Contenzioso

Il termine errato per fare opposizione indicato in cartella salva il contribuente

di Silvano Imbriaci

Il destinatario di una cartella di pagamento di contributi previdenziali è legittimato a fare affidamento sulle conoscenze trasmessegli mediante l'atto medesimo, e quindi incorre in errore scusabile nel caso in cui abbia proposto opposizione nel termine in esso indicato, ancorché non corrispondente al termine prescritto per legge.

L'erronea indicazione nella cartella di pagamento di un termine per proporre impugnazione, superiore rispetto al limite massimo indicato dalla legge, non rende dunque inammissibile l'opposizione a ruolo esattoriale depositata oltre la data massima, ma comunque entro quella indicata in cartella.

Così la sezione lavoro della Cassazione (ordinanza 25667 del 27 ottobre 2017) risolve una controversia tra l'ente previdenziale creditore e un contribuente che, tratto in errore dalla indicazione del termine di 60 giorni per proporre impugnazione contenuto nella cartella di pagamento che gli era stata comunicata, aveva proposto l'opposizione a ruolo secondo l’articolo 24 del Dlgs 46/1999 oltre il termine di 40 giorni indicato dalla norma (quando si vogliano contestare profili di merito), ma entro il termine di 60 giorni indicato (erroneamente) sull'atto.

In base alla disposizione dell'articolo 24, quinto comma, del Dlgs 46/1999, contro l'iscrizione a ruolo il contribuente può proporre opposizione al giudice del lavoro entro il termine di quaranta giorni dalla notifica della cartella di pagamento. Tale termine è sempre stato considerato perentorio dalla giurisprudenza (si veda ad esempio Cassazione 4506/2007), pur con qualche incertezza iniziale, essendo finalizzato a rendere incontestabile il credito in tempi rapidi e permettere una celere riscossione del credito stesso sulla base di un titolo certo.

E tale indicazione non è cambiata anche quando per i crediti Inps alla cartella di pagamento è stato preferito l'utilizzo di un autonomo avviso di addebito (dal 1° gennaio 2011 secondo il Dl 78/2010), formato direttamente dall'ente e da questi notificato, salvo poi affidarlo all'agente della riscossione per le fasi seguenti, essendo le norme di cui al Dlgs 46/1999 direttamente applicabili anche a questa fattispecie.

La questione affrontata dalla sezione lavoro si muove comunque su un piano più generale, che riguarda i rapporti tra le comunicazioni provenienti dalle autorità (giudiziarie e amministrative), dagli enti pubblici e dai soggetti che ad essi si riferiscono (come l'agente della riscossione) e l'affidamento ingenerato sul privato cittadino o sul contribuente cui queste comunicazioni sono destinate e giungono. Secondo la Cassazione, quando anche in un provvedimento giudiziale sia riportato erroneamente un termine per un adempimento superiore rispetto al termine massimo prescritto dalla legge, l'applicazione forzata di quest'ultimo renderebbe la norma evidentemente in contrasto con il diritto di difesa indicato dall'articolo 24 della Costituzione, scaricando sulla parte le conseguenze dell'errore di diritto commesso dal giudice (si veda Cassazione 10840/2017).

Sulla base di tale principio, in tutti i casi in cui il mancato rispetto di un termine perentorio per motivi che attengono a false informazioni contenute nell'atto da impugnare, accompagnato dal rispetto delle suddette indicazioni, sia suscettibile di provocare un danno processuale e sostanziale all'interessato, deve prevalere l'esigenza di tutela del diritto di difesa, con l'inapplicabilità di decadenze e preclusioni a danno della parte. Tale impostazione è stata spesso evidenziata nell'ambito delle sanzioni amministrative, laddove i termini per il ricorso al giudice dell'ordinanza ingiunzione, chiaramente perentori, laddove non siano indicati nell'atto oppure siano indicati in modo erroneo non consentono di applicare alla parte le conseguenze negative della impugnazione oggettivamente tardiva (Cassazione 21001/2004).

Oltre che ad una naturale tutela dell'affidamento del contribuente, tale principio risponde anche ad un'esigenza di buona amministrazione. La cartella di pagamento (così come l'avviso di addebito) costituisce un atto amministrativo e deve rispondere ai requisiti di chiarezza e congruità degli atti in generale: l'errore di diritto commesso dall'amministrazione che abbia ingenerato un errore in capo al destinatario della cartella non può costituire fonte di danno per chi ha interesse a contestare la pretesa creditoria, che dunque, provata la sua corretta adesione alle indicazioni contenute nell'atto, non potrà vedersi dichiarata inammissibile la contestazione. Naturalmente occorre che l'errore ingenerato, oltre che determinante, sia scusabile, in quanto non può ritenersi che un errore grossolano e chiaramente tale contenuto nell'atto possa comunque ingenerare quell'affidamento che il principio seguito dalla sentenza in commento intende proteggere.

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