Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Procedimento disciplinare e obblighi del datore
Licenziamento per giusta causa/1
Licenziamento per giusta causa/2
Licenziamento per giusta causa/3

Procedimento disciplinare e obblighi del datore

Cass. Sez. Lav. 6 ottobre2017, n. 23408

Pres. Napoletano; Rel. De Gregorio; P.M. Mastroberardino; Ric.C.D.Contr.I. s.r.l.;

Procedimento disciplinare - Art. 7, l. n. 300/70 - Obbligo per il datore di lavoro di fornire la documentazione su cui si fonda la contestazione - Insussistenza - Richiesta espressa della documentazione da parte del lavoratore -Esercizio diritto di difesa -Necessità

 

Ai sensi dell'art. 7, l. n. 300/70, nell'ambito del procedimento disciplinare, non è previsto alcun obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore, la documentazione relativa ai fatti contestati, rimanendo salva per il lavoratore la possibilità, nel corso del giudizio, di ottenere l'ordine di esibizione della documentazione stessa. Qualora, però, il lavoratore incolpato ne faccia espressa richiesta, il datore di lavoro, in base ai princìpi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, è tenuto ad offrire in consultazione i documenti aziendali, laddove l'esame degli stessi sia necessario per predisporre un'adeguata difesa.

Nota

La Corte di appello di Milano, confermando la decisione di primo grado, aveva rigettato la domanda avanzata da un lavoratore tesa ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli per l'attività di concorrenza sleale posta in essere dal dipendente insieme alla moglie.A parere della Corte di merito, diversamente da quanto sostenuto dal lavoratore, la contestazione disciplinare doveva ritenersi adeguatamente specifica, in quanto le condotte contestate risultavano tutte menzionate, con indicazione dei prodotti che ne costituivano l'oggetto; elementi,questi,che consentivano al dipendente l'esercizio del diritto di difesa. Al contrario, non poteva attribuirsi rilevanza alla mancata esibizione, da parte della società, della documentazione sulla cui base tali condotte erano state accertate. Invero, l'onere di specifica contestazione di addebiti, se da un lato impone al datore di lavoro di esporre in maniera dettagliata i fatti oggetto del procedimento disciplinare, per altro verso, non lo obbliga alla esibizione degli elementi di prova degli stessi.Per quanto atteneva al merito della contestazione, secondo la Corte di appello era risultata dimostrata l'attività di concorrenza sleale, in primo luogo data la parziale coincidenza dell'oggetto sociale della società datrice di lavoro con quello della ditta di cui era titolare la moglie e per la quale era risultato che il ricorrente avesse attivamente operato durante il rapporto di lavoro. Inoltre, dalle risultanze istruttorie era emerso che il lavoratore aveva esercitato un'attività di commercializzazione parallela di prodotti della datrice di lavoro a prezzi inferiori, utilizzando la stessa rete di agenti che egli coordinava quale dipendente della società.

Il lavoratore propone ricorso per cassazione denunciando, tra gli altri, la violazione dell'art. 7, l. n. 300/1970,tenuto conto che il datore di lavoro solo in sede di giudizio aveva prodotto le e-mail sulle quali si fondava la contestata concorrenza sleale, senza metterle a disposizione del lavoratore in sede di audizione nel corso del procedimento disciplinare. 

La Cassazione respinge il ricorso, rilevando che, come affermato dalla giurisprudenza della sezione, l'art. 7 cit. non prevede, nell'ambito del procedimento disciplinare, l'obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore, la documentazione relativa ai fatti contestati, rimanendo salva per il lavoratore la possibilità, nel corso del giudizio, di ottenere l'ordine di esibizione della documentazione stessa (Cass. 18 novembre 2010, n. 23304; Cass. 30 agosto, 2007, n. 18288).Con l'ulteriore precisazione che, il datore di lavoro, in base ai princìpi di buona fede e correttezza nell'esecuzione del contratto, è però tenuto ad offrire in consultazione i documenti aziendali all'incolpato che ne faccia richiesta, laddove l'esame degli stessi sia necessario per predisporre un'adeguata difesa (Cass. 13 marzo 2013, n. 6337).

