concludeva – la dinamica del sinistro non aveva alcun collegamento logico-causale con il fatto che egli avesse maturato una lunga esperienza lavorativa nel settore dell’installazione e della manutenzione delle linee telefoniche, tenuto anche conto che la presenza di cavi elettrici al di sopra di quelli telefonici, da lui notata, non poteva non esser stata notata anche dall’apprendista. 

I Giudici di legittimità rigettano il ricorso, rammentando, anzitutto, che – come osservato dalla Corte territoriale – a prescindere da specifiche qualifiche o da formali incarichi nell’ambito delle procedure fissate dalla legislazione in materia di sicurezza, spettava all’operaio qualificato adottare tempestivamente almeno i minimi accorgimenti suggeriti dalla prudenza e dalla pratica acquisita, tanto più che quest’ultimo aveva ammesso di aver notato la vicinanza dei cavi elettrici al momento di mettersi al lavoro, sicché «l’esperienza posseduta e la consapevolezza di dover tutelare un ragazzo non ancora diciottenne dovevano quantomeno renderlo avvertito della situazione di pericolo data dalla pioggia e dall’umidità nell’avvicinarsi ad una linea elettrica». Ciò tenuto anche conto che la qualifica e la responsabilità di "preposto" - per giurisprudenza costante - non competono soltanto ai soggetti forniti di titoli professionali o di formali investiture, ma a chiunque si trovi in una posizione di supremazia, seppure embrionale, tale cioè da porlo in condizione di dirigere l’attività lavorativa di altri operai soggetti ai suoi ordini. 

La Cassazione osserva, poi, che le pur altrui accertate responsabilità non escludono, affatto, il nesso di causalità tra l’evento letale verificatosi e la condotta sostanzialmente omissiva, ma pur connotata da colposa imprudenza, osservata dal caposquadra di fatto, cui, in mancanza di altri soggetti, erano giocoforza affidate la guida, la sorveglianza e la formazione del minorenne. Ciò - rileva il Collegio - anche a mente del granitico principio per cui: «in tema di infortuni sul lavoro, quando un danno di cui si chiede il risarcimento è determinato da più soggetti, ciascuno dei quali con la propria condotta contribuisce alla produzione dell'evento dannoso, si configura una responsabilità solidale ai sensi dell'art. 1294 cod. civ. fra tutti costoro, qualunque sia il titolo per il quale ciascuno di essi è chiamato a rispondere, dal momento che, sia in tema di responsabilità contrattuale che extracontrattuale, se un unico evento dannoso è ricollegabile eziologicamente a più persone, è sufficiente, ai fini della responsabilità solidale, che tutte le singole azioni od omissioni abbiano concorso in modo efficiente a produrlo, alla luce dei principi che regolano il nesso di causalità ed il concorso di più cause efficienti nella produzione dei danni (patrimoniali e non) da risarcire». 

In definitiva – conclude la Corte di legittimità – tenuto conto di quanto complessivamente accertato in punto di fatto dai Giudici di merito, non è possibile escludere il nesso causale tra la condotta ascritta al ricorrente e l’infortunio occorso all’infradiciottenne, non essendo configurabile nella specie alcun rischio elettivo, sussistendo la responsabilità esclusiva del lavoratore soltanto ove questi abbia posto in essere un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento e creare condizioni di rischio estranee alle normali modalità del lavoro da svolgere. Sicché – argomenta la Cassazione - in assenza di tale contegno, l’eventuale coefficiente colposo del lavoratore nel determinare l’evento è irrilevante sia sotto il profilo causale che sotto quello dell’entità del risarcimento dovuto.

 

Risoluzione consensuale del rapporto di lavoro dirigenziale

Cass. Sez. Lav. 10 agosto 2017, n. 19974

Pres. Nobile; Rel. Negri Della Torre; P.M. Ceroni; Ric. N.V. Contr. T.I. S.p.A.;

Violenza morale - Accordo transattivo - Dirigente - Libera recedibilità - Annullamento - Esclusione

La minaccia di licenziamento per giusta causa si configura come la prospettazione di un male ingiusto solo ove si accerti l'inesistenza del diritto del datore di lavoro di procedere al licenziamento (ipotesi ritenuta inconfigurabile nel caso di specie in cui il lavoratore era un dirigente e, quindi, il rapporto di lavoro assoggettato al regime della libera recedibilità).

