Contenzioso

Rassegna della Cassazione

di Elio Cherubini, Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

La malattia provocata da causa di servizio non implica responsabilità del datore
Licenziamento per giusta causa e immediatezza della contestazione
Licenziamento disciplinare e recidiva
Licenziamento disciplinare e tutela ex art. 18 St. Lav.
Dichiarazione del lavoratore inviata al proprio difensore e rinuncia all'impugnazione del licenziamento

La malattia provocata da causa di servizio non implica responsabilità del datore

Cass. Sez. Lav. 24 ottobre 2017, n. 25151

Pres. Napoletano; Rel. Garri; P.M. Matera; Ric. V.B.; Controricorrenti E.S. s.r.l. e I.A. S.p.A..

Risarcimento del danno - Natura usurante della prestazione - Violazione dell’art. 2087 c.c. - Esclusione - Riconoscimento della “causa di servizio” - Irrilevanza

La riconosciuta dipendenza della malattia da una causa di servizio non implica necessariamente, né può far presumere, che l’evento dannoso sia derivato dalle condizioni di insicurezza dell’ambiente di lavoro, essendo ben possibile che la patologia accertata debba essere collegata alla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa ed al logoramento dell’organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo. In tale ultimo caso, si è fuori dall’ambito dell’art. 2087 c.c., il quale riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici.  

Nota

La Suprema Corte è tornata a pronunciarsi in materia di responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c. e lo ha fatto con riferimento al caso di un lavoratore addetto alle teletrasmissioni che, dopo aver subito un infarto, per il quale è stata accertata, con sentenza passata in giudicato, la dipendenza dello stesso da causa di servizio (con conseguente riconoscimento in suo favore della pensione privilegiata), ha poi promosso un’azione di risarcimento danni nei confronti del datore di lavoro.
Ebbene, la Corte d’Appello di Palermo, a conferma della sentenza di primo grado, ha rigettato l’appello proposto dal lavoratore, escludendo, che l’infarto patito da quest’ultimo fosse da ricollegare alla nocività dell’ambiente di lavoro, attesa l’intrinseca natura usurante della prestazione resa, prevedendo la stessa, oltre a spostamenti in auto, la necessità di operare all’esterno, in qualsiasi condizione climatica e su territori impervi, per svolgere gli interventi tecnici richiesti. La Corte territoriale ha, altresì, affermato l’assoluta irrilevanza della sentenza che aveva riconosciuto la dipendenza da causa di servizio della patologia cardiologica da cui il medesimo lavoratore era affetto, e ciò in ragione del fatto che la responsabilità ex art. 2087 c.c. non è una “responsabilità oggettiva” ma una “responsabilità contrattuale”, che richiede l’allegazione (prima) e la prova (dopo), da parte del lavoratore, non solo del danno alla salute subito ma anche della violazione degli obblighi di sicurezza incombenti sul datore di lavoro ed, infine, del nesso causale tra l’uno e l’altra.
Inoltre, il giudice di secondo grado ha ritenuto che le generiche allegazioni, circa il presunto inadempimento datoriale, erano rimaste comunque indimostrate. Oltretutto - ha osservato la Corte di merito - l’installazione di condizionatori sulle autovetture non costituisce condotta esigibile sotto il profilo della sicurezza della prestazione, essendo la stessa semmai funzionale solamente ad un maggiore confort degli spostamenti nei periodi estivi.
Avverso la predetta sentenza, il lavoratore proponeva ricorso per cassazione, contestando, sia con riguardo alla violazione dell’art. 2087 c.c. sia con riferimento a presunte carenze nell’acquisizione del materiale probatorio, la sentenza di merito.
La Corte di legittimità ha rigettato il ricorso, sulla scorta dei seguenti, ormai consolidati, principi: a) ai sensi dell’art. 2087 c.c. la responsabilità del datore di lavoro deve essere collegata alla violazione di obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento ed incombe sul lavoratore, che lamenti di aver subito un danno alla salute, l’onere di provare oltre all’esistenza di tale danno anche la nocività dell’ambiente di lavoro ed il nesso causale tra l’uno e l’altro (Cass. 05/08/2013, n. 18626 e Cass. 03/08/2012, n. 13956); b) la riconosciuta dipendenza della malattia da una “causa di servizio” non implica necessariamente, né può far presumere, una responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c., la quale ultima presuppone l’accertamento di un inadempimento da parte del datore di lavoro (v. Cass. 29/01/2013, n. 2038).
Ebbene, la Suprema Corte ha osservato come la Corte di merito - nell’escludere, con accertamento in fatto incensurabile in Cassazione, l’esistenza di una condotta colposa riferibile al datore di lavoro, in ragione del carattere intrinsecamente usurante dell’attività svolta dal lavoratore, e nell’affermare la non decisività, ai fini dell’accertamento di una responsabilità ex art. 2087 c.c. in capo al datore di lavoro, dell’avvenuto riconoscimento della causa di servizio - abbia fatto corretta applicazione dei suddetti principi. 


