Contenzioso

Allattamento, il mancato calcolo dei rischi va provato

di Marina Castellaneta

Spetta alla lavoratrice dimostrare che le autorità nazionali non hanno valutato l’esposizione a rischi per l’allattamento durante l’attività lavorativa. Solo dopo questa fase scatta l’inversione dell’onere della prova a carico dei convenuti. È la Corte Ue a stabilirlo con la sentenza di ieri (C-531/15) che fornisce chiarimenti sulla direttiva 2006/54 relativa all’attuazione del principio delle pari opportunità in materia di occupazione e impiego e sulla 92/85 relativa all’attuazione di misure per il miglioramento di sicurezza e salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento.

Un’infermiera spagnola aveva chiesto all’ospedale pubblico, dopo la nascita di un bambino, una modifica delle condizioni di lavoro, ritenute troppo complesse anche sotto il profilo del ritmo del lavoro. La domanda era stata respinta perché le autorità competenti non avevano individuato alcun pericolo per l’allattamento. Non solo. L’Istituto nazionale della sicurezza sociale spagnolo aveva negato un contributo economico. La Corte superiore della Galizia ha chiesto un intervento degli eurogiudici.

Le direttive europee – osserva la Corte Ue – prevedono che la valutazione del rischio sia effettuata dopo un «esame sistematico di tutti gli aspetti dell’attività lavorativa». Questo vuol dire identificare i pericoli, come la presenza di agenti fisici e biologici, la categoria delle lavoratrici esposte ai rischi ed effettuare una valutazione qualitativa e quantitativa. Se datore di lavoro e autorità competente non valutano il rischio associato al posto di lavoro di una dipendente che si trova in periodo di allattamento si verifica una discriminazione fondata sul sesso, contraria alla direttiva 2006/54. Detto questo, tuttavia, spetta alla lavoratrice «che si ritenga lesa dall’inosservanza nei propri confronti del principio della parità di trattamento dimostrare» davanti agli organi nazionali in base a quali elementi di prova si può concludere nel senso di una discriminazione diretta o indiretta nei suoi confronti. Solo dopo questa dimostrazione scatta l’inversione dell’onere della prova con la controparte che è tenuta a provare l’assenza di una violazione del principio di non discriminazione.

La Causa C 531/15 della Corte Ue

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