Nota

La Corte di appello di Roma, confermando la sentenza di primo grado, respingeva la domanda avanzata da un lavoratore diretta ad ottenere l'annullamento per violenza morale dell'accordo di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intercorso con la società convenuta. A sostegno della decisione, la Corte di appello rilevava che non vi era prova che la società avesse tratto un vantaggio economico dalla sottoscrizione dell'accordo, avendo corrisposto al lavoratore una somma maggiore di quella cui sarebbe stata tenuta in caso di recesso illegittimo; che, dovesse escludersi che il datore di lavoro avesse, con la minaccia del licenziamento, ottenuto un risultato non raggiungibile con il legittimo esercizio del diritto di recesso, considerato che il lavoratore era un dirigente e, dunque, il datore di lavoro avrebbe potuto liberamente recedere dal rapporto; infine, che le trattative, che avevano portato all'accordo, erano state condotte con l'assistenza degli avvocati. 

Avverso tale decisione, il dirigente propone ricorso per cassazione denunciando la violazione, tra gli altri, degli artt. 1175, 1375, 1435 e 1438 c.c., nella parte in cui la Corte di merito non aveva considerato che la minaccia di far valere un diritto, previsto dall'art. 1438 c.c., può essere causa di annullamento del contratto quando è diretta a conseguire "vantaggi ingiusti" intesi in un'accezione ampia, non solo economica. 

La Cassazione respinge il ricorso evidenziando che, come più volte precisato dalla sezione, in caso di violenza morale, quale vizio invalidante del consenso, i requisiti previsti dall'art. 1435 c.c., possono variamente atteggiarsi a seconda che la coazione si manifesti in modo esplicito o, al contrario, mediante un comportamento intimidatorio, ma il requisito indefettibile è che la minaccia sia stata diretta al fine di estorcere la dichiarazione e risulti - con accertamento demandato al giudice del fatto - di natura tale da incidere sulla libertà di autodeterminazione (cfr. Cass. 23 gennaio 2003, n. 999). Nel caso in esame, secondo la Cassazione, la Corte di appello aveva correttamente escluso la sussistenza di elementi a sostegno della dedotta violenza morale, tenuto conto, tra l'altro, che attraverso una comparazione degli importi, non era affatto emerso che la società, in caso di licenziamento, avrebbe erogato somme maggiori rispetto a quelle riconosciute in sede di risoluzione consensuale. Anche la dedotta minaccia di licenziamento è stata ritenuta infondata, considerato che in tema di annullamento dell'atto di dimissioni del lavoratore, la minaccia di licenziamento per giusta causa si configura come la prospettazione di un male ingiusto solo ove si accerti l'inesistenza del diritto del datore di lavoro di procedere al licenziamento. Ipotesi, di regola, inconfigurabile nel caso del dirigente il cui rapporto di lavoro rimane assoggettato al regime della libera recedibilità (cfr. Cass. 28 novembre 1998, n. 12127). 

Comunicazione di provvedimento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 13 settembre 2017, n. 21260

Pres. Macioce; Rel. Di Paolantonio; P.M. Celeste; Ric. S.M.; Controric. M.G. S.p.a;

Lavoro subordinato - Contratto collettivo - Interpretazione - Provvedimento disciplinare - Comunicazione - Termine per irrogare la sanzione - Consegna nel termine della lettera raccomandata all'ufficio postale - Sufficienza

Nel caso in cui il contratto collettivo imponga al datore di lavoro l’onere di comunicare la sanzione disciplinare, a pena di decadenza, entro un certo termine dalla data di ricezione delle giustificazioni fornite dal lavoratore, tale termine deve intendersi rispettato per il sol fatto che il datore abbia tempestivamente manifestato la volontà di irrogare la sanzione, a nulla rilevando che tale dichiarazione recettizia sia portata a conoscenza del lavoratore successivamente alla scadenza di quel termine.