Licenziamento per giusta causa e immediatezza della contestazione

Cass. Sez. Lav. 10 ottobre 2017, n. 23699

Pres. Macioce; Rel. Torrice; P.M. Celeste; Ric. A. F.; Controric. BNL S.p.A.;

Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento per giusta causa - Immediatezza della contestazione e della tempestività della sanzione - Carattere relativo - Proporzionalità della sanzione - Sussistenza

In tema di licenziamento per giusta causa, l'immediatezza della comunicazione del provvedimento espulsivo rispetto al momento della mancanza addotta a sua giustificazione, ovvero rispetto a quello della contestazione, si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave (o comunque non meritevole della massima sanzione) la colpa del lavoratore; peraltro, il requisito della immediatezza deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustifichi o meno il ritardo.
In caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante, a tal fine, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio orientamento ai canoni di buona fede e correttezza. Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto. 

Nota

La Corte d’Appello di Bologna, confermando la sentenza di primo grado resa dal Tribunale di Modena, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore (dipendente di un istituto di credito) per le plurime condotte di appropriazione indebita da questi realizzate allorché, addebitando spese su conti correnti di clienti dell’istituto bancario intestatari di prestiti personali, ha riaccreditato tali somme sul proprio conto personale o su un conto intestato ad un collega.
La Corte territoriale ha ritenuto che la complessità dell’indagine, così come la verifica delle operazioni bancarie sospette, giustificasse una contestazione disciplinare effettuata a distanza di mesi dalle infrazioni commesse dal lavoratore.
Il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, tra l’altro deducendo la tardività della contestazione. 
La Suprema Corte ha ritenuto infondato il suddetto motivo e, richiamando numerosi precedenti giurisprudenziali (Cass. n. 15649/2010, Cass. n. 9102/2015, Cass. n. 20719/2013), ha ricordato che il requisito dell’immediatezza della contestazione disciplinare va interpretato con ragionevole elasticità, avendo riguardo anche al comportamento tenuto dal datore di lavoro. Nel caso in esame, l’istituto bancario aveva immediatamente avviato l’istruttoria interna non appena erano emerse le irregolarità delle operazioni bancarie e, solo a seguito di una complessa e articolata indagine, era stato possibile giungere all’accertamento delle irregolarità compiute dal dipendente e formulare nei confronti dello stesso la relativa contestazione disciplinare. La Corte ha quindi disatteso l’eccezione di tardività della contestazione disciplinare sollevata dal lavoratore in ragione della complessità dell’indagine effettuata dal datore di lavoro.
La Corte di Cassazione ha altresì ritenuto infondato l’ulteriore motivo di ricorso, con il quale il lavoratore aveva censurato la sentenza resa dalla Corte d’Appello per avere la stessa ritenuto irrilevanti, ai fini della valutazione del permanere del vincolo fiduciario tra datore di lavoro e dipendente, le promozioni ottenute due mesi prima della contestazione disciplinare dal lavoratore.
La Suprema Corte, condividendo le conclusioni cui era già giunta la sentenza appellata, ha infatti ritenuto che il fatto contestato abbia arrecato un grave vulnus al vincolo fiduciario tanto dal punto di vista oggettivo (illiceità del comportamento di appropriazione indebita), quanto dal punto di vista soggettivo (mansione di cassiere svolta dal dipendente).
Ed infatti, il comportamento tenuto in concreto dal lavoratore, valutato anche in relazione al contesto di riferimento, è risultato idoneo a ledere il vincolo fiduciario con il datore di lavoro, rendendo impossibile la prosecuzione del rapporto di lavoro.