Nel caso di specie, rileva la Suprema Corte, non risultava che il ricorrente avesseformulato espressa e tempestiva richiesta della documentazione in oggetto nel corso del procedimento disciplinare, anzi dall'esame degli atti emergeva che in sede di audizione personale il lavoratore era stato edotto delle fonti di accusa a suo carico, senza che vi fossestata alcuna specifica contestazione in merito.


Licenziamento per giusta causa/1

Cass. Sez. Lav. 10 ottobre 2017, n. 23694

Pres.Macioce; Rel. Torrice; P.M. Celeste; Ric. M.D.; Controric.C. S.p.A.; 

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento per giusta causa -Elemento soggettivo-Dolo o intenzionalità della condotta - Necessità - Esclusione - Colpa - Sufficienza - Condizioni - Fattispecie

Al fine di ritenere integrata la giusta causa di licenziamento, non è necessario che l’elemento soggettivo della condotta del lavoratore si presenti come intenzionale o doloso, nelle sue possibili e diverse articolazioni, posto che anche un comportamento di natura colposa, per le caratteristiche proprie e nel convergere degli altri indici della fattispecie, può risultare idoneo a determinare una lesione del vincolo fiduciario così grave ed irrimediabile da non consentire l’ulteriore prosecuzione del rapporto.

Nota

La Corte d’Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore che, pur consapevole del fatto che, in caso di comparsa di “alert”, il visto di conformità delle pratiche di finanziamento dovesse essere apposto solo all’esito dei controlli, aveva falsamente dichiarato di aver effettuato i predetti controlli, apponendo la propria sigla sulle pratiche, così consentendo la prosecuzione dell’iter per il finanziamento. 

In particolare, la Corte territoriale ha ritenuto che il lavoratore, avuto riguardo alla delicatezza delle funzioni affidategli, connotate dall’elemento della fiducia e dall’assunzione di specifiche responsabilità, avesse con la propria condotta violato i principi di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. e avesse quindi irreparabilmente leso il vincolo fiduciario necessario alla prosecuzione del rapporto di lavoro.

Il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia. 

Il ricorrente sostiene infatti che la gravità dei fatti contestatigli sarebbe sminuita dall’esiguità del numero di pratiche trattate in modo non conforme alle prescritte procedure di evasione e dall’esistenza di un obbligo di rispettare il tetto di venti minuti per la trattazione di ciascuna posizione. Il lavoratore deduce, inoltre, che la negligenza è propria delle condotte colpose e non di quelle dolose. 

La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso.

La Corte ha anzitutto ricordato che è possibile configurare un vizio di sussunzione del fatto addebitato nell’archetipo legale della giusta causa solo quando la combinazione che il giudice del merito ha dato dei dati fattuali e del loro peso non permetta di ricondurre gli addebiti disciplinari alla nozione legale di giusta causa di licenziamento. 

Inoltre, la valutazione della ricorrenza della giusta causa così come il giudizio di proporzionalità della sanzione espulsiva devono necessariamente tenere conto degli aspetti concreti del rapporto dedotto in giudizio. Essi devono quindi essere valutati avendo presente la natura, l’utilità del singolo rapporto lavorativo, la posizione delle parti, il grado di affidamento, l’eventuale nocumento arrecato, i motivi, l’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo.

La Corte ha poi escluso che la giusta causa di licenziamento possa, come sostenuto dal ricorrente, ritenersi integrata solo nel caso in cui la condotta sia intenzionale o dolosa. Ed infatti, a detta della Corte, anche un comportamento di natura colposa può risultareidoneo a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario che lega datore di lavoro e dipendente oltre che per le sue caratteristiche, anche per il convergere degli altri indici della fattispecie.

La Corte ha quindi confermato la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Roma, poiché ai fini del proprio convincimento, ha tenuto in debita considerazione gli aspetti concreti del rapporto lavorativo dedotto in giudizio (quali, ad esempio, l’intenzionalità e volontarietà della condotta tenuta dal lavoratore, il mancato rispetto dell’obbligo di adottare le cautele necessarie a una gestione professionale dell’incarico assegnato, l’incidenza concreta della condotta addebitata sul vincolo fiduciario, l’irrilevanza del numero esiguo di pratiche non correttamente trattate). 