Nota

La questione processuale trae spunto dall’eccezione di tardività della comunicazione disciplinare sollevata da un lavoratore e fondata su un’interpretazione rigorosa dell’art. 227 del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro per i Dipendenti da Aziende del Terziario, della Distribuzione e dei Servizi. Secondo la norma collettiva, infatti, «l’eventuale adozione del provvedimento discipinare dovrà essere comunicata al lavoratore con lettera raccomandata con avviso di ricevimento o altro mezzo idoneo a certificare la data di ricevimento, entro 15 giorni dalla scadenza del termine assegnato al lavoratore stesso per presentare le sue controdeduzioni». In effetti, il lavoratore aveva ricevuto la comunicazione oltre il 15° giorno e pertanto riteneva decaduto il datore di lavoro dall’esercizio del potere di irrogare la sanzione disciplinare.

La Corte d’Appello dell’Aquila confermava la pronuncia di primo grado che aveva rigettato la domanda proposta dal lavoratore. La Corte territoriale, conformemente al giudice di primo grado, aveva escluso che la sanzione espulsiva fosse stata adottata tardivamente, poiché la comunicazione contenuta nella lettera di licenziamento era stata comunque consegnata all’ufficio postale nel termine convenzionale di quindici giorni.

Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore. La società resisteva con controricorso.

In particolare, con il primo motivo di ricorso il lavoratore sosteneva che la Corte d’Appello avvesse erroneamente interpretato la disposizione del contratto collettivo, in quanto le parti contrattuali, nel prevedere il termine perentorio di quindici giorni per la comunicazione al lavoratore del provvedimento disciplinare, avevano inteso attribuire rilevanza al momento della conoscenza della sanzione da parte del lavoratore e, quindi, alla data di ricezione dell’atto. Ciò emergerebbe dalla particolare forma di comunicazione della sanzione («lettera raccomandata con avviso di ricevimento o altro mezzo idoneo a certificare la data di ricevimento») prevista dall’art. 227 del contratto collettivo nazionale applicato alla fattispecie.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

I giudici di legittimità hanno osservato che i giudici della Corte d’Appello avevano dato una corretta interpretazione dell’art. 227 citato, poiché il principio della scissione tra il momento in cui la volontà di recedere viene manifestata e quello in cui si producono gli effetti ricollegabili a tale volontà deve trovare applicazione tutte le volte in cui il momento dell’esternazione della volontà del datore di lavoro non coincida con quello della conoscenza da parte del destinatario. Inoltre, la Corte ha evidenziato che il verbo “comunicare” contenuto nell’art. 227 del contratto collettivo «descrive una relazione fra due soggetti e, quindi, evoca innanzitutto il momento della trasmissione ad altri della notizia o del pensiero, rispetto al quale la fase della ricezione si pone come logicamente e temporalmente successiva».

A detta della Corte ciò che rileva è, quindi, il momento in cui il datore di lavoro manifesta la propria volontà di irrogare la sanzione. Del resto, anche la particolare forma di comunicazione imposta dal contratto collettivo rende certo sia il momento della ricezione del provvedimento sanzionatorio, sia quello di spedizione dell’atto ed è coerente con il principio della scissione degli effetti.

Il ricorso è stato, pertanto, respinto.

Sull’inesistenza di un danno professionale in re ipsa

Cass. Sez. Lav. 4 agosto 2017, n. 19600

Pres. Bronzini; Rel. Pagetta; P.M. Matera; Ric. G.M.; Controric. A.P.S.A.P.D.M..

Risarcimento del danno - Danno da demansionamento - Automaticità - Esclusione - Onere di allegazione e prova specifica - Necessità

In caso di assegnazione a mansioni inferiori, il risarcimento del danno professionale non ricorre automaticamente e non può essere riconosciuto se non in presenza di adeguata allegazione di circostanze di fatto relative alle caratteristiche concrete del bagaglio professionale posseduto, alla possibilità di perdita o deterioramento dello stesso in conseguenza del mancato esercizio delle mansioni di originaria adibizione (id est: depauperamento e/o mancato accrescimento del bagaglio professionale), alle potenzialità occupazionali e di carriera in ipotesi pregiudicate dalla illegittima condotta datoriale (id est: perdita di chances).