Licenziamento disciplinare e recidiva

Cass. Sez. Lav. 24 ottobre 2017, n. 25143

Pres. Bronzini; Rel. Cinque; P.M. Sanlorenzo; Ric. Z.P. e G.R. Controric. T.s.p.a.;

Licenziamento disciplinare - Recidiva - Insussistenza - Conseguenze del licenziamento - Legittimo se il fatto contestato ha irrimediabilmente leso il vincolo fiduciario

Qualora la condotta contestata al lavoratore sia di gravità tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, deve ritenersi legittimo il licenziamento intimato anche nell'ipotesi in cui si riveli insussistente la recidiva contestata.

Licenziamento disciplinare - Pluralità di condotte contestate - Necessità di valutazione complessiva - Insussistenza - Valutazione di singole condotte - Ammissibilità

In tema di licenziamento per giusta causa, qualora al lavoratore vengano contestati una serie di episodi rilevanti sul piano disciplinare, non è necessario che la giusta causa - idonea a non consentire la prosecuzione del rapporto - sia ravvisabile esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti, ben potendo il giudice individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che giustifichi l'adozione della sanzione espulsiva, quando lo stesso presenti il carattere del grave inadempimento richiesto dall'art. 2119 c.c.

Nota

Nel caso sottoposto all'esame della Suprema Corte, il Tribunale del lavoro di Roma respingeva la domanda avanzata da due lavoratori tesa ad ottenere la declaratoria di illegittimità dei recessi con preavviso, intimatigli dal datore di lavoro ex artt. 2118 c.c. e 58 CCNL settore attività ferroviarie. Ai due dipendenti era stato contestato che, a seguito di controlli effettuati sulle trasferte, era emerso che in almeno quattro occasioni gli stessi avevano fatto risultare un periodo di trasferta più lungo rispetto a quello effettivo. Inoltre, agli stessi era stata contestata la recidiva rispetto ad analoghe infrazioni sanzionate nel corso dell'ultimo anno.
La Corte di appello confermava la decisione di primo grado, rilevando che dalle risultanze istruttorie era effettivamente emerso il fraudolento prolungamento dell'attività come dedotto dalla società e il licenziamento doveva ritenersi legittimo, pur se la contestata recidiva era insussistente, in quanto la gravità dei fatti era tale da integrare, ex se, la giusta causa.
Avverso tale statuizione i lavoratori propongono ricorso per Cassazione denunciando, con il primo motivo, la erroneità della sentenza di appello nella parte in cui non aveva considerato che l'art. 58 del CCNL richiamato dal datore di lavoro, richiedeva, quale elemento costitutivo, la recidiva infrannuale, nel caso di specie, ritenuta insussistente. Inoltre, con il secondo motivo, si denunciava la violazione dell'art. 2118 c.c., poiché il giudice di appello aveva posto l'accento sulla gravità dei "singoli fatti contestati" anziché sulla recidiva espressamente richiamata.
La Cassazione respinge il ricorso, evidenziando come i giudici di merito avessero ritenuto sussistente la gravità del comportamento tenuto dai dipendenti, idoneo a ledere il vincolo fiduciario, a prescindere dalla contestata recidiva che non rappresentava il presupposto fondante dell'addebito.
Inoltre, in tema di licenziamento per giusta causa, qualora al dipendente vengano contestati diversi episodi, non è necessario che la giusta causa debba essere ravvisata esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti, ben potendo il giudice - nell'ambito degli addebiti posti a fondamento del licenziamento - individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che giustifichi la sanzione espulsiva, se lo stesso presenta i caratteri del grave inadempimento ex art. 2119 c.c. (cfr. Cass. 31 ottobre 2013, n. 24574).
A parere della Suprema Corte, i giudici di merito, nel caso in esame, si erano attenuti a tale principio, in quanto hanno ritenuto che i fatti contestati - con specifico riguardo alla loro illiceità volta a lucrare un vantaggio economico simulando la durata della trasferta oltre i tempi necessari, approfittando della fiducia accordata ai dipendenti dal datore di lavoro - fossero idonei a giustificare la più grave delle sanzioni, a prescindere dalla recidiva e, quindi, dalla operatività della clausola contrattuale richiamata.