Licenziamento per giusta causa/2

Cass. Sez. Lav. 6 ottobre 2017, n. 23409

Pres. Napoletano; Rel. De Gregorio; P.M. Mastroberardino; Ric. M.F.; Intimata C.I.V.I.S. S.p.A..

Licenziamento per giusta causa - Giudizio di proporzionalità - Assenza e/o tenuità del danno - Irrilevanza

In caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione non già l’assenza o la speciale tenuità del danno patrimoniale, ma la ripercussione sul rapporto di lavoro di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del dipendente rispetto agli obblighi assunti. 

Nota

La Corte d’Appello di Venezia, a conferma della sentenza di primo grado, dichiarava legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad una guardia particolare giurata, addetta alla vigilanza “fissa” presso un istituto universitario, per abbandono ingiustificato del posto di lavoro. Nella specie, il lavoratore non era stato trovato presso la guardiola all’ingresso della struttura, laddove poi vi ritornava dopo circa 15 minuti, dall’esterno, con un giornale in mano.

La Corte di merito osservava che l’abbandono del posto di lavoro risultava provato sia per ammissione del fatto da parte del vigilante innanzi all’ispettore intervenuto sul posto di lavoro, sia per le concordi testimonianze acquisite, dalle quali era emerso pacificamente che il lavoratore aveva l’obbligo di non uscire all’esterno della struttura, cui era stato assegnato, circostanza da lui conosciuta. La Corte territoriale respingeva, poi, le altre doglianze mosse dall’appellante, in particolare con riguardo alla pretesa erroneità della decisione impugnata in ordine alla sussistenza delle cinque contestate recidive - riguardanti episodi di negligente svolgimento del servizio - e, quindi, in relazione alla ritenuta proporzionalità del recesso rispetto all’incolpazione.

Avverso la predetta sentenza, il lavoratore proponeva ricorso per cassazione, contestando, sotto vari profili, la sentenza di merito.

La Corte di legittimità ha rigettato il ricorso, rilevando in primis come non sia possibile eludere ciò che in punto di fatto è stato accertato sia dal Giudice di primo grado sia dalla Corte di merito (cd. “doppia conforme” ex art. 348-ter c.p.c.), con riferimento tanto alla sussistenza del fatto contestato (id est: abbandono del posto di lavoro da parte di un vigilante per l’acquisto di un giornale), quanto alle cinque recidive contestate. Inoltre, la Suprema Corte ha ritenuto la sentenza gravata immune da censure anche sotto il profilo del giudizio di proporzionalità, per essere la condotta contestata assolutamente grave, trattandosi dell’ingiustificato abbandono del posto di lavoro da parte di un addetto alla vigilanza, tenuto invece a presidiarlo assiduamente e con a suo carico già diversi precedenti disciplinari, donde l’inaffidabilità, sotto il profilo fiduciario, dell’incolpato.

Infine la Corte di Cassazione ha affermato l’assoluta irrilevanza, oltre che infondatezza, della doglianza, pure sollevata dal lavoratore ricorrente, circa l’ assenza di un danno arrecato all’azienda, e ciò in applicazione del principio costantemente affermato in giurisprudenza (Cass. 18/09/2014, n. 19684; Cass. 19/08/2004, n. 16260) secondo cui, ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione non già l’assenza o la speciale tenuità del danno patrimoniale, ma la ripercussione sul rapporto di lavoro di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del dipendente rispetto agli obblighi assunti. 