Nota

La Suprema Corte torna a pronunciarsi in materia di risarcimento del danno e, principalmente, sugli oneri di allegazione incombenti sulla parte ricorrente in giudizio.

La Corte d’Appello di Trieste, a conferma della sentenza di primo grado, respingeva la domanda, proposta in giudizio da una lavoratrice, tesa all’accertamento dell’illegittimità del licenziamento per giusta causa (irrogatole per aver effettuato da apparecchio telefonico aziendale una notevolissima quantità di telefonate dirette ad utenze esterne all’ambito lavorativo) e, in parziale accoglimento della domanda relativa all’illegittimo demansionamento, condannava l’azienda convenuta al risarcimento del solo danno biologico, con esclusione del danno alla professionalità.

La Corte territoriale osservava, infatti, per quel che qui rileva, che correttamente il primo giudice aveva escluso il diritto a tale ristoro, sul rilievo, non adeguatamente contrastato nell’atto di appello, che la lavoratrice, in relazione all’accertato demansionamento, nulla aveva allegato in ordine al concreto pregiudizio sofferto, in termini di prospettive occupazionali o di carriera. 

Ricorreva in Cassazione la lavoratrice.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ribadendo, sulla scorta di precedenti pronunce (Cass. Sez. Un. 24/03/2006, n. 6572; Cass. 18/01/2017, n. 1178; Cass. 26/01/2015, n. 1327; Cass. 30/09/2009, n. 20980) che: a) il prestatore di lavoro che agisca in giudizio per la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno derivante dalla dequalificazione subita è tenuto ad indicare, in maniera specifica, il “tipo di danno” che assume di aver subito e a fornire la prova del pregiudizio da tale tipo di danno in concreto scaturito e del nesso di causalità con l’inadempimento (prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione del danno, anche eventualmente equitativa); b) con riferimento al danno alla professionalità, lo stesso può essere riconosciuto solo in presenza di “adeguata allegazione”. A titolo esemplificativo, la Corte di legittimità, esamina le diverse ipotesi che possono integrare la fattispecie del danno alla professionalità, ovvero: 1. il pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità (in tal caso, si dovrà specificare, ad esempio, nel corpo del ricorso, di svolgere un’attività soggetta ad una continua evoluzione, e, comunque, caratterizzata da vantaggi connessi all’esperienza professionale, destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio in un apprezzabile periodo di tempo; 2. il pregiudizio per perdita di chances, ossia di ulteriori possibilità di guadagno (in tale ipotesi, occorre la specificazione di quali aspettative, in ipotesi conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, sarebbero state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività).

Ha osservato, infine, la Suprema Corte che, se anche è legittimo pervenire all’accertamento del pregiudizio sofferto sulla base di un ragionamento presuntivo (v. Cass. 19/09/2014, n. 19778; Cass. 10/04/2010, n. 8893), questo non esclude, comunque, la necessità di specifica allegazione, da parte del lavoratore, degli elementi di fatto sui quali fondare la valutazione presuntiva, valendo il principio generale per cui il giudice – se può sopperire alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni ed anche alla esplicazione dei poteri istruttori ufficiosi previsti dall’art. 421 c.p.c. – non può, invece, mai sopperire all’onere di allegazione che concerne sia l’oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto su cui questa trova supporto (Cass. sez. Un. 03/02/1998, n. 1099).

Ebbene, la Suprema Corte ha osservato come correttamente la Corte di merito, in ossequio ai principi sopra esposti, abbia ritenuto non adeguatamente assolto l’onere di allegazione incombente su parte ricorrente, non essendo stata la deduzione della esistenza del danno professionale (del quale è stato chiesto ristoro) corredata da alcuna specifica indicazione di circostanze di fatto relative a: le caratteristiche concrete del bagaglio professionale della lavoratrice; la possibilità di perdita o deterioramento dello stesso (in conseguenza del mancato esercizio delle mansioni di originaria assegnazione); le potenzialità occupazionali e di carriera, che sarebbero state pregiudicate dalla illegittima condotta datoriale.

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