Licenziamento disciplinare e tutela ex art. 18 St. Lav.

Cass. Sez. Lav. 19 ottobre 2017, n. 24743

Pres. Napoletano; Rel. Spena; Ric. P. S.r.l. e D. S.r.l.; Controric. P.G.;

Lavoro - Lavoro Subordinato - Licenziamento - Licenziamento disciplinare - Tutela ex art. 18 St. Lav. - Presupposti - Requisiti dimensionali - Computo - Coniugi e parenti del legale rappresentante e dei soci dell'ente collettivo - Inclusione

Nel caso di datore di lavoro organizzato in forma societaria non sono configurabili rapporti di parentela che, ai sensi dell'art. 18 co. 2 L. 300/1970, escludano alcuni dipendenti dal computo del requisito dimensionale. La norma fa, infatti, riferimento a rapporti, il coniugio e la parentela entro il secondo grado, riferibili alle persone fisiche e non anche agli enti collettivi ed alle persone giuridiche. Non rileva, invece, il rapporto esistente con la persona del legale rappresentante o del socio dell'ente collettivo; tale ipotesi non rientra nella esclusione letteralmente prevista dall'art. 18 né nella sua ratio, che è quella di salvaguardare il rapporto fiduciario esistente tra persone fisiche e non riproducibile rispetto alla persona giuridica. 

Nota

Nella sentenza in commento, la Suprema Corte risolve alcune questioni interpretative concernenti i licenziamenti disciplinari ed il relativo regime di tutela del lavoratore ex art. 18 St.Lav.
Nel caso di specie, un dipendente - nipote del presidente nonché socio della società datrice - veniva licenziato in tronco per insubordinazione e comportamento oltraggioso verso il presidente della società.
Il lavoratore contestava giudizialmente la legittimità del recesso, invocando la tutela ex art. 18 St.Lav. nei confronti del datore e di un'altra società a quest'ultimo collegata. Entrambi i giudici del merito accoglievano l'impugnativa. Segnatamente, la Corte di Appello reputava, anzitutto, integrato il requisito dimensionale di cui all'art. 18 cit., ritenendo, da un lato, configurabile un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro tra le predette due società e, dall'altro, computabili nella soglia numerica della norma statutaria anche i dipendenti legati da vincoli familiari ai vertici della società datrice; nel merito, giudicava legittima la condotta contestata al dipendente stante la provocazione dallo stesso subîta da parte del presidente della società datrice nonché valutato il contesto familiare nel quale l'episodio si era consumato.
Le due società proponevano ricorso per Cassazione, argomentando, da un lato, che la Corte territoriale avrebbe omesso di verificare se la condotta addebitata, quand'anche non idonea ad integrare la fattispecie della giusta causa, fosse comunque qualificabile come giustificato motivo soggettivo di licenziamento; dall'altro, che i Giudici del merito avrebbero errato computando nella soglia numerica di cui all'art. 18 cit. anche i figli dei due soci-amministratori della società datrice.
Il Collegio rigetta il ricorso.
Con riferimento al primo motivo di gravame, la Suprema Corte, pur ribadendo il granitico principio a mente del quale il giudice può valutare un licenziamento per giusta causa in termini di licenziamento per giustificato motivo soggettivo senza che ciò comporti violazione dell'art. 112 c.p.c., osserva come, nel caso di specie, la Corte territoriale abbia espressamente escluso «la sussistenza dei presupposti per il recesso», così negando la configurabilità non solo della giusta causa, bensì anche il motivo soggettivo di licenziamento.
Quanto al secondo profilo di censura, la Cassazione ricorda come «nel caso di datore di lavoro organizzato in forma societaria non sono configurabili rapporti di parentela che, ai sensi dell'art. 18 co. 2 L. 300/1970 escludano alcuni dipendenti dal computo del requisito dimensionale». La norma - osserva la Corte - fa, infatti, riferimento a rapporti, il coniugio e la parentela entro il secondo grado, riferibili alle persone fisiche e non anche agli enti collettivi ed alle persone giuridiche. Non rileva, invece, il rapporto esistente con la persona del legale rappresentante o del socio dell'ente collettivo; tale ipotesi non rientra nella esclusione letteralmente prevista dall'art. 18 cit. né nella sua ratio, che è quella di salvaguardare il rapporto fiduciario esistente tra persone fisiche e non riproducibile rispetto alla persona giuridica.
 