Licenziamento per giusta causa/3

Cass. Sez. Lav. 12 ottobre 2017, n. 24014

Pres. Napoletano; Rel. Torrice; Ric. A.R.; Controric. S.S.C. S.r.l.;

Lavoro subordinato - Licenziamento disciplinare -Giusta causa -Sottrazione di beni aziendali- Modesto valore dei beni sottratti - Irrilevanza - Valutazione circa l’influenza della sottrazione sulla persistenza rapporto fiduciario - Necessità

In relazione ad una contestazione di "asportazione di beni" dell'azienda, la modesta entità del fatto può essere considerata non tanto con riferimento alla tenuità del danno patrimoniale quanto in relazione all'eventuale tenuità del fatto oggettivo, sotto il profilo del valore sintomatico che lo stesso può assumere rispetto ai futuri comportamenti del lavoratore e, quindi, alla fiducia che nello stesso può nutrire l'azienda, essendo necessario al riguardo che i fatti addebitati rivestano il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro e, specialmente, dell'elemento essenziale della fiducia, cosicché la condotta del dipendente sia idonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento.

Nota

Nel caso in esame la Corte d’Appello di Napoli confermava la decisione del Tribunale con la quale era stata respinta la domanda, proposta dal lavoratore, di dichiarare l’illegittimità del licenziamento intimatogli.

Il lavoratore era stato licenziato per giusta causa dopo che era stato trovato in possesso, grazie all’allarme antitaccheggio del supermercato in cui lavorava quale addetto al rifornimento scaffali, di confezioni di gomme e caramelle sottratte al supermercato per un valore complessivo di Euro 9,80.

Il Tribunale e la Corte di Appello avevano ritenuto che il valore esiguo dei beni sottratti non fosse sufficiente a escludere la sussistenza della giusta causa di recesso, avuto riguardo all’organizzazione del lavoro e alle mansioni del lavoratore: da una parte, infatti, le merci del supermercato dovevano necessariamente essere esposte per la vendita, dall’altra il lavoratore era addetto - come visto - al rifornimento scaffali e, in precedenza, era stato anche addetto alla sicurezza del supermercato stesso.

Veniva poi respinta la tesi per cui il lavoratore potesse essere stato “incastrato”, essendo state le gomme e le caramelle in questione rinvenute non solo nel giacchetto, lasciato incustodito, ma anche nelle tasche dei pantaloni, mentre l’intenzionalità della condotta veniva dedotta dal fatto che l’allarme era suonato poiché erano stati apposti sui beni sottratti, all’insaputa anche del personale del supermercato, dei dispositivi adesivi antitaccheggio non visibili.

Contro la decisione della Corte d’Appello ricorreva in Cassazione il lavoratore sostenendo, per quanto qui interessa, che il valore esiguo dei beni sottratti non giustificava la sanzione del licenziamento per giusta causa.

La Suprema Corte ha ritenuto tale doglianza infondata e rigettato il ricorso.

Secondo la Cassazione, infatti, in una fattispecie di sottrazione di beni aziendali come quella in esame, la tenuità o gravità del fatto contestato non va valutata in relazione al valore patrimoniale dei beni stessi bensì « in relazione all'eventuale tenuità del fatto oggettivo, sotto il profilo del valore sintomatico che lo stesso può assumere rispetto ai futuri comportamenti del lavoratore e, quindi, alla fiducia che nello stesso può nutrire l'azienda, essendo necessario al riguardo che i fatti addebitati rivestano il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro e, specialmente, dell'elemento essenziale della fiducia, cosicché la condotta del dipendente sia idonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento.».

Sempre secondo la Suprema Corte, la Corte d’Appello avrebbe fatto corretta applicazione di tali principi nel suo provvedimento avendo valutato la peculiarità dell’organizzazione aziendale (con merci esposte al pubblico) e le mansioni del ricorrente (addetto al rifornimento scaffali). In aggiunta, la Corte territoriale aveva valutato la natura fraudolenta e premeditata della condotta, desunta dal fatto che il lavoratore, non sapendo che fossero stati apposti in precedenza dei dispositivi antitaccheggio non visibili sui beni sottratti, era convinto che non sarebbe stato scoperto.

Proprio in ragione di quanto sopra la condotta del lavoratore ha determinato il venir meno dell’elemento fiduciario e ha legittimato il licenziamento per giusta causa, nonostante la tenuità del danno patrimoniale provocato e la mancanza di precedenti disciplinari.

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