Dichiarazione del lavoratore inviata al proprio difensore e rinuncia all’impugnazione del licenziamento

Cass. Sez. Lav. 18 ottobre 2017, n. 24559

Pres. Nobile; Rel. Cinque; Ric. M.U.; Controric. F.M. S.r.l.; 

Lavoro subordinato - Licenziamento - Rinunce e transazioni - Natura disponibile dell’impugnazione del licenziamento - Sussistenza - Dichiarazione sottoscritta dal lavoratore ed inviata al proprio difensore - Valore di rinuncia o transazione - Requisiti

La dichiarazione sottoscritta dal lavoratore può assumere valore di rinuncia o di transazione, con riferimento alla prestazione di lavoro subordinato ed alla conclusione del relativo rapporto, sempre che risulti accertato, sulla base dell'interpretazione del documento, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati ovvero obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi. Il relativo accertamento costituisce giudizio di merito, censurabile, in sede di legittimità, soltanto in caso di violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale o in presenza di vizi della motivazione.

Nota

Nel caso in esame il lavoratore veniva licenziato all’esito di una procedura di licenziamento collettivo e impugnava il recesso. In seguito lo stesso veniva assunto, con contratto a termine, dalla stessa società che lo aveva licenziato in precedenza e comunicava, mediante raccomandata al proprio difensore, che non intendeva più promuovere alcuna azione per contestare l’avvenuta cessazione del rapporto nei confronti della società datrice di lavoro. Alcuni mesi dopo il lavoratore promuoveva tentativo di conciliazione finalizzato all’impugnazione sia del recesso che del successivo contratto a termine. La Corte d’Appello di Roma, ribaltando la decisione resa dal Tribunale di Cassino in primo grado, riteneva fondato il motivo d’appello proposto dalla società datrice in relazione alla rinuncia all’impugnazione. Secondo la Corte, infatti, la comunicazione inviata al proprio difensore da parte del lavoratore si configurava, a tutti gli effetti, come un’ordinaria rinuncia all’impugnazione del recesso, effettuata in sede non protetta e divenuta non più impugnabile per lo spirare del termine semestrale previsto dall’art. 2113 c.c..
Contro la decisione della Corte d’Appello ricorreva in Cassazione il lavoratore articolando vari motivi, tutti attinenti all’interpretazione e alla qualificazione della dichiarazione di cui sopra.
Secondo il lavoratore, in particolare, il documento in esame non poteva essere qualificato come rinuncia in quanto non era mai stato consegnato alla società, non poteva essere pubblicamente rivelato poiché indirizzato a soggetto, il difensore, tenuto al segreto professionale e, infine, non era concepibile una rinuncia gratuita al diritto di ottenere la reintegra. In aggiunta, il comportamento complessivo del lavoratore non era, secondo lo stesso, compatibile con la volontà di rinunciare all’impugnativa del licenziamento.
La Corte di Cassazione ha ritenuto infondati tutti i motivi proposti e rigettato il ricorso.
Secondo la Suprema Corte, infatti, il diritto all’impugnazione del licenziamento è disponibile e ben può essere oggetto di una dichiarazione sottoscritta dal lavoratore che assume il valore di rinuncia, anche gratuita, a condizione che «risulti accertato, sulla base dell'interpretazione del documento, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati ovvero obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi».
Secondo la Suprema Corte, nel caso di specie, la corte territoriale ha fatto corretta applicazione di tali principi avendo accertato, sulla base di elementi di fatto e del dato letterale del testo, che «era stata espressa la chiara e consapevole volontà di non volere più contestare l'avvenuta cessazione del rapporto di lavoro».
A completamento del suo ragionamento, la Cassazione ha escluso che il comportamento del lavoratore successivo allo spirare del termine semestrale per impugnare la rinuncia potesse avere rilievo ai fini del giudizio, così come il fatto che la comunicazione fosse indirizzata al proprio legale e non alla società datrice di lavoro: è ragionevole - conclude la Corte a tale proposito - che la comunicazione fosse inviata dal lavoratore al proprio legale e non alla controparte, essendo successiva al conferimento di un mandato alla stessa connesso.

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